Gli interessi di mora costituiscono infatti una forma di liquidazione preventiva dei danni cagionati all’istituto di credito dall’eventuale inadempimento del mutuatario, svolgendo altresì una funzione deterrente dell’inadempimento stesso, e hanno perciò natura di clausola penale, soggetta non già alla disciplina dell’art. 644 c.p. e dell’art. 1815 co. II c.c., bensì a quella dell’art. 1384 c.c. (ed eventualmente a quella dell’art. 33 co. II lett. f) D.Lgs. 206/2005).

 

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Tribunale Cremona, civile Sentenza 9 gennaio 2015

TRIBUNALE ORDINARIO DI CREMONA

SEZIONE ESECUZIONI IMMOBILIARI DI CREMONA CIVILE

Nella causa civile iscritta al n. r.g. OMISSIS/2012

Il Giudice dott. Giulio Borella,

a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 09/12/2014,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

Il giudice, sciogliendo la riserva, osserva quanto segue.

Con opposizione all’esecuzione M.F. e A.R deducono ususarietà del mutuo fondiario, speso quale titolo esecutivo da BANCA SPA, richiamando Cass. 350/2013, ossia chiedendo che, nella valutazione del superamento dei tassi soglia, sia tenuto conto anche degli interessi di mora e delle altre spese previste in caso di ritardato pagamento.

La censura appare infondata.

Deve premettersi – come già evidenziato nell’ordinanza 30.10.2014 di questo stesso giudice, reperibile in rete – che l’insegnamento di Cass. 350/2013 presenta non poche criticità, già evidenziate da attenta dottrina.

Al punto 3.2 della relativa motivazione si legge infatti che “ai fini dell’applicazione dell’art. 644 c.p. e dell’art. 1815 co. II c.c. si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono dati di promessi o convenuti a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori”.

Si richiama C. Cost. 29/2002 la quale, in un obiter dictum, afferma che “il riferimento, contenuto nel D.L. 394/2000 art. 1, gli interessi a qualunque titolo convenuti rende plausibile – senza necessità di specifica motivazione – l’assunto, del resto già fatto proprio dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori” (cfr. anche Cass. 5324/2003).

Vi è allora, da rilevare, in contrasto con quanto osservato dalla Suprema Corte (“l’eccessiva disinvoltura” della cui motivazione è stata sottolineata anche dall’ABF Napoli, collegio di Coordinamento, 2666/2014, che richiama anche la direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 2008/48/CE, art. 19, par. 2, e la proposta di direttiva COM 2011/142), che limita la propria analisi all’art. 644 co. V e all’art. 1 D.L. 394/2000, che vi è anche l’art. 644 co. I c.p., secondo il quale gli oneri che entrano nel calcolo dell’usura sono quelli che costituiscono un corrispettivo della dazione di denaro o di altra utilità.

Se così è, deve rilevarsi che in nessun caso gli interessi di mora possono considerarsi un corrispettivo del mutuo, non costituendo un costo economico del finanziamento, non per niente essendo destinati per lo più a rimanere dormienti e inapplicati, in caso di svolgimento fisiologico del rapporto.

Gli interessi di mora costituiscono infatti una forma di liquidazione preventiva dei danni cagionati all’istituto di credito dall’eventuale inadempimento del mutuatario, svolgendo altresì una funzione deterrente dell’inadempimento stesso, e hanno perciò natura di clausola penale, soggetta non già alla disciplina dell’art. 644 c.p. e dell’art. 1815 co. II c.c., bensì a quella dell’art. 1384 c.c. (ed eventualmente a quella dell’art. 33 co. II lett. f) D.Lgs. 206/2005).

Tale natura degli interessi di mora dovrebbe escludere che gli stessi possano entrare nel calcolo dell’usura, essendo la tutela del mutuatario rimessa al potere discrezionale del giudice di ridurne l’importo, laddove il loro ammontare appaia sproporzionato rispetto al danno effettivamente subito.

Tale conclusione appare vieppiù vera oggi, a d avviso di questo giudice, a seguito del D.L. 132/2014, convertito con L. 162/2014, che all’art. 17 co. I ha novellato – aggiungendovi due commi – l’art. 1284 ult. co. c.c., prevedendo che il saggio degli interessi, dal momento in cui è proposta la domanda giudiziale, ove non pattuito dalle parti, è pari a quello previsto dal D.Lgs. 231/2002, tasso che, notoriamente, quanto meno con riferimento a certe categorie di operazioni, quali i mutui, è sempre stato superiore al tasso soglia.

Ai primi commi la norma tratta degli interessi legali, ma essendo il maggior interesse riconosciuto dalla novella collegato ad una domanda giudiziale, la quale ha l’effetto di costituire il debitore in mora, si comprende trattarsi in realtà di interessi di mora, pur non apparendo estranea alla norma una finalità deflattiva e afflittiva, così che l’eventuale pattuizione del saggio consentita dalla novella ben pare potersi qualificare come clausola penale.

In ogni caso quindi le parti ben potrebbero oggi pattuire un interesse (di mora) pari o anche superiore a quello del D.Lgs. 231/2002, quindi superiore al tasso soglia, e non incorrere in usura, essendo la loro condotta conforme al nuovo dettato dell’art. 1284 c.c.

Non si vede dunque per quale ragione, nel caso di specie, il tasso di mora pattuito, pari al 5,75%, inferiore a quello del D.Lgs. 231/2002 (a maggio 2005 pari al 9,09%, alla data del pignoramento pari al 8%), dovrebbe essere usurario.

Più in generale non si comprende come possa conciliarsi l’idea che il tasso di mora contrattuale entri nel calcolo dell’usura, per la quale sono previste determinate soglie, a seconda della categoria di operazione, quando il legislatore del D.L. 132/2014 ne ha avallato la pattuizione in misura superiore a quelle soglie – seppure, prima facie, solo per la fase successiva all’instaurazione di un giudizio -, prevedendo esso stesso in mancanza di accordo, l’applicazione di un tasso di interesse superiore.

(O il legislatore è usuraio) o, contrariamente a Cass. 350/2013, i tassi di mora non entrano nel calcolo dell’usura, non costituendo un corrispettivo della dazione di denaro o altra utilità, oppure ancora vi entrano, ma è evidente che il tasso di riferimento per la verifica dell’usura non è e non può essere quello costituito da quello ricavato dal TEGM.

La soluzione più corretta sembra proprio la seconda: sembra cioè che, con l’art. 17 D.L. citato, il legislatore abbia anche, magari inconsciamente, fornito un’interpretazione autentica dell’art. 644 c.p., esaudendo che il tasso di mora entri nel calcolo dell’usura, e ciò per la ragione già esposta, ch’esso non costituisce un corrispettivo, ossia un costo del finanziamento, né il D.Lgs. 394/2000 fornisce argomenti in senso contrario, in quanto l’art. 1 non fa che chiarire la portata del co. I dell’art. 644 c.p., senza modificarlo.

Il legislatore quindi sembra muoversi nell’ambito del tradizionale e più corretto inquadramento degli interessi di mora nell’alveo della clausola penale e dell’art. 1384 e ss. c.c., con i rimedi previsti per il caso di eccessiva onerosità della stessa, non allineandosi alla linea interpretativa di Cass. 350/2013.

Ma anche a voler sostenere che gli interessi di mora debbano entrare nel calcolo dell’usura, la norma citata quanto meno rivela come il tasso soglia di riferimento non possa essere quello basato sul TEGM maggiorato, altrimenti veramente ci si troverebbe di fronte ad un legislatore schizofrenico, che da un lato vieta ciò che poi per altro verso consente.

Nell’ordinanza del 30.10,2014 di questo giudice si era sostenuto proprio questo, ossia che il tasso di mora non può essere confrontato col TEGM e con i tassi soglia sullo stesso basati.

Si ricorda come Cass. 350/2014 non abbia chiarito come dovrebbe effettuarsi il calcolo di usurarietà del mutuo, includendovi l’interesse di mora.

Senza ripercorrere il dibattito giurisprudenziale e dottrinario scatenatosi all’indomani della sentenza (per il quale si rinvia alla detta ordinanza), appare ormai chiaro come non si possano a tal fine semplicemente sommare algebricamente interessi corrispettivi e di mora, essendo prevalso l’orientamento che vuole che si vada a calcolare il concreto onere economico dell’applicazione degli oneri di mora, deriva al mutuatario.

Ma ciò ancora non basta, in quanto occorre chiarire se il calcolo del TAEG di mora che ne deriva vada effettuato con riferimento all’intera rata o alla sola quota capitale della stessa e, ancora, con quale tasso soglia vada poi effettuato il raffronto, con quello ricavato dal TEGM (+50% all’epoca della stipula del contratto oggetto di causa; TEGM X 1,25 + 4 oggi) o con altro tasso soglia specifico per gli interessi di mora.

Ora ad avviso di questo giudice occorre effettuare le seguenti considerazioni, prima di dare risposta alla prima domanda e optare per l’uno o per l’altro orientamento.

Innanzitutto è noto che le rilevazioni trimestrali dei tassi effettivi globali medi da parte della Banca d’Italia non hanno mai tenuto conto degli interessi di mora (se non a fini meramente statistici e conoscitivi).

E’ stato detto trattarsi di scelta opportuna, in quanto, se gli interessi di mora fossero conteggiati nel TEGM, si avrebbe un generale innalzamento di quest’ultimo, con il risultato di consentire alle banche, a tutto svantaggio dei clienti, di aumentare gli interessi corrispettivi dei singoli mutui e con ciò il costo del finanziamento.

Dalla mancata inclusione degli interessi di mora nel TEGM consegue però che, come rileva la Banca d’Italia, in una nota di chiarimento del 03.07.2013 (emessa quindi all’indomani della sentenza Cass. 350/2013), seppure gli interessi di mora siano assoggettati alla legge antiusura, per evitare il confronto tra “grandezze” disomogenee (TAEG applicato al cliente, comprensivo di interessi moratori, e TEGM comprensivi della mora), occorre procedere ad un nuovo calcolo, tenuto conto che i decreti trimestrali riportano i risultati di un’indagine statistica (del 2002!) per cui la maggiorazione mediamente stabilita per i casi di ritardato pagamento è del 2,1%.

Ma anche una volta ricalcolato il tasso soglia di riferimento, rimane il problema è diversa è la base del calcolo e il periodo di riferimento di interessi corrispettivi e interessi di mora, gli uni essendo collegati all’ammontare complessivo del finanziamento e alla sua durata, i secondi all’importo non pagato, normalmente coincidente con la rata.

Ciò dovrebbe escludere che la verifica del rispetto della normativa antiusura debba avvenire sulla scorta di un conteggio unico, nel quale inserire e diluire interessi corrispettivi e interessi moratori.

Ne discende che il momento fisiologico del rapporto e quello patologico debbono essere distintamente considerati ai fini della verifica antiusura.

Se quindi è vero, come osserva il Tribunale di Milano, nell’ordinanza 28.01.2014, che non si può procedere alla somma aritmetica degli interessi corrispettivi e degli interessi di mora, non si ritiene però di condividere la restante parte del ragionamento, laddove si prevede che la mora, pur essendo riferita alla singola rata scaduta, vada comunque ricompresa nella complessiva verifica dell’usura del credito concesso, così che l’aggregato di interessi corrispettivi e di mora viene rapportato al credito in essere al momento dell’inadempimento.

Non può infatti non rilevarsi che in tal modo gli oneri di mora vengono inseriti e rapportati ad un piano di finanziamento e ad un credito erogato (o alla parte di esso restante alla data dell’inadempimento), quando per legge la mora costituisce il risarcimento dei danni cagionati dall’inadempimento, ossia, nella specie, dal mancato pagamento della singola rata.

Il tutto a tacere del fatto che, sempre secondo il metodo di calcolo proposto dal Tribunale di Milano, la mora non si avrebbe mai, neppure quando il tasso di mora fosse ex se superiore al tasso soglia (o al TEGM maggiorato di 2.1 punti, o, ancora, al diverso tasso soglia che si intenda adottare con riferimento agli interessi di mora).

Del resto lo stesso Tribunale di Milano, nell’ordinanza 28.01.2014, osserva come l’usura potrebbe verificarsi solamente in caso di inadempimento prolungato per molto tempo, cosa però incompatibile con permanenza in vita del rapporto tenuto conto che, normalmente, nei mutui quando l’inadempimento si protrae per oltre sei mesi viene comunicata la decadenza dal beneficio del termine.

Ma d’altro canto, a seguire il metodo di calcolo proposto dall’opposta tesi, ossia la somma degli oneri corrispettivi e di quelli da inadempimento relativi a ciascuna rata, con successivo confronto degli stessi con la quota capitale della rata stessa, si perverrebbe all’equivoco opposto al precedente, ossia che l’usura si verificherebbe, sempre, tenuto conto che la quota interessi (corrispettivi) di ciascuna rata è normalmente elevata e basterebbe aggiungervi anche un importo minimo a titolo di oneri di mora per avere usura.

La verità è che, costituendo interessi di mora e interessi corrispettivi grandezze del tutto disomogenee, ognuno di essi va rapportato a quello che è il suo naturale punto di riferimento: gli interessi corrispettivi al finanziamento erogato; gli interessi di mora all’inadempimento.

Da questo punto di vista la rata impagata perde la sua scomposizione in quota capitale e quota interessi, per divenircelo e semplicemente la prestazione inadempiuta ex art. 1218 c.c., sulla quale van calcolati gli interessi di mora ex art. 1224 c.c., e l’importo così determinato, sommato agli ulteriori importi pretesi dalla banca e collegati all’inadempimento (es. spese per solleciti, diffide, ecc.), va a comporre l’aggregato sul quale si determina poi in percentuale l’onere concretamente preteso dalla banca in rapporto all’intera rata.

Tale onere va poi confrontato con il tasso soglia, comprensivo del rilievo a fini statistici dell’usura effettuato dalla Banca d’Italia.

Non si tratta qui di applicare circolari amministrative, anziché la legge (e con ciò si plachi il CTP di parte ricorrente), ma di prendere definitivamente coscienza che, rapportare gli oneri di mora ad un tasso soglia basato sul TEGM dei mutui, significa ancora una volta confrontare grandezze disomogenee, in quanto quel TEGM è ricavato sulla scorta di interessi e altri oneri corrispettivi parametrati all’entità e alla durata del finanziamento, laddove gli oneri di mora prescindono dal fattore tempo e anche dall’entità del finanziamento, essendo legati invece all’entità dell’inadempimento.

Quanto meno per il passato quindi, non si potrà che prendere come tasso soglia ai fini dell’usurarietà degli interessi di mora il TEGM maggiorato di 2,1 punti, come segnalato appunto dalla circolare 03.07.2013 B.I.

Per il futuro invece, atteso che anche il tasso soglia così ottenuto sarebbe spesso inferiore ai tassi del D.Lgs. 231/2002, occorrerà elaborare nuovi tassi soglia.

Quanto poi alle conseguenze dell’eventuale superamento della soglia, rideterminata o meno, esse appaiono evidenti da quanto sopra detto.

Se la verifica dell’usurarietà del tasso di mora va effettuata con riferimento non al finanziamento, ma alla singola rata, complessivamente considerata, è evidente che l’art. 1815 co. II dovrà a a sua volta applicarsi non all’intero finanziamento, ma alla singola rata, nel senso che – in caso di usurarietà – non saranno dovuti gli interessi di mora e gli altri oneri di inadempimento, ma rimarrà dovuto l’importo complessivo della rata, comprensivo di capitale e interessi.

Si annullano cioè solo ed esclusivamente gli oneri che entrano nel calcolo del TEGM e del TAEG specificamente riferiti agli oneri di mora, per cui, poiché, per quanto si è detto sopra, il TAEG e il TEGM specifici non comprendono ovviamente gli interessi e gli altri corrispettivi, questi ultimi non vengono annullati in caso di usurarietà.

L’interpretazione fornita chiarisce anche come, in caso di superamento del tasso soglia specifico degli interessi e degli altri oneri di mora, l’usura sia contrattuale e non sopravvenuta, esistendo e potendo essere calcolata fin dal momento della stipulazione del contratto.

Ebbene, nel caso di specie è previsto un ISC del 3,98%, un tasso di mora del 5,75%, a fronte di un TEGM del 3,87, un tasso soglia usura riferito agli oneri corrispettivi del 5,805% e un tasso soglia usura del 5,97% (TEGM + 2.1).

Come si vede dunque il tasso di mora non appare usurario (non sono previste in contratto altre spese o oneri a carico del cliente per per il caso di inadempimento).

In ogni caso, come già esposto, quand’anche vi fosse un superamento del tasso soglia, rimarrebbero nulle solo le pattuizioni relative agli oneri di mora, fermo il resto.

In nessun caso dunque potrebbe pervenirsi alla declaratoria di inefficacia della decadenza dal beneficio del termine pronunciata dalla banca attrice.

La consulenza tecnica di parte ricorrente appare sovrabbondante, contenendo una disamina del sistema bancario nel suo complesso, della condotta di Banca d’Italia e degli istituti di credito in generale più consona al dibattito politico che giuridico, seppure con argomenti (di politica bancaria appunto) in parte finche condivisibili.

La perizia aiuta di tutto e di più, dalla proprietà privata della Banca d’Italia, alla sovranità monetaria, alla creazione di moneta virtuale, all’elusione dell’art. 644 c.p., alle formule di calcolo del TEG per ogni tipologia di rapporto, e in mezzo ci si trova anche qualcosa con riferimento al mutuo e al problema oggetto di causa.

Il tutto senza contare che vi sono altri creditori intervenuti con titolo esecutivo, che han dichiarato di voler proseguire e nei confronti dei quali nulla è stato eccepito.

Il richiamo del ricorrente a SS.UU. 61/2014, onde giustificare l’irrilevanza ai fini della sospensiva degli interventi de quibus, non sembra minare il buon diritto degli intervenuti titolati di portare avanti la procedura.

Gli atti esecutivi infatti sono retti dal principio tempus regit actum, sicché ciò che conta è che, quando essi son posti in essere, gli stessi sian sorretti da un valido titolo esecutivo.

Si legge infatti al paragrafo 8 della citata sentenza, che solo la mancanza originale di un titolo esecutivo, avente le caratteristiche richieste dall’art. 474 c.p.c., impedisce la salvezza degli atti esecutivi posti in essere in forza dello stesso (si fanno gli esempi del decreto ingiuntivo non ancora esecutivo, della sentenza di condanna generica, della sentenza inesistente).

Quando invece si tratti di un titolo che non è mancante ab origine, ma divenga tale per effetto delle vicende ad esso inerenti, se l’intervento titolato ha avuto luogo prima dell’arresto dell’azione esecutiva, il titolo del creditore intervenuto è idoneo a sorreggere la procedura e a giustificarne la prosecuzione.

Se dunque non si è male inteso l’insegnamento della Corte, nella specie non ricorre una delle ipotesi di mancanza ab origine del titolo, ma solo un’ipotesi di caducazione successiva.

E allora, poiché gli interventi titolati sono stati posti in essere prima dell’opposizione, in nessun caso potrebbe concedersi la sospensiva, potendo la procedura proseguire in forza dei titoli dei creditori intervenuti.

Quanto poi alla circostanza che l’appartamento oggetto di esecuzione fornisce all’esecutato il reddito, necessario a far fronte al mantenimento predio e del figlio e alle cure e assistenza a quest’ultimo, gravemente malato (scoliosi), trattasi di circostanza che non può certo portare alla sospensione dell’esecuzione, che comunque non avrebbe certo l’effetto di paralizzare tutti gli effetti del pignoramento, tra i quali vi è anche quello di far acquisire alla procedura i frutti civili del bene colpito con l’atto esecutivo.

L’art. 560 c.p.c. inoltre è stato modificato dal D.L. 35/2005, nel senso che è stato abrogato l’ultimo comma, il quale prevedeva che “Se il debitore dimostra di non avere altri mezzi di sostentamento, il giudice può anche assegno alimentare sulle rendite, nei limiti dello stretto necessario”.

Tale facoltà oggi dunque non è più contemplata.

Per l’effetto l’opposizione va rigettata, con condanna degli opponenti alla rifusione delle spese di lite, che si liquidano in Euro 2.000,00, oltre rimborso forfetario, iva e cpa.

P.Q.M.

Il Tribunale di Cremona, definitivamente decidendo sull’istanza di sospensione dell’esecuzione, rigetta sul punto l’opposizione.

Riservata l’emissione dei provvedimenti per il prosieguo della procedura esecutiva.

Assegna all’opponente termine fino al 28.02.2015 per l’introduzione della causa di merito.

Condanna gli opponenti alla rifusione in favore dell’opposto creditore procedente delle spese di lite, che si liquidano in Euro 2.000,00, oltre rimborso forfetario, iva e cpa come per legge.

Si comunichi.

Così deciso in Cremona il 9 gennaio 2015.

Depositata in Cancelleria il 9 gennaio 2015.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.