Le conseguenze dovute al lockdown che ha imposto dall’11 marzo 2020 sino al 18 maggio 2020 forti limitazioni e chiusure alll’attività di commercio al dettaglio di beni diversi da generi alimentari sul contratto contratto di affitto di azienda non sono dunque né solamente quelle della impossibilità totale temporanea (che comporterebbe il completo venir meno del correlato obbligo di corrispondere la controprestazione, v.si Cass. 9816/2009) né quelle della impossibilità parziale definitiva (che determinerebbe, ex art. 1464, una riduzione parimenti definitiva del canone): trattandosi di impossibilità parziale temporanea, il riflesso sull’obbligo di corrispondere il canone sarà dunque quello di subire, ex art. 1464 c.c. una riduzione destinata, tuttavia, a cessare nel momento in cui la prestazione della resistente potrà tornare ad essere compiutamente eseguita (nel senso di porre nuovamente a disposizione della ricorrente un ramo di azienda utilizzabile secondo la destinazione di luogo di vendita al dettaglio prevista dal regolamento contrattuale, come poi accaduto a far data dal 18 maggio 2020).

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Tribunale|Roma|Sezione 5|Civile|Ordinanza|25 luglio 2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

(…) S.P.A. (C.F. -omissis-), con il patrocinio dell’avv. (…) elettivamente domiciliato in Indirizzo

Telematico presso il (…)

difensore

ATTORE/I

contro

(…), con il patrocinio

dell’avv. (…) elettivamente domiciliato in VIA (…) presso il difensore (…)

CONVENUTO/I

Il Giudice dott. Fabiana Corbo,

a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 11/06/2020,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

Con ricorso ex art. 700 c.p.c. la (…) s.p.a. ha chiesto accertarsi e dichiararsi, sin dall’11.3.2020, la risoluzione del contratto di affitto del ramo di azienda – avente ad oggetto la vendita al dettaglio di articoli da regalo e casalinghi, mobili e arredo con insegna “(…)” – stipulato il 15.3.2019 con la (…) s.r.l., o , in subordine, la sospensione del canone di affitto e di tutti gli obblighi contrattualmente previsti.

La ricorrente ha all’uopo rappresentato come l’impossibilità di esercitare l’azienda a causa dei provvedimenti governativi emanati per contrastare l’emergenza Covid-19 abbia determinato un grave squilibrio del sinallagma contrattuale, con drastico peggioramento della situazione economica e finanziaria della affittuaria, trovatasi nella difficoltà di continuare a rispettare gli impegni assunti con fornitori, dipendenti e banche; ha spiegato che, per effetto dei successivi dd.pp.cc.mm., a causa dell’emergenza sanitaria, a partire dall’11 marzo 2020 e sino al 3 maggio 2020 l’attività aziendale della ricorrente si è dovuta sospendere con la imposta chiusura del punto vendita posto all’interno del Centro Commerciale (…).

A sostegno della propria istanza, la ricorrente ha invocato le fattispecie di cui agli artt. 1623 e 1467 c.c. evidenziando l’esistenza di un diretto legame tra la notevole modifica e l’attività della pubblica amministrazione come evento imprevisto ed imprevedibile al momento della conclusione del contratto; “ad abundantiam” ha, inoltre, rappresentato l’esistenza dei presupposti per far valere un “indebito arricchimento” e l'”impossibilità sopravvenuta” (essendo venuta meno la garanzia della produttività dell’azienda affittata).

La ricorrente ha, infine, richiamato la decretazione d’urgenza (D.L. 17.3.2020, n. 18) ritenendola applicabile in via analogica al caso di specie, laddove stabilisce che “il rispetto delle misure di contenimento…è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c. della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti” (art. 91 d.l. cit.).

Si è costituita la resistente premettendo che: “(…) S.p.A. aveva già nel recente passato manifestato a (…) l’intenzione di risolvere o, comunque, rinegoziare l’affitto d’azienda stipulato con la resistente che – per ragioni che qui non rileva neppure approfondire – (…) non giudicava soddisfacente. E ciò già diversi mesi prima che intervenissero gli oltremodo noti provvedimenti di contenimento dell’epidemia da Covid-19 che hanno comportato la sospensione parziale (anche) dell’attività imprenditoriale della ricorrente”.

Tanto premesso, la resistente ha chiesto il rigetto dell’avverso ricorso eccependo, in particolare, il difetto del fumus boni iuris in relazione alle fattispecie invocate dalla controparte.

Il ricorso non può essere accolto.

I. Deve in primo luogo rilevarsi l’inammissibilità del ricorso teso ad ottenere la dichiarazione di risoluzione del contratto di affitto di azienda.

Sul punto deve osservarsi come la questione giuridica relativa all’ammissibilità o meno del ricorso alla tutela cautelare atipica di cui all’art. 700 c.p.c. sia ancora controversa sia in dottrina che in giurisprudenza. Alcune pronunce di merito ammettono il ricorso ex art. 700 c.p.c. Tale orientamento non appare tuttavia condivisibile. Ammettere in tali casi la tutela di urgenza significherebbe riconoscere, senza un giudizio a cognizione piena ed una pronuncia passibile di giudicato, tutela ad un diritto che non è ancora venuto in essere. Secondo una diversa e più convincente prospettiva interpretativa, la tutela urgente deve ritenersi ammissibile solo in presenza di diritti preesistenti alla stessa pronuncia richiesta al giudice, posto che il provvedimento cautelare non deve alterare in alcun modo il momento operativo della pronuncia di merito (v.si Trib. Bari, sez. lav., 9 giugno 2008 e Trib. Salerno, 1 dicembre 2004).

Secondo tale indirizzo, quindi, le sentenze costitutive non sarebbero suscettibili di tutela urgente, proprio perché per il tramite della tutela ex art. 700 c.p.c. si produrrebbe la costituzione del rapporto giuridico che dovrebbe essere realizzata con la sentenza di merito.

Occorre anche osservare che anche nei casi in cui si ammette la tutela ex art. 700 c.p.c.

Per azioni di carattere costitutivo, in realtà ciò che viene anticipato con la pronuncia cautelare non è il provvedimento costitutivo in sé e per sé, quanto, piuttosto, la soddisfazione degli obblighi e degli effetti consequenziali alla pronuncia costitutiva, (così come si è verificato in tema di servitù di passaggio, in cui con lo strumento della tutela d’urgenza è stato ordinato al proprietario del fondo limitrofo di consentire il passaggio all’istante).

Ebbene, nel caso in esame non si invoca la tutela cautelare atipica degli effetti consequenziali, ma, sic et simpliceter, l’anticipazione della decisione di merito.

II. La ricorrente ha chiesto, in via subordinata, ordinarsi la sospensione del canone di affitto e di tutti gli obblighi contrattualmente previsti.

Dal contesto del ricorso si evince che tale richiesta non fa riferimento ad una mera proroga dei termini di adempimento ma all’esonero dell’obbligo di eseguire la prestazione per un periodo di tempo determinato. Tale richiesta pare discendere non dalla fattispecie, pur invocata dalla ricorrente in prima battuta, della eccessiva onerosità sopravvenuta, ipotesi patologica incompatibile con la prosecuzione del rapporto contrattuale e che sfocia nella risoluzione del contratto, quanto nell’altra ipotesi, comunque richiamata, della impossibilità sopravvenuta temporanea che sembrerebbe, in astratto, potersi applicare al caso in esame.

Va detto, invece, che il richiamo alla normativa emergenziale, non offre elementi nella direzione indicata dalla ricorrente: è sufficiente osservare sul punto che non vi è alcuna norma di carattere generale che preveda una sospensione dell’obbligo di corrispondere i canoni di locazione. L’assenza, da un lato, di una norma generale che detti una disciplina per tutti i rapporti di durata e la presenza, dall’altro, di una moltitudine di regole speciali evocate dalla stessa difesa della ricorrente, impone di prendere atto che il legislatore ha inteso, in relazione a talune, pur numerose, fattispecie, assumere iniziative di agevolazione, ma nulla ha voluto disporre in ordine al quantum ed al quando del pagamento dei canoni di locazione commerciale o di affitto di azienda. Non è dunque possibile applicare in questa sede alcuna norma sospensiva dell’obbligo di pagamento di canoni di affitto di azienda tratta dalla disciplina emergenziale ad oggi adottata, per la ragione – tanto semplice quanto decisiva – che una norma di tal fatta non esiste.

Per quanto riguarda l’impossibilità sopravvenuta, la ricorrente sostiene che la corrispettività nel contratto di affitto di azienda si pone più che tra canone e godimento del bene, tra canone e produttività, poiché incombe sull’affittante l’obbligo di garantire la produttività, garanzia venuta meno nel caso concreto a causa della chiusura del centro commerciale.

Ebbene, sottoscrivendo il contratto la ricorrente ha acquisito un ramo di azienda comprensivo di una serie di diritti tra i quali il diritto di esercitare all’interno dei locali del Centro Commerciale l’attività di vendita al dettaglio; a tali diritti corrispondono altrettanti obblighi della concedente, che si è quindi impegnata a mettere a disposizione delle ricorrente un complesso di beni comprensivi, oltre che del diritto di uso dei locali, anche del diritto a svolgere attività di vendita al dettaglio.

Ciò premesso, è circostanza pacifica che dalla data dell’11 marzo 2020 e sino al 18 maggio 2020 l’attività di commercio al dettaglio di beni diversi da generi alimentari sia stata sospesa sul territorio nazionale e che, dunque, il bene-azienda locato non abbia potuto, in quel periodo, essere utilizzato per l’uso pattuito: in quel periodo, in altri termini, il diritto a svolgere attività di vendita al dettaglio, rientrante nell’oggetto del contratto di affitto di azienda, è rimasto sospeso.

Occorre, pertanto, chiedersi quali siano le conseguenze di tale divieto sul regolamento contrattuale, ed in particolare sull’obbligo di corrispondere il canone pattuito.

La soluzione alla questione risiede, ad avviso di questo giudicante, in una applicazione combinata sia dell’articolo 1256 c.c. (norma generale in materia di obbligazioni) che dell’articolo 1464 c.c..(norma speciale in materia di contratti a prestazioni corrispettive).

Nel caso di specie ricorre, difatti, una (del tutto peculiare) ipotesi di impossibilità della prestazione della resistente allo stesso tempo parziale (perché la prestazione della resistente è divenuta impossibile quanto all’obbligo di consentire all’affittuario, nei locali aziendali, l’esercizio del diritto di svolgere attività di vendita al dettaglio, ma è rimasta possibile, ricevibile ed utilizzata quanto alla concessione del diritto di uso dei locali, e quindi nella più limitata funzione di fruizione del negozio quale magazzino e deposito merci) e temporanea (perché l’inutilizzabilità del ramo di azienda per la vendita al dettaglio è stata ab origine limitata nel tempo, per poi venir meno dal 18 maggio 2020).

Le conseguenze di tale vicenda sul contratto non sono dunque né solamente quelle della impossibilità totale temporanea (che comporterebbe il completo venir meno del correlato obbligo di corrispondere la controprestazione, v.si Cass. 9816/2009) né quelle della impossibilità parziale definitiva (che determinerebbe, ex art. 1464, una riduzione parimenti definitiva del canone): trattandosi di impossibilità parziale temporanea, il riflesso sull’obbligo di corrispondere il canone sarà dunque quello di subire, ex art. 1464 c.c. una riduzione destinata, tuttavia, a cessare nel momento in cui la prestazione della resistente potrà tornare ad essere compiutamente eseguita (nel senso di porre nuovamente a disposizione della ricorrente un ramo di azienda utilizzabile secondo la destinazione di luogo di vendita al dettaglio prevista dal regolamento contrattuale, come poi accaduto a far data dal 18 maggio 2020).

In conclusione, si ritiene che avendo la resistente potuto eseguire (pur senza colpa, ma per factum principis) dall’11 marzo al 18 maggio 2020 una prestazione solo parzialmente conforme al regolamento contrattuale, la ricorrente abbia diritto ex art. 1464 c.c. ad una riduzione del canone limitatamente al solo periodo di impossibilità parziale, riduzione da operarsi, nella sua determinazione quantitativa, avuto riguardo: a) alla sopravvissuta possibilità di utilizzazione del ramo di azienda nella più limitata funzione di ricovero delle merci, correlata al diritto di uso dei locali; b) al fatto che è il ramo di azienda è pur sempre rimasto nella materiale disponibilità della ricorrente. Per quanto detto, potrebbe ipotizzarsi una riduzione, tenuto conto del fatto che la porzione di prestazione rimasta ineseguita è oggettivamente quella di maggior significato economico nell’ambito del sinallagma (la resistente ha preso in locazione un ramo di azienda – costituito, in buona sostanza, da un negozio – per poter esercitare la vendita al dettaglio, e da ciò trae del resto le risorse necessarie al pagamento del canone) nella misura del 70%, pari – rispetto ad un canone di affitto che parte ricorrente ha indicato in euro 7.730,00 mensili – per tutto il periodo di blocco, di poco superiore ai due mesi, a circa euro 15.000,00 complessivi.

Restano integralmente dovute ed in alcun modo suscettibili, sotto il profilo del fumus boni iuris, di poter non essere pagate o anche solo differite nei tempi di adempimento (fatta salva una tuttora auspicabile intesa che dovesse intervenire tra le parti), accanto alla quota del 30% di canone comunque da corrispondere, ma anche gli oneri “comuni” diretti ed indiretti, in quanto connessi alla disponibilità materiale dei locali che è rimasta, anche nel periodo di chiusura, in capo alla ricorrente.

III. Il limitato riconoscimento del fumus boni iuris (si è detto per un importo pari ad euro 15.000,00 circa) rende di per sé complessa la concessione di una misura cautelare, sotto il profilo della possibilità di predicare la presenza di un fondato rischio che, laddove non venga inibito il pagamento di detta somma, la ricorrente possa subire un pregiudizio irreparabile.

Nella specie rileva, quale elemento di segno contrario al riconoscimento di tale necessario presupposto, l’assenza di deduzioni di parte ricorrente diverse dalla mera difficoltà di fronteggiare il pagamento delle somme dovute, difficoltà che, tenuto conto del fatturato complessivo dell’azienda (dedotto dalla parte resistente e non contestato dalla ricorrente), e dell’importo relativamente contenuto del canone che potrebbe essere ridotto, per un periodo inferiore ai due mesi, a fronte di un contratto di lunga durata, non pare, comunque, potersi tradurre in un pregiudizio irreparabile che giustifichi l’invocata cautela.

Per quanto detto, il ricorso va respinto. La novità delle questioni trattate e quanto osservato in tema di fumus boni iuris, giustifica la compensazione delle spese.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Compensa le spese. Si comunichi,

Roma, 25 luglio 2020

Depositata in cancelleria il 25 luglio 2020.
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Avv. Umberto Davide

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