la limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave a norma dell’art. 2236 cod. civ. si applica nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà e, in ogni caso, tale limitazione di responsabilità attiene esclusivamente all’imperizia, non all’imprudenza e alla negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell’esecuzione di un intervento o di una terapia medica, provochi un danno per omissione di diligenza.

Tribunale|Rimini|Civile|Sentenza|1 luglio 2019| n. 537

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI RIMINI

SEZIONE UNICA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott.ssa Chiara Zito

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 5618/2015 promossa da:

(…) (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. VI.UM. e dell’avv. RU.UG. ((…)) VIA (…) RIMINI; elettivamente domiciliato in VIA (…) MESTRE presso il difensore avv. VI.UM.

(…) (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. VI.UM. e dell’avv. RU.UG. ((…)) VIA (…) RIMINI; elettivamente domiciliato in VIA (…) MESTRE presso il difensore avv. VI.UM.

ATTORE/I

contro

AZIENDA (…) (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. PE.SA., elettivamente domiciliato in VIA (…) 47923 RIMINI presso il difensore avv. PE.SA.

CONVENUTO/I

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione

Con ricorso depositato in data 26.11.2015, (…) e (…) incardinavano, avanti l’intestato Tribunale, un procedimento ex art. 702-bis c.p.c. nei confronti dell’Azienda (…) affinché, accertata e dichiarata la responsabilità dei sanitari dell’Ospedale di Rimini, che ebbero in cura il sig. (…) dal 02.03.2010 al 21.04.2010, per il decesso di quest’ultimo o, in via gradata, per la perdita di chance di sopravvivenza dallo stesso subita, la resistente venisse condannata al risarcimento dei danni tutti, patrimoniali e non patrimoniali, patiti iure proprio et hereditatis dai ricorrenti, rispettivamente figlio e moglie del defunto.

Essi premettevano che tra le stesse parti si era svolto un procedimento per accertamento tecnico preventivo ex art. 696-bis c.p.c., che si era concluso con il deposito della relazione da parte del CTU medico legale nominato, prof. Piergiorgio (…).

Si costituiva in giudizio l’Azienda (…) eccependo, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso ex art. 702-bis c.p.c., la nullità della consulenza tecnica d’ufficio espletata nel corso del procedimento per accertamento tecnico preventivo ex art. 696-bis c.p.c. e chiedendo, in ogni caso, il rigetto nel merito delle domande avanzate dai ricorrenti.

In seguito alla prima udienza, veniva disposto il mutamento del rito da sommario di cognizione a ordinario e venivano assegnati i termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c.

La causa veniva istruita mediante l’acquisizione del fascicolo del procedimento per accertamento tecnico preventivo RG 6027/2013, la chiamata a chiarimenti del CTU prof. (…), nonché le testimonianze dell’amico di famiglia (…) e della vicina di casa G. per gli attori, del dott. G. e delle infermiere T. e G. per la convenuta.

Esaurita l’istruttoria, le parti precisavano le conclusioni e la causa veniva trattenuta in decisione.

1. Oggetto del presente giudizio è rappresentato dall’accertamento della responsabilità dei sanitari dell'(…) della Romagna per il decesso di (…), avvenuto in data 21.04.2010 presso l’Ospedale di Rimini, dove lo stesso si trovava ricoverato dal 02.03.2010.

La vicenda clinica oggetto di causa può essere riassunta nei seguenti termini: (…), all’epoca dei fatti sessantacinquenne, già laringectomizzato in seguito ad una neoplasia, era affetto da cardiopatia ipertensiva, fibrillazione atriale e arteriopatia obliterante degli arti inferiori con lesioni trofiche ad entrambi i piedi.

Per tale ultima patologia, il 02.03.2010 egli è stato ricoverato nel reparto di chirurgia vascolare dell’Ospedale di Rimini per essere sottoposto, il giorno successivo, ad intervento di rivascolarizzazione all’arto sinistro con tecnica mista, endovascolare nel distretto iliaco e “open” nell’esecuzione di una plastica della profonda.

La settimana successiva, in data 11.03.2010, lo stesso è stato sottoposto ad intervento di amputazione dell’avampiede necrotico dell’arto sinistro, in seguito al quale si sono manifestati febbre e aumento del numero dei globuli bianchi, con prescrizione al paziente di terapia antibiotica.

Le condizioni del paziente a questo punto hanno avuto un miglioramento, tanto che il 17.03.2010 si è prospettata la sua dimissione dall’ospedale, poi rimandata a causa della difficoltà di cicatrizzazione della ferita con segni di progressione della gangrena.

In data 24.03.2010, a causa del progredire della gangrena, è stato eseguito un nuovo intervento di “bypass femoropopliteo e revisione amputazione”, a seguito del quale si sono ripresentati febbre e aumento del numero dei globuli bianchi.

Le condizioni dell’arto sinistro, che si presentava ipotermico e gangrenoso, hanno poi portano i medici alla decisione di praticare, in data 31.03.2010, l’amputazione della coscia, a seguito della quale si è avuto un miglioramento delle condizioni del paziente, anche se la ferita inguinale faticava a cicatrizzare e secerneva pus.

Il 09.04.2010, tuttavia, si sono nuovamente ripresentati la febbre alta e l’aumento del numero dei globuli bianchi e, il successivo 11.04.2010, si è manifestata una forte emorragia all’inguine. Lo S. è stato, dunque, sottoposto ad intervento chirurgico, in cui è stata evidenziata la deiscenza dell’anastomosi tra arteria femorale e protesi ed è stato praticato un piccolo bypass.

Malgrado dopo tale intervento la ferita risultasse in ordine, lo stato di salute generale del paziente nei giorni successivi è progressivamente peggiorato, fino al 15.04.2010, quando lo stesso è stato trasferito in rianimazione in condizioni definite “estremamente compromesse”.

Il 20.04.2010, la TAC addominale ha evidenziato la presenza di una perforazione intestinale con successiva peritonite e lo S. è stato nuovamente sottoposto ad intervento chirurgico. Le sue condizioni però sono ulteriormente peggiorate e purtroppo il giorno successivo si è verificato il decesso.

2. I ricorrenti sostengono che il decesso del loro congiunto si sia verificato a causa di una serie di errori commessi dai sanitari dell’ospedale di Rimini che lo hanno avuto in cura e, in particolare, contestano, sulla base della relazione dei propri consulenti di parte, la scelta dei medici di praticare un intervento di rivascolarizzazione al solo arto sinistro, mentre la patologia obliterante da cui lo S. era affetto era bilaterale, nonché il mancato riconoscimento, con conseguente non corretta gestione, della perforazione del colon, che ha cagionato la morte del paziente.

Essi, inoltre, con l’atto introduttivo, hanno fatto proprie le conclusioni della relazione depositata dal CTU prof. (…) all’esito del procedimento per ATP, il quale ha individuato i seguenti aspetti critici nella condotta dei medici:

1) la mancata rimozione dei tessuti ipoperfusi e necrotici dopo l’intervento di amputazione dell’avampiede, che ha favorito la progressione della gangrena;

2) l’utilizzo, nel corso dell’intervento di bypass femoropopliteo, di una protesi sintetica, che, in quanto tale, non ha alcuna possibilità di difesa di fronte a fenomeni infettivi e si espone facilmente a complicanze, tra le quali sono frequenti le deiscenze anastomiche;

3) la mancata rimozione di tale protesi dopo l’intervento di amputazione della coscia.

A parere del CTU, in particolare, la causa principale del decesso deve essere individuata nello stato di sepsi originato dalle lesioni gangrenose presenti nell’arto inferiore sinistro, mai completamente rimosse da parte dei medici della chirurgia vascolare, che ha portato all’insorgere di una insufficienza multi organo e, in ultima analisi, al decesso del paziente.

Secondo le conclusioni del prof. (…), nessun addebito può essere mosso all’operato dei medici del reparto di rianimazione, dal momento che la peritonite è insorta quando le condizioni del paziente erano già fortemente compromesse e le sue possibilità di sopravvivenza ridotte al minimo.

Secondo le difese di parte convenuta, invece, la mancata rimozione dei tessuti ipoperfusi e necrotici nel corso dell’intervento di amputazione dell’avampiede sinistro era giustificata, in primo luogo, dalla necessità di conservare l’appoggio del piede e non pregiudicare la deambulazione del paziente, dal momento che quest’ultimo si era fermamente opposto, almeno in un primo momento, ad un’amputazione dell’arto a livello più alto. Inoltre, la (…) convenuta, nel contestare i profili critici rilevati dal CTU, ha evidenziato come l’arto inferiore sinistro non presentasse alcuna infezione, mentre i sintomi manifestati dal paziente (iperpiressia e linfocitosi) dovevano essere ricondotti ad una tracheite crostosa, che affliggeva il paziente in quanto portatore da anni di cannula endotracheale.

Quanto alla peritonite, la difesa della convenuta concorda con il giudizio del CTU, che non ha riconosciuto alcuna responsabilità ai medici del reparto di rianimazione.

In definitiva, secondo la prospettazione della (…), deve essere riconosciuta l’estrema complessità del quadro clinico dello S., che ha determinato un progressivo aggravamento delle sue condizioni fino all’exitus, risultato inevitabile malgrado le cure prestate dai medici.

3. Così riassunte le posizioni delle parti e le conclusioni del CTU, occorre premettere che, vertendosi in materia di responsabilità della struttura sanitaria, di natura contrattuale, il paziente danneggiato può limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o del contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia e ad allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo invece a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante (si vedano, ex multis, Cass., S.U., 11.01.2008, n. 577; Cass., 16.01.2009, n. 975; Cass., 12.12.2013, n. 27855; Cass., 26.02.2013, n. 4792; Cass., 20.10.2014 n. 22222; Cass., 20.10.2015, n. 21177, Cass. 13.10.2017 n. 24073).

L’attore danneggiato è, dunque, esonerato dal provare la negligenza del sanitario, potendosi limitare ad allegare condotte imperite attive od omissive del medico, quali species dell’inadempimento degli obblighi assunti con il contatto sociale ovvero con il contratto di spedalità (anche di recente Cass., sezione III, n. 26517 del 9.11.2017 ha ribadito che: “in tema di responsabilità medica non è onere dell’attore provare la colpa del medico, ma è onere di quest’ultimo provare di avere tenuto una condotta diligente”).

4. Nel merito, si ritiene in primo luogo di aderire alle conclusioni del CTU circa l’individuazione della verosimile causa del decesso di (…), in quanto rese all’esito di un esame scrupoloso e completo della documentazione sanitaria, motivate congruamente e prive di vizi logici.

La relazione resa all’esito del procedimento ex art. 696-bis c.p.c., inoltre, è stata adeguatamente integrata nel corso dell’istruttoria con la risposta alle osservazioni formulate dai CTP di parte convenuta e con i chiarimenti richiesti quanto al quesito n. 3.

Sulla base di tale relazione, come sopra si è accennato, la causa principale del decesso deve essere individuata nello stato di sepsi iniziato dalle lesioni gangrenose presenti nell’arto sinistro, mai completamente rimosse, che ha portato all’insorgere di una insufficienza multi organo.

Conformemente alle conclusioni del CTU, dunque, deve escludersi sia che la causa principale della morte sia stata la perforazione del colon, con conseguente peritonite, manifestatasi negli ultimi giorni di vita (come sostenuto dalla relazione stragiudiziale depositata da parte attrice), sia che l’infezione sia stata determinata dai problemi respiratori del paziente (come affermato dai CTP della (…) convenuta).

Quanto al primo profilo, in particolare, appare assolutamente condivisibile l’analisi del CTU, laddove afferma che “certamente la peritonite stercoracea finale ha anch’essa apportato un contributo all’exitus del paziente, ma la sua presenza agli atti sembra esserci solo negli ultimissimi giorni.

Diversamente se essa fosse l’unica causa di morte dovremmo ammettere la sua presenza già dal 9-10 aprile, giorni in cui la sepsi si manifestò in tutta la sua violenza. E questo non trova riscontri agli atti (…)” (pagina 30 della relazione).

Anche il profilo relativo ai problemi respiratori che affliggevano lo S. – che, giova ricordare, era portatore di tracheostomia – risulta essere stato esaustivamente trattato dal CTU, il quale ha concluso che “sono anche innumerevoli le radiografie del torace eseguite (…). Non c’è mai evidenza di una benché minima flogosi respiratoria. (…) E’ evidente che la sepsi non è respiratoria ma nasce dalle zone gangrenose dell’arto inferiore”.

5. Una volta individuata la causa principale dell’insufficienza multi organo, che ha poi determinato il decesso del paziente, nell’infezione originatasi dalla gangrena presente nella gamba sinistra, occorre verificare la correttezza dell’operato dei medici del reparto di chirurgia vascolare che ebbero in cura lo S..

In primo luogo, non risulta aver avuto alcuna efficacia causale nel peggioramento delle condizioni del paziente la scelta dei sanitari, contestata dai CTP attorei, di praticare un intervento di rivascolarizzazione del solo arto sinistro, invece che bilaterale.

Tale scelta, peraltro, a parere del CTU (v. pagg. 19-20 della relazione) deve essere considerata giustificata sulla base di alcuni elementi, quali la prevalenza delle lesioni trofiche a sinistra, la minore invasività in un paziente ritenuto a rischio per un approccio open addominale e la possibilità di usare una doppia tecnica (endovascolare e open) per il salvataggio dell’arto sinistro (in particolare, la profundoplastica trovava la sua principale indicazione per la rimozione di una placca ostruttiva).

5.1 Risulta, a questo punto, dirimente trattare della problematica dell’eventuale dissenso che lo S. avrebbe manifestato, prima dell’operazione dell’11.03.2010, rispetto all’amputazione della gamba sinistra a livello più alto rispetto a quanto praticato.

Come si è accennato, infatti, il CTU (…) individua nella mancata rimozione di tessuti ipoperfusi e necrotici – e in generale nella decisione di procedere, in un primo momento, all’amputazione del solo avampiede sinistro, in luogo di un intervento più radicale – il primo punto critico nell’operato dei sanitari, che avrebbe favorito la progressione del processo infettivo.

Secondo la difesa della convenuta, tale scelta sarebbe stata determinata dal dissenso manifestato dal paziente rispetto all’amputazione della gamba sinistra, che avrebbe costretto i medici a limitare l’intervento al solo avampiede, per consentirgli di non perdere l’appoggio e continuare a deambulare.

In materia di consenso informato, è principio pacifico che esso sottintende il dovere del medico di informare il paziente in ordine alla natura dell’intervento, alla portata dei possibili e probabili risultati conseguibili e delle implicazioni verificabili (v. Cass., 13.2.2015, n. 2854).

Trattasi di obbligo che attiene all’informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente viene sottoposto, e in particolare in ordine alla possibilità che ne consegua (cfr. Cass., 13.4.2007, n. 8826; Cass., 30.7.2004, n. 14638) un aggravamento delle condizioni di salute del medesimo, al fine di porlo in condizione di consapevolmente consentirvi (v. Cass., 14.3.2006, n. 5444).

Per tali ragioni, la giurisprudenza ritiene, con orientamento consolidato, che il medico venga meno all’obbligo di fornire idonea ed esaustiva informazione al paziente, al fine di acquisirne un valido consenso, non solo quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando ne acquisisca con modalità improprie il consenso.

Così, si è ritenuto non validamente prestato un consenso ottenuto mediante la sottoposizione al paziente, ai fini della relativa sottoscrizione, di un modulo del tutto generico, non essendo in tal caso possibile desumere con certezza che il paziente abbia ricevuto le informazioni del caso in modo esaustivo (v. Cass., 8.10.2008, n. 24791 ) e, a fortiori, è stato considerato inidoneo un consenso asseritamente prestato oralmente (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 19212 del 29.09.2015).

Nel caso di specie, deve prima di tutto osservarsi che nella documentazione sanitaria depositata in atti non vi è traccia del presunto dissenso manifestato dallo S., mentre dal modulo del consenso informato risulta che lo stesso aveva acconsentito all’intervento, effettivamente praticato, di amputazione dell’avampiede, con l’indicazione peraltro che “durante l’intervento potranno essere apportate varianti a quanto previsto”.

Alla luce della giurisprudenza sopra citata, che si ritiene senza dubbio di condividere, l’eventuale dissenso del paziente rispetto all’intervento di amputazione consigliatogli dai medici doveva necessariamente essere documentato per iscritto, unitamente all’informazione circa i rischi (in questo caso, potenzialmente letali) conseguenti alla sua mancata effettuazione.

Esso dunque non può essere desunto dal consenso prestato rispetto ad un diverso intervento (amputazione del solo avampiede), né tanto meno essere provato mediante le testimonianze del medico (…) e dell’infermiera T., peraltro scarsamente attendibili in quanto entrambi dipendenti della (…) della Romagna.

A quanto sopra, occorre aggiungere che la posizione processuale della (…) della Romagna risulta contraddittoria, laddove, da un lato, attribuisce alle direttive espresse dal paziente la ritardata esecuzione dell’intervento di amputazione della coscia, mentre, dall’altro lato, giustifica la scelta di non rimuovere del tutto i tessuti necrotici e ipoperfusi in quanto suscettibili di un miglioramento mediante terapia.

Dunque, delle due l’una: o al paziente è stata chiaramente prospettata la necessità di un intervento di amputazione radicale, oppure si è tentata, in un primo tempo, una soluzione conservativa, che non privasse il paziente della possibilità di appoggiare il piede e deambulare.

A fronte di un’informazione incompleta o poco chiara, è del tutto ragionevole ritenere che lo S. abbia accettato di sottoporsi ad un intervento meno demolitivo, rispetto alla soluzione drammatica dell’amputazione della coscia, a cui qualunque soggetto acconsentirebbe solo come extrema ratio, in assenza di una valida alternativa terapeutica.

5.2 In definitiva, quindi, la domanda attorea deve trovare accoglimento, nella parte in cui ha recepito le conclusioni della relazione a firma del dott. (…), risultando fondate le censure dallo stesso mosse all’operato dei medici del reparto di chirurgia vascolare, i quali hanno trascurato il processo infettivo sorto a causa della gangrena alla gamba sinistra, fino alla sua definitiva evoluzione in uno shock settico che ha compromesso le possibilità di sopravvivenza del paziente.

Parte attrice ha allegato molteplici profili di inadempimento da parte dei sanitari, a fronte dei quali spettava all'(…) della Romagna, secondo i criteri di ripartizione dell’onere della prova in materia di responsabilità contrattuale sopra evidenziati, fornire la prova contraria.

Tale prova non è stata fornita quanto alla corretta gestione della situazione della gamba sinistra, dovendosi al contrario ritenere che sia stato il ritardo nell’amputazione della gangrena a determinare il grave stato di sepsi, risultato fatale al paziente.

In particolare, deve ritenersi altamente probabile che, se i chirurghi avessero proceduto all’amputazione della coscia fin dal secondo intervento, eseguito in data 11.03.2010, o comunque non appena accertata la progressione della gangrena dopo l’amputazione dell’avampiede, l’infezione sarebbe stata debellata e non si sarebbe verificata l’insufficienza multi organo che ha purtroppo portato al decesso del paziente.

Tale intervento è stato invece eseguito, con colpevole ritardo, solo in data 31.03.2010, peraltro con una gestione intermedia del paziente che il CTU ha ritenuto inadeguata rispetto al processo infettivo in corso, in particolare nell’applicazione, nell’intervento del 24.03.2010, di una protesi sintetica, maggiormente esposta a complicazioni quali le deiscenze anastomiche (puntualmente verificatesi in data 11.04.2010 con l’emorragia della ferita inguinale), nonché nella mancata rimozione della stessa nel corso dell’intervento del 31.03.2010.

5.3 Quanto, infine, alla circostanza che la prestazione richiesta ai medici fosse di difficile esecuzione, il CTU, chiamato a chiarimenti, ha affermato che “ritenevo che la stessa impostazione dell’analisi medico legale del caso in esame, fatta nella mia precedente relazione, lasciava chiaramente intendere trattarsi di paziente con molteplici criticità la cui gestione era complessa.

Più specificamente nella vicenda clinica del signor S. non è possibile identificare un unico “intervento” da intendersi come atto sanitario svincolato dal contesto dell’iter clinico del paziente; molteplici furono le decisioni che i sanitari si trovarono a prendere, per tempistica e opzioni possibili, come molteplici furono gli atti operativi posti in essere.

Proprio dalla gravità del quadro clinico di base, dalla molteplicità delle situazioni “critiche” che si concretizzarono nel corso della degenza e dalla complessità dei substrati anatomo-patologici-disfunzionali che si dovevano affrontare nel corso degli atti chirurgici traspare limpido che nel suo complesso l’opera dei sanitari si qualificava come di difficile esecuzione.

Ciò non di meno, nel contesto del percorso assistenziale, sono state evidenziate delle criticità che potevano essere evitate indipendentemente dalla gravità del caso” (pagg. 12-13 della relazione integrativa depositata il 14.09.2017).

Al riguardo occorre premettere che, per giurisprudenza costante, “la limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave a norma dell’art. 2236 cod. civ. si applica nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà e, in ogni caso, tale limitazione di responsabilità attiene esclusivamente all’imperizia, non all’imprudenza e alla negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell’esecuzione di un intervento o di una terapia medica, provochi un danno per omissione di diligenza” (in termini Cass., Sez. 3, Sentenza n. 9085 del 19.04.2006; Trib. Roma, sez. XIII, 16.10.2017, n. 19388).

Nel caso di specie, se risulta provato che il quadro clinico dello S. era complesso e, dunque, la prestazione richiesta ai sanitari può qualificarsi di particolare difficoltà, tuttavia i profili critici individuati dal CTU attengono certamente anche ai criteri della diligenza e della prudenza, per cui in ogni caso risulterebbe non applicabile la limitazione di responsabilità prevista dall’art. 2236 c.c.

In particolare, deve ritenersi viziate da imprudenza e negligenza dapprima la scelta di lasciare in situ tessuti necrotici e infetti (da pagina 14 della relazione integrativa: “in tal caso, infatti, l’ipoperfusione oltre a costituire momento favorente al progredire di processi infettivi, non consente un sufficiente arrivo nei tessuti di antibioticoterapia per via ematica.

In altri termini se da un lato potrebbe essere scelta non censurabile quella di lasciare in situ delle piccole porzioni di tessuto necrotico, dall’altro detta scelta va assolutamente esclusa in presenza di processi infettivi i quali, ove i tessuti necrotici ed infetti vengano lasciati in situ, possono solo progredire in pejus”), e, successivamente, la mancata rimozione, dopo l’amputazione della coscia, di un pezzo di protesi sintetica in una ferita inguinale che secerneva pus (sempre da pagina 14 della relazione integrativa: “ebbene, non è concretamente prospettabile che nel corso di un tal tipo di intervento non si proceda all’asportazione di un pezzo di protesi in un sito ove è presente del pus; l’evoluzione peggiorativa è sostanzialmente certa e non vi sono giustificazioni tecniche a lasciare il pezzo di protesi; esplicito il riferimento al fatto che si poteva, e doveva, procedere a asportazione della protesi infetta e a ricostruzione del sito”).

6. Una volta accertata la responsabilità della convenuta, occorre accertare quali siano le conseguenze dannose che la stessa è tenuta a risarcire a favore degli odierni attori, moglie e figlio di (…).

6.1 Quanto al danno iure hereditatis, gli attori richiedono il risarcimento del danno terminale biologico, identificato nel pregiudizio sofferto dal loro congiunto dal momento del ricovero al decesso.

A tale riguardo, occorre osservare come il danno patito da (…) non possa essere identificato con l’intero periodo di ricovero ospedaliero presso l’ospedale di Rimini, risultando assolutamente pacifico che egli, per i problemi di salute da cui era affetto, doveva essere sottoposto ad intervento chirurgico.

D’altra parte, gli attori non allegano che vi sia stata una lucida agonia, caratterizzata dalla consapevolezza nel loro congiunto della fine imminente della vita, elemento che la giurisprudenza ritiene indispensabile per il risarcimento del c.d. danno biologico terminale

(da ultimo, Cass. civile sez. III, 23.10.2018, n. 26727: “In materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, nel periodo di tempo interposto tra la lesione e la morte ricorre il danno biologico terminale, cioè il danno biologico “stricto sensu” (ovvero danno al bene “salute”), al quale, nell’unitarietà del “genus” del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie (“danno morale terminale”), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall’avvertita imminenza dell'”exitus”, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di “lucidità agonica”, in quanto in grado di percepire la sua situazione ed in particolare l’imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale ed il decesso nel caso in cui la persona sia rimasta “manifestamente lucida””).

Il danno risarcibile dovrà, dunque, essere limitato ai giorni di ricovero patiti dalla vittima a causa della errata gestione del caso da parte dei sanitari, con esclusione del periodo che egli avrebbe comunque dovuto trascorrere in ospedale, anche in assenza di colpa medica.

Nel caso di specie, considerato che secondo il CTU in data 11.03.2010 sarebbe già dovuto avvenire l’intervento di amputazione più radicale e che, anche laddove questo fosse stato eseguito correttamente senza complicazioni, la degenza ospedaliera si sarebbe comunque prolungata, si stima equo riconoscere il danno da invalidità temporanea per giorni 30 (dal 21 marzo al 21 aprile).

Il danno deve quindi essere liquidato, sulla base delle Tabelle in uso presso il Tribunale di Milano nella versione aggiornata al 2018, utilizzando il valore massimo di Euro 147,00 per il punto base in ragione dell’entità, della natura e della durata dell’invalidità temporanea accertata, nella somma di Euro 4.410,00.

6.2 Venendo, quindi, alla domanda proposta dagli attori iure proprio, occorre premettere che il danno riflesso (o c.d. da rimbalzo), di elaborazione pretoria, può essere definito come quel danno, conseguente ad un evento dannoso, che si produce non nella sfera della vittima diretta del fatto illecito, bensì dei suoi prossimi congiunti e che è risarcibile, iure proprio, in ragione della (possibile) natura plurioffensiva del fatto illecito (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 01.07.2002, n. 9556, Cass. civ., sez. III, 31.05.2003, n. 8827 e n. 8828).

Ed invero, in giurisprudenza, è pacifico che il danno da uccisione o grave lesione del congiunto, “in quanto danno – conseguenza, consiste in una perdita, ossia nella privazione di un valore personale, costituito dall’irreversibile venir meno del godimento del congiunto e dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali essi normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare; perdita, privazione e preclusione che, in relazione alle diverse situazioni, possono avere diversa ampiezza e consistenza in termini di intensità e protrazione nel tempo” (così Cass. civ. sez. III, 31.05.2003, n. 8828).

Quanto al requisito della convivenza tra la vittima e i congiunti, è principio ormai pacifico in giurisprudenza che “il fatto illecito, costituito dalle gravissime lesioni patite dal congiunto, dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella conseguenze pregiudizievoli sul rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, restando irrilevante, per l’operare di detta presunzione, la sussistenza di una convivenza tra gli stretti congiunti e la vittima del sinistro” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 12146 del 14.06.2016).

Nel caso di specie, gli odierni attori sono i congiunti più stretti della vittima: la moglie (…), con lui convivente, e il figlio (…), convivente con i genitori fino al 2009, un anno prima della morte del padre (come emerso dalla testimonianza dell’amico di famiglia (…)).

Nel caso di specie, tenuto conto che (…) si è ritrovata a vivere da sola dopo il decesso del marito e che il figlio (…) aveva da poco lasciato la casa dei genitori e li frequentava spesso (come testimoniato dalla vicina di casa (…)), può ritenersi provato il danno non patrimoniale, consistente nella compromissione del rapporto parentale, nella sofferenza interiore e nello sconvolgimento delle abitudini di vita, che gli stessi hanno patito in conseguenza del decesso del marito/padre.

Quanto alla liquidazione, prendendo a riferimento i valori medi previsti dalle Tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione del danno da perdita del congiunto e non essendo stato provato alcun ulteriore elemento che giustifichi la personalizzazione del danno, si stima equo attribuire agli attori la somma di Euro 165.960,00 per ciascuno.

7. Sulle somme totali andranno corrisposti, previa devalutazione in ragione della stima fattane secondo criteri aggiornati, l’ulteriore rivalutazione, secondo gli indici ISTAT di categoria dalla data del sinistro alla presente pronuncia, e gli interessi legali, questi ultimi da calcolarsi sulle somme rivalutate anno per anno a decorrere dal sinistro (cfr. in termini Cass. SU 1712/95) fino alla presente decisione.

A seguito della liquidazione qui operata il debito di valore si converte in debito di valuta e su di esso dovranno computarsi gli interessi moratori ex lege fino al saldo effettivo.

8. Quanto alle spese, gli attori allegano spese per Euro 7.744,00 per la redazione di perizia di parte, nonché Euro 7.564,00 per spese di CTP nel procedimento di accertamento tecnico preventivo. Tali importi, che rientrano nel vaglio delle spese processuali, devono essere ritenuti eccessivi, in quanto di molto superiori anche al compenso liquidato al CTU, e ridotti ex art. 92 c.p.c. all’importo totale di Euro 8.000,00 (di cui 4.000,00 per perizia di parte e 4.000,00 per assistenza alle operazioni di ATP).

A parte attrice deve inoltre essere riconosciuto il rimborso delle spese di CTU, svolta in sede di procedimento ex art. 696-bis c.p.c., per un totale di Euro 1.530,00, e le spese sostenute per l’integrazione della CTU nel presente giudizio, già liquidate.

Le spese di lite, sia del procedimento per accertamento tecnico preventivo ex art. 696 bis c.p.c., sia del presente giudizio, seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

1. accerta e dichiara la responsabilità della convenuta per l’evento dannoso di cui è causa e per l’effetto la condanna a corrispondere agli attori le somme dovute a titolo di risarcimento del danno, che si liquidano come segue:

– Euro 4.410,00 a (…) e (…) quali eredi di (…), ciascuno per la propria quota di eredità;

– Euro 165.960,00 ciascuno a (…) e (…);

oltre rivalutazione e interessi legali come indicati in motivazione;

2. condanna la parte convenuta a rifondere a parte attrice le spese di lite, che si liquidano in Euro 8.000,00 per CTP, Euro 852,46 per spese ed Euro 27.000,00 per compensi professionali, oltre a spese generali, i.v.a. e c.p.a. di legge, da distrarsi a favore del difensore avv. (…) dichiaratosi antistatario;

3. pone le spese di CTU del presente procedimento e del procedimento RG 6027/2013, definitivamente a carico di parte convenuta, con obbligo di rimborso a favore di parte attrice di quanto anticipato;

4. dichiara la sentenza esecutiva ex lege.

Così deciso in Rimini il 30 giugno 2019.

Depositata in Cancelleria l’1 luglio 2019.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.