Corte di Cassazione, Sezione Lavoro civile Sentenza 20 aprile 2018, n. 9901

nell’ipotesi di demansionamento, il danno non patrimoniale e’ risarcibile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo (pure in mancanza di intenti discriminatori o persecutori idonei a qualificarlo come mobbing), alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale del dipendente, nonche’ all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore.

 

 

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro civile Sentenza 20 aprile 2018, n. 9901

Integrale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente

Dott. MANNA Felice – Consigliere

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12810-2013 proposto da:

(OMISSIS) S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1013/2012 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 28/11/2012 R.G.N. 382/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/01/2018 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega Avvocato (OMISSIS);

udito l’Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

1.1. Con ricorso al Tribunale del lavoro di Genova, (OMISSIS) chiedeva accertarsi il grave demansionamento subito ad opera della societa’ datrice di lavoro (OMISSIS) S.p.A., poi confluita nella (OMISSIS) S.p.A., a partire dal 2003 e cioe’ da quando detta dipendente, rientrata in servizio dopo un periodo di cassa integrazione, era rimasta sostanzialmente inattiva, cio’ fino al deposito del ricorso avvenuto il 2/9/2009. Il Tribunale accoglieva la domanda e condannava la societa’ a risarcire alla (OMISSIS) il danno biologico permanente, quantificato sulla base delle Tabelle milanesi ed aumentato per effetto della personalizzazione dello stesso, nonche’ il danno biologico e morale temporaneo e quello alla professionalita’.

1.2. La decisione era in parte confermata dalla Corte d’appello di Genova.

Ad avviso della Corte territoriale correttamente il giudice di primo grado non aveva ammesso la prova testimoniale richiesta dalla societa’ che, secondo l’assunto di quest’ultima, avrebbe dimostrato sia che la (OMISSIS), lungi dall’essere rimasta inattiva, aveva regolarmente lavorato presso gli uffici posta e viaggi, sia che la crisi che aveva colpito la societa’ aveva determinato una riduzione dell’organico che aveva inciso sull’assetto produttivo, atteso che tale prova era del tutto generica, priva di riferimento a situazioni e periodi specificamente individuati e, come tale, inidonea a smentire gli assunti puntuali e dettagliati della lavoratrice. Riteneva, inoltre, che l’esistenza di una crisi aziendale della societa’ non dimostrasse l’impossibilita’ in concreto di rinvenire un’occupazione lavorativa per la (OMISSIS), anche in considerazione della natura non altamente professionalizzata delle mansioni dalla stessa in precedenza svolte. Riteneva, poi, che fosse irrilevante l’intenzionalita’ del comportamento datoriale e che la societa’ non avesse dimostrato la non imputabilita’ dell’inadempimento. Quanto al danno biologico escludeva, sulla base della c.t.u., l’esistenza di altri fattori generatori di natura extralavorativa pregressi e concomitanti con la condotta illecita datoriale e considerava congrua la quantificazione del danno permanente e temporaneo come effettuata dal Tribunale. Escludeva solo il danno alla professionalita’ ritenendo che i compiti svolti dalla (OMISSIS) prima del demansionamento non richiedessero un bagaglio professionale specifico e tale da essere soggetto ad obsolescenza per decorso del tempo.

Per la Cassazione della sentenza ricorre (OMISSIS) S.p.A. con tre motivi.

(OMISSIS) resiste con controricorso.

La societa’ ha depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo la societa’ ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione dell’articolo 416 c.p.c., ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3. Lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto che la societa’ avesse contestato solo genericamente le deduzioni della controparte in merito al demansionamento subito.

1.2. Il motivo e’ inammissibile perche’ chiede alla Corte di cassazione di rinnovare un giudizio prettamente di merito.

Il principio di diritto enunciato dall’articolo 416 c.p.c. e’ che, a fronte della esposizione-allegazione di fatti costitutivi della domanda contenuta nel ricorso introduttivo, il convenuto, nel costituirsi, “deve prendere posizione, precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda” (cfr. ex multis Cass. 6 marzo 2009, n. 5454; Cass. 10 settembre 2013, n. 20716; Cass. 8 luglio 2014, n. 15527).

Nel caso di specie, la Corte d’appello ha rilevato che la (OMISSIS) S.p.A., nel costituirsi nel giudizio di primo grado, a fronte dei numerosi e dettagliati capitoli di prova formulati dalla (OMISSIS) sugli aspetti della sua vicenda lavorativa, puntualmente descritti con riferimento agli anni successivi al suo rientro in servizio dopo un periodo di cassa integrazione guadagni (si veda il contenuto dei suddetti capitoli riportato alle pagg. 34 e 35 del controricorso della (OMISSIS)), si era limitata ad affidare la propria replica ad una deduzione del tutto generica (….peraltro la ricorrente, sotto un profilo lavorativo, subi’ relativamente gli scossoni derivanti dalla crisi descritta. Le mansioni ripetitive cui la stessa da sempre era addetta permisero che ella reperisse attivita’ confacenti al livello ed alle esperienze pregresse anche negli uffici posta e viaggi citati in ricorso), priva di alcun riferimento a situazioni e periodi specificamente individuati e pertanto inammissibile come capitolazione istruttoria ed inidonea a smentire gli assunti puntuali e dettagliati della lavoratrice.

In tal modo la Corte ha correttamente applicato il principio di diritto su enunciato, valutando la memoria di costituzione in maniera conforme a tale principio e motivando adeguatamente le sue conclusioni.

Il ricorso per cassazione tenta di ribaltare questo giudizio, prospettando la tesi, meramente contrappositiva, che la memoria di costituzione della societa’ contenesse invece una contestazione sui fatti principali su cui si fondava la domanda.

Il motivo, dunque, per il suo contenuto, pone questioni inammissibili in sede di legittimita’ in quanto attinenti al merito della valutazione della Corte d’appello, come tale non sindacabile neppure sotto il profilo dell’adeguatezza motivazionale, essendo il ricorso soggetto al nuovo testo dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, cosi’ come risultante dalla modifica di cui al Decreto Legge n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012.

2.1. Con il secondo motivo la societa’ denuncia la violazione dell’articolo 2103 c.c. e articolo 2697 c.c. ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, nonche’ omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5. Censura la sentenza impugnata nella parte in cui non ha considerato che la variazione delle mansioni non e’ idonea a determinare un inadempimento imputabile al datore di lavoro quando rappresenta una extrema ratio, ritenendo che la comprovata crisi aziendale della (OMISSIS) S.p.A. e la conseguente riduzione del personale e di attivita’ non dimostrasse l’impossibilita’ di rinvenire, in concreto, un’occupazione lavorativa per la (OMISSIS), e in quella in cui non ha ammesso la prova testimoniale sul punto.

2.2. Il motivo e’ inammissibile sotto vari profili.

Il rilievo non si confronta innanzitutto con il decisum laddove la Corte territoriale ha considerato comprovata la crisi aziendale della (OMISSIS) S.p.A. e la conseguente riduzione del personale e pur tuttavia ritenuto che la stessa non dimostrasse in concreto l’impossibilita’ di rinvenire un’occupazione lavorativa per la (OMISSIS).

Come gia’ sopra evidenziato, era stata la stessa societa’, nella pur generica deduzione con cui aveva resistito all’avverso ricorso, ad affermare che la ricorrente sotto un profilo lavorativo subi’ relativamente gli scossoni derivanti dalla crisi (si veda il passaggio della comparsa di costituzione della societa’ riportato al punto 1.2.).

Inoltre la Corte territoriale ha spiegato le ragioni per le quali tale comprovata crisi aziendale non dovesse necessariamente determinare effetti sull’occupazione lavorativa della (OMISSIS), in considerazione della natura non altamente professionalizzata delle mansioni – meramente esecutive – in precedenza svolte, che la rendevano utilizzabile in una pluralita’ di compiti equivalenti.

Per il resto, il motivo, ad onta di un formale richiamo al vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti, si risolve nella critica della sufficienza del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non piu’ proponibile in seguito alla modifica dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 apportata dal Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 4 convertito in L. n. 134 del 2012, articolo 4.

Con orientamento (cui va data continuita’) espresso dalla sentenza 7 aprile 2014, n. 8053 (e dalle successive pronunce conformi), le Sezioni Unite di questa S.C., nell’interpretare la portata della novella, hanno in primo luogo notato che con essa si e’ assicurato al ricorso per cassazione solo una sorta di “minimo costituzionale”, ossia lo si e’ ammesso ove strettamente necessitato dai precetti costituzionali, supportando il giudice di legittimita’ quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.

Proprio per tale ragione le S.U. hanno affermato che non e’ piu’ consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realta’, ad una vera e propria violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Cio’ si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, di motivazione del tutto apparente, di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorieta’ e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in se’, esclusa la riconducibilita’ in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalita’ della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie.

Per l’effetto, il controllo sulla motivazione da parte del giudice di legittimita’ diviene un controllo ab intrinseco, nel senso che la violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4 deve emergere obiettivamente dalla mera lettura della sentenza in se’, senza possibilita’ alcuna di ricavarlo dal confronto con atti o documenti acquisiti nel corso dei gradi di merito. Secondo le S.U., l’omesso esame deve riguardare un fatto (inteso nella sua accezione storico- fenomenica e, quindi, non un punto o un profilo giuridico) principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioe’ dedotto in funzione probatoria).

Ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 anche l’omesso esame di determinati elementi probatori: basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all’esito dell’istruttoria come astrattamente rilevanti.

A sua volta deve trattarsi di un fatto (processualmente) esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione puo’ risultare gia’ soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlera’ di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale).

Sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico del ricorrente ai sensi dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e articolo 369 c.p.c., comma 2, n. 4: il ricorso deve indicare chiaramente non solo il fatto storico del cui mancato esame ci si duole, ma anche il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extra-testuale (emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonche’ il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisivita’.

L’omesso esame del fatto decisivo si pone, dunque, nell’ottica della sentenza n. 8053/14, come il tassello mancante (cosi’ si esprimono le S.U.) alla plausibilita’ delle conclusioni cui e’ pervenuta la sentenza rispetto a premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario.

Invece, con il mezzo in disamina, si lamentano, in sostanza, vizi di motivazione che non sarebbero stati denunciabili neppure alla luce del previgente testo dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5: in realta’ la censura suggerisce esclusivamente una rivisitazione del materiale istruttorio, affinche’ se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata. Ma non puo’ il ricorso per cassazione enucleare vizi di motivazione dal mero confronto tra le risultanze di causa, vale a dire attraverso un’operazione che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione non consentiti in sede di legittimita’ (v. Cass., Sez. U., n. 8053/2014 cit.).

3.1. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli articoli 2043 e 287 c.c., dell’articolo 116 c.p.c. ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, nonche’ omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5. Censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha riconosciuto il danno biologico in assenza di una intenzionalita’ della condotta e nella parte in cui ha ritenuto sussistente un nesso di causalita’ tra il demansionamento e le patologie da cui era risultata affetta la (OMISSIS) senza considerare fatti e circostanze extralavorative che avevano determinato un danno preesistente e senza disporre il rinnovo della c.t.u. pur in presenza di critiche rivolte dall’appellante.

Il motivo e’ nel complesso infondato oltre a presentare profili di inammissibilita’.

Questa Corte ha gia’ affermato che il lavoratore, al quale l’articolo 2103 c.c. – nella formulazione anteriore alle modifiche di cui al Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 81 entrato in vigore il 25 giugno 2015 riconosce esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per le quali e’ stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte, ha a fortiori il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattivita’ e senza assegnazione di compiti, ancorche’ in mancanza di conseguenze sulla retribuzione. In capo al lavoratore sussiste, dunque, non solo il dovere ma anche il diritto all’esecuzione della propria prestazione lavorativa – cui il datore di lavoro ha il correlato obbligo di adibirlo – costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalita’ di ciascun cittadino. La violazione di tale diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione e’ fonte di responsabilita’ risarcitoria per il datore di lavoro; responsabilita’ che, peraltro, derivando dall’inadempimento di un’obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilita’ contrattuale: sicche’, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, deve essere nondimeno esclusa – oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa all’esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall’articolo 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari – anche quando l’inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all’obbligato, fermo restando che, ai sensi dell’articolo 1218 c.c., l’onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore (cosi’ Cass. 2 agosto 2006, n. 17564; si vedano anche Cass. 2 gennaio 2002, n. 10; Cass. 6 marzo 2006, n. 4766; Cass. 16 maggio 2006, n. 11430; Cass. 27 febbraio 2007, n. 4500).

E’ stato ulteriormente precisato (Cass., Sez. U., 22 febbraio 2010, n. 4063) che, nell’ipotesi di demansionamento, il danno non patrimoniale e’ risarcibile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo (pure in mancanza di intenti discriminatori o persecutori idonei a qualificarlo come mobbing), alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale del dipendente, nonche’ all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore.

La responsabilita’ del datore di lavoro in tema di demansionamento quale illecito contrattuale prescinde, allora, da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti. In tal caso, l’ingiustizia del danno consegue alle violazioni di taluna delle situazioni giuridiche in cui il rapporto di lavoro si articola, sostanziandosi la condotta lesiva nelle specifiche modalita’ di gestione del rapporto di lavoro (cfr. anche Cass., Sez. U., 8 luglio 2008, n. 18623).

In effetti, precisato che la responsabilita’ del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo di prevenzione di cui all’articolo 2087 c.c. non e’ una responsabilita’ oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, da individuarsi nel difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore, va anche chiarito che il predetto obbligo di prevenzione impone all’imprenditore di adottare non soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attivita’ esercitata, che rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del lavoratore, ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificita’ del rischio, atteso che la sicurezza del lavoratore e’ un bene protetto dall’articolo 41 Cost., comma 2 (in tal senso v. Cass. 23 aprile 2012, n. 6337).

Ed allora non puo’ non sussistere un generale dovere di protezione del datore di lavoro nei confronti del prestatore di lavoro ai sensi dell’articolo 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, con la conseguenza che la relativa violazione si puo’ realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro, indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato.

Alla luce di tale principio, determinati comportamenti, imputabili a scelte del datore di lavoro, pur se non si’ caratterizzano per uno specifico intento persecutorio, laddove suscettibili di considerazione in termini di privazione e mortificazione per il lavoratore e dunque di idoneita’ offensiva (dimostrabile in vario modo, ad esempio attraverso la sistematicita’ e durata dell’azione nel tempo, le caratteristiche oggettive del demansionamento o della dequalificazione), possono, come tali, essere ascritti a responsabilita’ del datore di lavoro, che pertanto e’ chiamato a rispondere dei danni dai medesimi derivati.

Nella specie la Corte territoriale ha ritenuto fondati gli assunti della ricorrente circa il demansionamento subito al rientro in azienda successivo alla Cassa integrazione guadagni e per tutto il lungo periodo indicato in ricorso con precise scansioni temporali e circostanziati riferimenti (non smentiti dalla societa’ convenuta) in quanto la (OMISSIS) era rimasta forzatamente e totalmente inattiva in relazione alle mansioni e alla qualifica per le quali era stata assunta: ed infatti non le erano stati assegnati compiti da svolgere, nonostante sue richieste rimaste senza esito, le era stato finanche disattivato il telefono, le era stato negato di poter sostituire personale assente per maternita’, le era stato detto che l’azienda era a conoscenza della sua situazione ma che non c’erano istruzioni in merito.

Non vi e’ dubbio che l’evidenza dello svuotamento delle mansioni, la durata dello stesso, la conoscenza all’interno dell’azienda dell’operata dequalificazione integrassero una lesione del diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione e fossero fonte di responsabilita’ risarcitoria del datore di lavoro, non essendo emerso che l’inattivita’ della lavoratrice fosse in qualche modo riconducibile ad un lecito comportamento del datore di lavoro medesimo, in quanto giustificata dall’esercizio dei poteri imprenditoriali, garantiti dall’articolo 41 Cost., o dall’esercizio dei poteri disciplinari.

Esattamente, allora, la Corte territoriale ha qualificato questa situazione come di inadempimento della datrice di lavoro.

Quanto alle ulteriori censure, va ricordato che la violazione dell’articolo 116 c.p.c. e’ configurabile solo allorche’ il giudice apprezzi liberamente una prova legale, oppure si ritenga vincolato da una prova liberamente apprezzabile (Cass. n. 11892/2016, n. 13960/2014, n. 20119/2009, n. 26965/2007), circostanze, queste, insussistenti nel caso di specie.

Il rilievo concernente la c.t.u. espletata in grado di appello e la mancata rinnovazione della stessa pur in presenza di censure e’ inammissibile nella parte in cui il ricorrente non riporta in ricorso ne’ il contenuto dell’elaborato peritale ne’ le censure mosse a quest’ultimo, asseritamente disattese dalla Corte territoriale.

Peraltro, quanto al diniego di nuova c.t.u., per ormai consolidata giurisprudenza (cfr., ex aliis, Cass. 17 dicembre 2010, n. 25569), cui va data continuita’, la decisione – anche solo implicita – di non disporre una nuova indagine non e’ sindacabile in sede di legittimita’ qualora gli elementi di convincimento per disattendere la richiesta di rinnovazione della consulenza formulata da una delle parti siano stati tratti dalle risultanze probatorie gia’ acquisite e ritenute esaurienti dal giudice con valutazione immune da vizi logici e giuridici, come appunto – avvenuto nel caso in esame in cui la Corte territoriale ha tratto significativi elementi di valutazione in merito all’assenza di altri fattori generatori di natura extralavorativa sia dalla documentazione in atti e da tutte le certificazioni esaminate, da cui non era dato evincere una pregressa alterazione psichica sia dalle deposizioni testimoniali che convergevano nel medesimo senso.

Per il resto va richiamato quanto evidenziato al punto 2.2..

Anche il rilievo in esame non esprime altro se non l’aspettativa di un inammissibile sindacato di merito.

Peraltro, i fatti controversi da indagare (da non confondersi con la valutazione delle relative prove) sono stati manifestamente presi in esame dalla Corte territoriale; sicche’ giammai potrebbe trattarsi di omesso esame, ma di accoglimento di una tesi diversa da quella sostenuta dall’odierna ricorrente.

Conclusivamente il ricorso va rigettato.

La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.

Va dato atto dell’applicabilita’ del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimita’ che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

 

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.