In tema di condominio, il principio della comproprietà dell’intero muro perimetrale comune di un edificio legittima il singolo condomino ad apportare ad esso (anche se muro maestro) tutte le modificazioni che gli consentano di trarre, dal bene in comunione, una peculiare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini (e, quindi, a procedere anche all’apertura, nel muro, di un varco di accesso ai locali di sua proprietà esclusiva), a condizione di non impedire agli altri condomini la prosecuzione dell’esercizio dell’uso del muro – ovvero la facoltà di utilizzarlo in modo e misura analoghi – e di non alterarne la normale destinazione e sempre che tali modificazioni non pregiudichino la stabilità ed il decoro architettonico del fabbricato condominiale

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Tribunale|Roma|Sezione 5|Civile|Sentenza|12 marzo 2020| n. 5088

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI ROMA

SEZIONE QUINTA CIVILE

in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott. Sebastiano Lelio Amato, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa di primo Grado iscritta al n. r.g. 36358/2015 promossa da:

EL.CA., c.f. (…), nata il (…) a Tagliacozzo,

con il patrocinio dell’avv.: SA.EM.

Parte attrice

contro

AN.LA., nata (…);

DO.CA., nato (…), con il patrocinio dell’avv.: ST.MA.

Parte convenuta

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione, ritualmente notificato, la sig.ra EL.CA. evocava in giudizio i signori Do.Ca. e AN.LA., ed esponeva:

di essere proprietaria di un’unità immobiliare in Roma, via (…), loc. Ostia Antica, inserita in un complesso residenziale pentafamiliare a schiera, identificato con il n. 4 nella planimetria allegata alla citazione;

che i sig.ri CA. e LA. erano proprietari di altra unità immobiliare con annesso giardino, posta anch’essa all’interno del complesso di cui sopra ed identificata con il n. 1; che nel mese di marzo 2010 l’attrice si era avveduta della realizzazione, da parte dei convenuti, di tre tettoie delie dimensioni rispettivamente di m 3,6 x 7,7, 2,4 x 3,8, 2,5 x 7, in ordine alle quali chiedeva l’intervento dei VVUU;

che a seguito dell’esposto da lei presentato, il Tribunale di Roma, con sentenza del 21.5.2014, accertava che le costruzioni di cui sopra erano state realizzate in assenza dei permessi previsti per legge; che i predetti CA. e LA. avevano realizzato abusivamente anche un’apertura sul muro perimetrale in comproprietà con i titolari degli altri immobili del comprensorio, con installazione di un cancelletto in ferro largo circa 0,8 m; ciò in assenza di qualsiasi autorizzazione di questi ultimi;

che nonostante la sentenza penale, gli odierni convenuti non avevano provveduto a ripristinare lo status quo mediante la demolizione delle opere abusive realizzate;

che le tettoie, oltre ad essere state costruite in violazione delle norme in materia edilizia ed urbanistica, ledevano il decoro architettonico dell’intero complesso residenziale;

che anche la realizzazione di un’apertura sul muro comune costituiva lesione del decoro architettonico ed utilizzo non consentito del bene comune.

Ciò esposto, gli attori concludevano chiedendo all’adito Tribunale di “accertare la presenza nella proprietà dei signori La. e Ca. posta in Roma, via (…), di tre tettoie e di una apertura sul muro perimetrale del complesso residenziale di cui fa parte la predetta unità immobiliare, realizzate in violazione del decoro architettonico dell’intero compendio immobiliare in cui insiste l’unità abitativa dell’attrice e per l’effetto ordinare la rimozione e/o demolizione delle opere di cui sopra e il ripristino dello status quo ante. Con vittoria di spese, competenze ed onorari…”.

Si costituivano i signori La. e Ca., i quali eccepivano il mancato esperimento del tentativo di mediazione e la carenza di interesse ad agire da parte dell’attrice, contestando comunque la fondatezza della domanda; chiedevano quindi in via preliminare di dichiarare l’improcedibilità del giudizio e nel merito di rigettare la domanda.

Esperito il tentativo di mediazione obbligatoria, con esito negativo, concessi i termini ex art. 183 co. 6 c.p.c., veniva disposta ed espletata una c.t.u..

All’udienza del 3.12.2019 le parti rassegnavano le proprie conclusioni riportandosi ai propri atti e reiterando anche le istanze istruttorie, segnatamente la nomina di un diverso c.t.u. (parte convenuta) e la nuova chiamata a chiarimenti dello stesso (parte attrice); il Giudice assegnava termini di cui all’art. 190 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Le tettoie per cui è causa, misurate e descritte dal c.t.u. alla pag. 31 e ss. del proprio elaborato, hanno costituito oggetto di una denuncia in sede penale, cui è seguita la sentenza con cui è stata accertata l’abusività delle opere (trattandosi di intervento che “deve essere fatto rientrare tra i casi di costruzione edilizia soggetta, per disposizione di legge ordinaria, a denuncia di inizio attività o a permesso di costruire…”, nella specie mancante).

L’irregolarità amministrativa e penale delle opere, tuttavia, non genera in modo automatico il diritto del vicino alla riduzione in pristino, dal momento che tale diritto consegue, nei rapporti privatistici, solo alla violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni, contenute nella Sezione VI del codice civile.

Per tale ragione, parte attrice ha fondato la sua domanda non sull’abusività delle opere sotto il profilo edilizio – urbanistico, ma sul pregiudizio che queste arrecherebbero al “decoro architettonico”.

In materia di Condominio, infatti, è prescritto che siano vietate, anche se eseguite nell’unità immobiliare in proprietà esclusiva, opere che “rechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico” (art. 1122 c.c.. Si v. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2743 del 11/02/2005, la quale ha affermato: “In tema di condominio, devono considerarsi vietate, ai sensi dell’art. 1122 cod. civ, le opere realizzate dal condomino nella proprietà esclusiva che comportino una lesione del decoro architettonico dell’edificio, non trovando al riguardo applicazione la norma dettata dall’art.1120 cod. civ. in tema d’innovazione delle parti comuni. (Nella specie, sono state ritenute illegittime le tettoie, che – pur essendo state realizzate nella proprietà esclusiva del condomino – comportavano un danno estetico alla facciata dell’edificio condominiale))”.

Il decoro architettonico dell’edificio viene inteso dalla giurisprudenza, ormai consolidata, come l’estetica data dall’insieme delle linee e delle strutture architettoniche, che connotano il fabbricato e gli imprimono una determinata, armonica fisionomia e specifica identità (v. ex multis Cass. 851 del 2007); l’estetica di cui si parla non è propria dei soli edifici di particolare pregio storico-artistico, ma di ogni fabbricato nel quale possa individuarsi “una linea armonica, sia pure estremamente semplice, che ne caratterizzi la fisionomia” (così Cass. 4 aprile 2008, n. 8830).

L’alterazione di tale decoro può correlarsi alla realizzazione di opere, che immutino l’originario aspetto anche soltanto di singoli elementi o punti dell’edificio, tutte le volte che l’immutazione sia suscettibile di riflettersi sull’insieme dell’aspetto del fabbricato.

In particolare, la S.C. (sent. n. 16098 del 27/10/2003) ha chiarito che “la tutela dei decoro architettonico – di cui all’art. 1120, secondo comma, cod. civ. – è stata disciplinata in considerazione della apprezzabile alterazione delle linee e delle strutture fondamentali dell’edificio, od anche di sue singole parti o elementi dotati di sostanziale autonomia, e della consequenziale diminuzione del valore dell’intero edificio e, quindi, anche di ciascuna delle unità immobiliari che lo compongono. Ne consegue che il giudice, per un verso, deve adottare, caso per caso, criteri di maggiore o minore rigore in considerazione delle caratteristiche del singolo edificio e/o della parte di esso interessata, accertando anche se esso avesse originariamente ed in qual misura un’unitarietà di linee e di stile, suscettibile di significativa alterazione in rapporto all’innovazione dedotta in giudizio, nonché se su di essa avessero o meno già inciso, menomandola, precedenti innovazioni. Per altro verso, deve accertare che l’alterazione sia appariscente e di non trascurabile entità e tale da provocare un pregiudizio estetico dell’insieme suscettibile di una apprezzabile valutazione economica, mentre detta alterazione può affermare senza necessità di siffatta specifica indagine solo ove abbia riscontrato un danno estetico di rilevanza tale, per entità e/o natura, che quello economico possa ritenervisi insito”.

Fatte queste premesse generali, va considerato che la presente fattispecie è caratterizzata dalla peculiarità che non si è in presenza dell’ipotesi più comune di Condominio (un fabbricato suddiviso in piani appartenenti a diversi proprietari), ma di villini a schiera autonomi e distinti, costituenti nel loro insieme un “pentafamiliare”, come lo definisce il c.t.u.; un Condominio non risulta formalmente costituito, non vi è regolamento e, come rilevato dal c.t.u., non vi sono opere o impianti comuni alle unità immobiliari delle parti se non il muro perimetrale (“il ‘muro perimetrale’ costituisce l’unico elemento edilizio da potersi ritenere parte comune di tutto il complesso edilizio pentafamiliare” – v. chiar. c.t.u., pag. 12).

Il problema preliminare che si pone è, quindi, di accertare se il decoro architettonico resti una qualità propria ed esclusiva di ciascuna villetta (in tal caso i proprietari delle altre villette non potrebbero opporsi ad alterazioni dello stesso), ovvero se esista (se sia tutelabile) un “decoro architettonico” dell’intero complesso, tale da trascendere l’individualità delle singole villette, consentendo a tutti (e ciascuno) i proprietari di opporsi ad iniziative edilizie assunte da altri che, pur eseguite su porzioni in proprietà esclusiva, risultino atte a turbare quell’insieme di linee e strutture che connotano la schiera di villette.

Va rilevato, al riguardo, che il complesso in questione è costituito da 5 unità abitative di due piani ciascuna, adiacenti l’una all’altra in sequenza, con sviluppo in orizzontale e con unitarietà tra i vari scomparti, sia nell’altezza che nella copertura del tetto, priva di soluzioni di continuità, e così pure nelle aree cortilive pertinenziali.

Si tratta, come osservato dal c.t.u., del prodotto di “un’unica iniziativa imprenditoriale”, o meglio di un’unica progettazione unitaria, in cui pertanto le singole unità immobiliari si pongono non come frammenti isolati, ma come parti di un tutto.

Si ritiene, pertanto, che l’armonia di fondo delle linee architettoniche che caratterizzano il “complesso penta familiare” rappresenti una qualità tutelabile, in quanto non privo di riflessi sul valore dello stesso e dei singoli immobili che ne fanno parte.

Da tale conclusione non consegue, però, che qualsiasi iniziativa che modifichi l’aspetto delle proprietà esclusive possa direttamente determinare un apprezzabile pregiudizio al decoro architettonico.

Esso riguarda l’aspetto esteriore del complesso immobiliare, e quindi il pregiudizio deve sostanziarsi in una modifica che sia tale da poter essere percepita dall’esterno, dal momento che, ove non vi sia visibilità (ovvero vi sia solo in minima parte e sotto particolari angolazioni visuali), il pregiudizio estetico si risolve in un fatto meramente privato, virtuale, perdendo ogni concretezza ed ogni idoneità ad intaccare in modo oggettivamente apprezzabile il valore economico degli altri beni immobili.

Nel caso in esame, difetta proprio il requisito della visibilità.

Rispondendo a specifico quesito, il c.t.u., nei chiarimenti alla sua relazione, ha precisato: “In merito alla possibilità di vedere gli abusi anche da fuori del pentafamiliare (“percepibili” da fuori) conferma che i lavori non sono in “posizione sfacciata”: per vederli si deve entrare nella proprietà dei convenuti: ciò è già in perizia e sarà qui confermato”.

Ne consegue che la lesione del decoro architettonico, che il c.t.u. ha ritenuto di ravvisare nella “molteplicità dei materiali usati” per la realizzazione delle tettoie e nel “loro troppo semplicistico criterio di amalgama compositivo”, non sussiste, in termini tecnico-giuridici, nel caso di specie.

Pertanto, la domanda relativa alle tettoie deve essere rigettata.

Riguardo alla apertura realizzata sul muro “comune”, può ritenersi la legittimità dell’intervento.

Il giurisprudenza si è statuito che “In tema di condominio, il principio della comproprietà dell’intero muro perimetrale comune di un edificio legittima il singolo condomino ad apportare ad esso (anche se muro maestro) tutte le modificazioni che gli consentano di trarre, dal bene in comunione, una peculiare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini (e, quindi, a procedere anche all’apertura, nel muro, di un varco di accesso ai locali di sua proprietà esclusiva), a condizione di non impedire agli altri condomini la prosecuzione dell’esercizio dell’uso del muro – ovvero la facoltà di utilizzarlo in modo e misura analoghi – e di non alterarne la normale destinazione e sempre che tali modificazioni non pregiudichino la stabilità ed il decoro architettonico del fabbricato condominiale” (v. Cass. Sez. II, 18/02/1998, n. 1708; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16097 del 27/10/2003; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3265 del 17/02/2005).

Si è invece ritenuto che costituiscano “uso indebito della cosa comune, alla stregua dei criteri indicati negli artt. 1102 e 1122 c.c., le aperture praticate dal condomino nel detto muro per mettere in collegamento locali di sua esclusiva proprietà, esistenti nell’edificio condominiale, con altro immobile estraneo al condominio, in quanto tali aperture alterano la destinazione del muro, incidendo sulla sua funzione di recinzione, e possono dar luogo all’acquisto di una servitù (di passaggio) a carico della proprietà condominiale” (Cass. 13 gennaio 1995, n. 360; 7 marzo 1992, n. 2273; 25 ottobre 1988, n. 5780″). E’ stato infatti segnalato che “il collegamento tra unità abitative determina la creazione di una servitù a carico di fondazioni e struttura del fabbricato”.

Nel caso di specie, tuttavia, il collegamento creato dal varco sul muro è tra il giardino di pertinenza della villetta dei convenuti e l’area esterna pubblica.

In mancanza di disposizioni regolamentari, l’intervento va quindi valutato solo in relazione ai limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c..

Tali limiti non risultano superati.

Invero, la destinazione del muro non muta, né (lo si evince dalle foto), viene reso più agevolmente superabile da eventuali malintenzionati, né è allegato o in qualsiasi modo risulta che sia stata compromessa la statica complessiva del muro.

Riguardo al “decoro”, in questo caso la questione di un possibile pregiudizio non si pone neppure.

Il “muro perimetrale” è definito dal c.t.u. una “parte comune di importanza architettonica e distributiva poco rilevante, ha la funzione di delimitare fisicamente il confine di proprietà di detto pentafamiliare ed è situato nella parte retrostante del complesso a distanza di circa sette metri dal canale di scolo”.

E’ evidente, anche dalle foto in atti, che si tratta di un muro di comunissima fattura, per di più posto nella parte retrostante dei villini, a breve distanza da un canale di scolo, di modo che la realizzazione, su di esso, di una piccola apertura chiusa da cancelletto metallico, non può in alcun modo arrecare un apprezzabile pregiudizio estetico.

La domanda di riduzione in pristino avanzata da parte attrice non può, pertanto, trovare accoglimento.

Le spese seguono la soccombenza processuale e vengono liquidate come da dispositivo.

Le spese di c.t.u., già liquidate con precedente decreto, vengono definitivamente poste a carico della parte attrice.

P. Q. M.

definitivamente pronunciando, il Tribunale rigetta la domanda.

Condanna la sig.ra EL.CA. alla refusione, in favore di parte convenuta, delle spese di lite, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre i.v.a., c.p.a. e spese generali come per legge.

Pone definitivamente a carico di parte attrice le spese di ctu.

Così deciso in Roma il 27 febbraio 2020.

Depositata in Cancelleria il 12 marzo 2020.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.