Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto per contagio da emotrasfusioni una malattia (nel caso, epatite HCV cronica) per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell’articolo 2935 c.c. e articolo 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensi’ da quello in cui tale malattia viene percepita o puo’ essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche da apprezzarsi in riferimento al sanitario o alla struttura sanitaria cui si e’ rivolto il paziente, dovendosi accertare se siano state fornite informazioni atte a consentire all’interessato il collegamento con la causa della patologia o se lo stesso sia stato quanto meno posto in condizione di assumere tali conoscenze.

 

Corte di Cassazione, Sezione 3 civile Ordinanza 15 giugno 2018, n. 15736

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24901-2015 proposto da:

MINISTERO DELLA SALUTE 96047640584, domiciliato ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui e’ difeso per legge;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) tutti in proprio oltre che nella qualita’ di eredi di (OMISSIS), domiciliati ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2057/2014 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 17/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/10/2017 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

RILEVATO

che:

1. Il Ministero della Salute ha proposto ricorso per cassazione contro (OMISSIS) ed (OMISSIS), in proprio e quali eredi di (OMISSIS), avverso la sentenza del 17 dicembre 2014, con la quale la Corte d’Appello di Firenze, in parziale accoglimento dell’appello delle intimate ed in riforma della sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Firenze, ha dichiarato la responsabilita’ del Ministero per i danni da emotrasfusioni sofferti da (OMISSIS) e l’ha condannato al pagamento di distinte somme a titolo di danno non patrimoniale sia iure hereditatis che iure proprio, disattendendo invece la richiesta di riconoscimento di un danno patrimoniale sotto il primo profilo.

2. Il Tribunale di Firenze aveva ritento prescritta la pretesa risarcitorie, mentre la corte territoriale e’ stata di diverso avviso.

3. Al ricorso hanno resistito con congiunto controricorso le intimate.

3. La trattazione del ricorso e’ stata fissata in camera di consiglio ai sensi dell’articolo 380-bis c.p.c., n. 1, e non sono state depositate conclusioni scritte dal Pubblico Ministero, mentre le resistenti hanno depositato memoria.

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione e falsa applicazione dell’articolo 2043 c.c., nonche’ della L. n. 296 del 1958, articolo 1, e L. n. 592 del 1967, articolo 1, in relazione all’articolo 360 c.p.c.. Violazione dei principi in materia di responsabilita’ del Ministero per danni “da emotrasfusioni somministrate in data anteriore al 1978, di scoperta del virus HBV e di scoperta di efficaci metodi di individuazione del virus nel sangue dei donatori, e quindi in un’epoca in cui al Ministero non poteva essere imputata alcuna responsabilita’ colpevole, in aderenza al piu’ recente orientamento della Corte di legittimita’ (Cass. Sez. 3 n. 2250/2013)”.

L’illustrazione del motivo esordisce assumendo che “la sentenza e’ erronea nella parte in cui ha dato per scontata la sussistenza del nesso di causalita’ e la sussistenza di un comportamento colpevole imputabile al Ministero tra patologia epatica del sig. (OMISSIS) e le trasfusioni somministrate nel 1967, effettuate in epoca in cui non era ancora stato scoperto il virus HBV (e dunque era sconosciuto anche l’HCV) e non erano ancora stati scoperti efficaci metodi di individuazione del virus nel sangue dei donatori”.

1.1. Di seguito dichiara di censurare la seguente motivazione della sentenza impugnata:

“In giurisprudenza e’ ormai pacifico che la responsabilita’ del Ministero della Salute per i danni conseguenti ad infezioni da virus HBV, HIV e HCV contratte da soggetti emotrasfusi e’ di natura “extracontrattuale” (da ultimo Cass. civ. sez. 3, 29 agosto 2011 n. 17685; Cass. civ. sez. 3, 14 luglio 2011 n. 15433 oltre alle gia’ citate n. 576 e 581 dell’11/1/2008 delle Sezioni Unite della Cassazione). Ne consegue che, anche prima dell’entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attivita’ trasfusionali e la produzione di emoderivati, sussisteva in materia, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della Sanita’, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria. L’omissione da parte del Ministero di attivita’ funzionali alla realizzazione della tutela della salute pubblica lo espone, quindi, a responsabilita’ extracontrattuale, quando, come nella fattispecie, dalla violazione del dovere di vigilanza nell’interesse pubblico siano derivate “violazioni dei diritti soggettivi dei terzi (v. Cass. SU 576/2008). In particolare, nel caso di specie, la consulenza medico-legale d’ufficio del dr. (OMISSIS) ha comunque accertato (v. ctu a f. 8) che l’origine dell’epatite poi denominata “C” contratta dal (OMISSIS) “e’ riferibile alle trasfusioni” eseguite in occasione del ricovero del 1967 presso l’Ospedale di (OMISSIS) per vincere lo stato di anemia in cui si trovava il predetto. L’epatite si e’ in seguito evoluta, come dalle certificazioni esaminate, “in cirrosi epatica”, con esito in decesso. Il nesso di causa tra le trasfusioni praticate, la malattia ed il decesso e’ peraltro confermato espressamente anche dal parere, prodotto in atti, della Commissione Medica Ospedaliera che ha valutato in sede amministrativa la domanda di indennizzo. Invece, ci si deve discostare dalla espletata ctu nella parte in cui ha sostenuto che era “verosimile che nel 1967 i donatori fossero stati sottoposti ai relativi esami per accertarne la loro idoneita’”; cio’ in quanto il c.t.u. ricollega la sua deduzione ad un dato fattuale che, proprio le sue stesse indagini, hanno escluso, dato che dalle informazioni acquisite presso il Centro Trasfusionale dell’Ospedale di (OMISSIS) (v. ctu a f.4) e’ emerso che il registro cartaceo di quella sezione trasfusionale consente di risalire solo fino al 1972, per cui risulta dalla stessa c.t.u. che “manca ogni evidenza documentale delle presunte trasfusioni ricevute dal (OMISSIS)”. In sostanza, non e’ chiaro come, in assenza perfino della documentazione relativa alle trasfusioni stesse (la cui esecuzione e’ comunque pacifica), il ctu possa addirittura inferire che tali controlli vennero effettuati, fermo restando l’onere probatorio a carico del Ministero convenuto. In ogni caso la questione va risolta valutando se siano stati o meno rispettati gli obblighi anche normativi di vigilanza nell’interesse pubblico. Invero, risulta patrimonio ormai acquisito di “come fosse gia’ ben noto, alla fine degli anni sessanta-inizi anni settanta, il rischio di trasmissione di epatite virale, la rilevazione indiretta del virus essendo possibile gia’ mediante la determinazione delle transaminasi ALT ed il metodo dell’anti-HbcAg… e che gia’ da tale epoca esistevano obblighi normativi (L. n. 592 del 1967; Decreto del Presidente della Repubblica n. 1256 del 1971; L. n. 519 del 1973; L. n. 833 del 1973) in ordine a controlli volti ad impedire la trasmissione di malattie mediante sangue infetto… ” (Cass. 17685/2011). Quindi gia’ nel 1967, epoca della riferita trasfusione, esistevano obblighi normativi che imponevano controlli all’ente convenuto, obblighi evidentemente non assolti nel caso di specie, non avendo il Ministero onerato offerto la prova dell’adozione di condotte e misure necessarie per evitare la contagiosita’, a prescindere dalla conoscenza di strumenti di prevenzione specifica. Tra l’altro e’ lo stesso Ministero convenuto ad affermare nella comparsa di risposta che “gia’ all’epoca delle trasfusioni in esame era stata emanata la Circolare n. 50 del 28 marzo 1966 con la quale veniva prescritta la necessita’ di praticare su ciascun quantitativo di sangue donato la determinazione delle transaminasi sferiche al fine di prevenire la diffusione dell’epatite virale” e, nonostante l’esistenza di tali direttive risalenti all’anno precedente, nulla risulta in merito al rispetto di tali prescrizioni. Alla stregua delle considerazioni che precedono deve essere dunque affermata la responsabilita’ risarcitoria del Ministero appellante, ex articolo 2043 c.c. per la patologia da HCV contratta dal (OMISSIS), essendo accertati sia il nesso di causalita’ materiale fra le trasfusioni e l’insorgenza della patologia sia l’omissione di una adeguata attivita’ di controllo e vigilanza imputabile al Ministero.”.

1.2. La critica alla riportata motivazione viene svolta: a) dando atto in primo luogo che la sentenza impugnata “ha ritenuto di non aderire alle conclusioni del CTU, che aveva riconosciuto che il Ministero aveva dato disposizioni circa i controlli da effettuare ed ha aderito, invece, alla giurisprudenza di legittimita’ che, al contrario, affermerebbe l’esistenza della responsabilita’”; b) rilevando che questa Corte avrebbe piu’ volte affermato che anche prima del 1978 si configurava la responsabilita’ del Ministero, ma avrebbe “pressoche’ sempre (tranne che con la decisione n. 17865/2011) escluso la esistenza di tale responsabilita’ quando, come nel caso di specie, le trasfusioni sono state somministrate prima del 1970”; c) adducendo che nel caso di specie nel 1967, epoca delle trasfusioni, non erano stati ancora scoperti il virus dell’epatite HCV e quello dell’HBV e, quindi sostenendo che le note sentenze delle Sezioni Unite del 2008 (nn. 581 e segg. del 2008) avrebbero avallato l’idea, alla lor volta ponendosi nella scia di Cass. n. 11609 del 2005, che solo dal 1978 la scienza medica avrebbe “scoperto tests attendibili per accertare la presenza del virus nel sangue dei donatori” e sostenendo quindi che la Corte di Cassazione avrebbe “espressamente chiarito che il Ministero non puo’ essere ritenuto colpevole per danni da trasfusione effettuate prima del 1978”, onde il principio di cui alla citata Cass. n. 17865 del 2011 colliderebbe con l’insegnamento delle Sezioni Unite; d) invocando ancora Cass n. 2250 del 2013 in quanto affermativa del riferimento al 1978 e dando atto che essa avrebbe segnato il superamento di altre decisioni (vengono citate Cass. nn. 1592 del 2013 e n. 9315 del 2010), che invece avevano ritenuto responsabile il Ministero per trasfusioni anteriori al 1978.

La conclusione del tessuto argomentativo del motivo e’, in fine, con una certa contraddittorieta’ (dato il pregresso riferimento al 1978), nel senso che “l’affermazione della responsabilita’ dell’Amministrazione per emotrasfusioni del 1967 contrasta con la giurisprudenza di legittimita’ che la ritiene configurabile a partire dalla conoscenza e dalla disponibilita’ di un test diagnostico dell’HBV, collocata per lo piu’ attorno ai primi anni 70”.

1.3. Il motivo non puo’ trovare accoglimento ne’ quanto alla censura di erronea individuazione dell’esistenza del nesso causale ne’ su quella, per la verita’ solo preannunciata, ma non argomentata, concernente la colpa del Ministero nella tenuta del comportamento integratore del nesso casuale.

Queste le ragioni.

1.3.1. Quanto alla prima censura e’ in primo luogo da rilevare, che non e’ condivisibile l’assunto, peraltro in chiusura dell’illustrazione del motivo contraddetto dallo stesso ricorrente, che sotto il profilo del nesso causale le sentenze delle Sezioni Unite del 2008 abbiano fissato l’anno 1978 come momento ultimo in relazione al quale esso potrebbe configurarsi in subiecta materia in relazione agli obblighi normativi ricollegabili al dovere di vigilare del Ministero quanto al controllo sul sangue da utilizzarsi per le trasfusioni.

In disparte le notazioni ampiamente svolte dalla evocata Cass. n. 17865 del 2011, rileva il Collegio che recentemente Cass. (ord.) n. 17084 del 2017 si e’ fatta carico del (falso) problema della pretesa individuazione, in base alle sentenze delle Sezioni Unite del 2008, di un limite temporale a monte del quale il nesso causale fra il contagio di cui trattasi e l’esecuzione di trasfusioni non potrebbe ravvisarsi ed ha statuito che: “In caso di patologie contratte a seguito di emotrasfusioni o di somministrazione di emoderivati, il rapporto eziologico tra la somministrazione del sangue infetto in ambiente sanitario e la specifica patologia insorta viene apprezzato sulla base delle cognizioni scientifiche acquisite al tempo della valutazione, le quali hanno consentito di identificare e nominare le malattie tipiche (HBV, HIV e HCV), ma cio’ che rileva ai fini del giudizio sul nesso causale e’ l’evento obiettivo dell’infezione e la sua derivazione probabilistica dalla trasfusione, a prescindere dalla specificazione della prima in termini di malattia tipica.”.

Alle ampie considerazioni della citata ordinanza, che il Collegio fa proprie e che sono idonee a superare sia l’evocata (e per la verita’ assertoria) Cass. n. 2250 del 2013 sia Cass. n. 10291 del 2015, con cui la decisione si e’ in modo articolato confrontata, e’ sufficiente rinviare per evidenziare come la prospettazione alternativa fatta dal Ministero del limite temporale del 1978 o di quello del 1970 ai fini della sussistenza del nesso causale sia priva di fondamento. Correttamente, dunque, la Corte territoriale, pur motivando prima del ricordato arresto, ha rilevato che il nesso causale risultava conclamato pur vertendosi in ipotesi di trasfusione subita dal de cuius nel 1967 (e cio’ tanto sulla base della c.t.u. che sulla base dello stesso esito dell’apposita commissione che riconobbe l’indennizzo).

1.3.2. Passando alla seconda censura, quella afferente alla individuazione di un comportamento addebitabile al Ministero, si deve rilevare che essa risulta svolta in termini meramente assertivi e generici rispetto alla motivazione svolta dalla corte territoriale per dissentire dalla valutazione espressa dal c.t.u. nel senso della verosimiglianza dell’esecuzione dei controlli sui donatori nel 1967.

Ne segue che la censura e’ inammissibile per difetto di specificita’, giusta il principio di diritto che, recentemente, e’ stato avallato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 7074 del 2017, riprendendo il filone di giurisprudenza inaugurato da Cass. n. 4741 del 2005.

In ogni caso, al di la’ del rilievo appena svolto, il Collegio rileva che la censura riguarderebbe una valutazione del giudice di merito relativa alla quaestio facti in punto di rilievo della impossibilita’ di “tracciare” la storia del sangue con cui il de cuius subi’ le trasfusioni nel lontano 1967. Come tale la censura – se pure fosse stata svolta specificamente – si sarebbe posta al di fuori dei limiti del controllo sulla motivazione riguardante la ricostruzione della detta quaestio imposti dall’articolo 360 c.p.c., nuovo n. 5 ed individuati dalle Sezioni Unite nelle sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014.

2. Con il secondo motivo si deduce “violazione e falsa applicazione degli articoli 2935 e 2947 c.c. (durata e decorrenza della prescrizione per danni extracontrattuali) in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3 per avere la decisione fatto decorrere la prescrizione dalla data della domanda di indennizzo (5-7-2001), presentata diversi anni dopo che la parte danneggiata era gia’ deceduta (1997) e gli eredi, usando l’ordinaria diligenza ed alla stregua delle conoscenze mediche erano in grado di conoscere le cause effettive del decesso del loro dante causa”.

Il motivo critica la sentenza impugnata per avere ritenuto che il corso della prescrizione, per i danni iure hereditario, fosse iniziato con la presentazione della domanda di indennizzo, anziche’ dalla data del 23 febbraio 1970, nella quale al de cuius era stato rilasciato un certificato medico il quale aveva evidenziato – come e’ detto pure nella riproduzione della motivazione della sentenza di primo grado fatta nell’esposizione del fatto (sentenza che, peraltro, aveva fatto risalire l’exordium praescriptionis non alla diagnosi del 1970, ma ad una diagnosi di infezione da HBV effettuata nel 1992) – valori alterati delle transaminasi del medesimo, con diagnosi che ipotizzava come probabile un’epatite post-trasfusionale.

La tesi sostenuta e’ dunque che il de cuius, a seguito di quella diagnosi avesse avuto conoscenza della ascrivibilita’ della sua patologia alla trasfusione del 1967.

2.1. Il motivo presenta innanzitutto una causa di inammissibilita’, atteso che non ottempera compiutamente all’onere di indicazione specifica di cui all’articolo 366 c.p.c., n. 6, giacche’ non riproduce direttamente il contenuto del documento cui fa riferimento e – per la genericita’ del riferimento contenutistico – non lo riproduce, in alternativa, nemmeno indirettamente precisando la parte del documento alla quale l’indiretta riproduzione corrisponderebbe.

Si deve, poi, aggiungere che l’illustrazione del motivo non enuncia i alcun modo se e dove si fosse argomentato nel senso proposto nel giudizio d merito, sicche’, tenuto conto che la sentenza impugnata non discute del preteso valore della citata diagnosi, la censura non potrebbe sfuggire ad una valutazione di inammissibilita’ per novita’ e cio’ anche tenendo conto di quanto si e’ detto sul riferito tenore della sentenza di primo grado.

Ma al di la’ di cio’ e se pure fossero superabili i gradati rilievi di inammissibilita’, il motivo sarebbe privo di fondamento.

Va considerato, infatti, che e’ stato precisato da Cass. (ord.) n. 22045 del 2017 che “Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto per contagio da emotrasfusioni una malattia (nel caso, epatite HCV cronica) per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell’articolo 2935 c.c. e articolo 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensi’ da quello in cui tale malattia viene percepita o puo’ essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche da apprezzarsi in riferimento al sanitario o alla struttura sanitaria cui si e’ rivolto il paziente, dovendosi accertare se siano state fornite informazioni atte a consentire all’interessato il collegamento con la causa della patologia o se lo stesso sia stato quanto meno posto in condizione di assumere tali conoscenze.”.

Ora, nel febbraio del 1970 e’ dato pacifico che nessuna delle tre note tipologie di virus fossero conosciute alla comunica scientifica ed e’ dunque privo di pregio il sostenere che la diagnosi di cui trattasi potesse consentire al (OMISSIS) di percepire l’esistenza di una patologia ignota e di ricollegarla alla trasfusione. Ed infatti per quel poco che si riferisce del contenuto del documento si parla di diagnosi di alterazione delle transaminasi e di collegamento di tale alterazione a detta trasfusione.

3. Il terzo motivo deduce “violazione e falsa applicazione degli articoli 112, 115 e 116 c.p.c. in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 5, per avere erroneamente disatteso le conclusioni, senza esaminare se sussisteva effettivamente il nesso causale con un comportamento colpevole del Ministero, avuto riguardo alla data delle trasfusioni e, in ogni caso, senza considerare che, alla data del decesso del sig. (OMISSIS), le eredi erano in grado di acquisire conoscenza delle cause effettive della patologia epatica in particolare, documento del 23-2-1970, da cui risultava la causa della patologia)”.

Il motivo argomenta due censure.

La prima ripropone la tesi secondo svolta nel motivo precedente, adducendo che il giudice di appello non avrebbe esaminato il documento.

La seconda si duole che sia stata disattesa la valutazione della c.t.u. gia’ esaminata nel primo motivo e relativa alla alla verosimiglianza della sottoposizione dei donatori nel 1967 ai dovuti controlli.

3.1. La prima censura, oltre a meritare le valutazioni di inammissibilita’ ai sensi dell’articolo 366 c.p.c., n. 6 e di mancanza di individuazione del se e come il fatto emergente dal documento sarebbe stato introdotto, con opportuna attivita’ di allegazione nel giudizio, deduce piuttosto che un vizio ai sensi dell’articolo 112 c.p.c. un vizio ai sensi dell’articolo 360, n. 5 al di fuori dei contenuti che le gia’ citate Cass., Sez. Un., nn. 8053 e 8054 gli hanno assegnato, la’ dove hanno precisato che non integra quel vizio l’omessa valutazione di una risultanza probatoria.

In aggiunta si rileva che cio’ che ipoteticamente il documento rappresentava sarebbe stato privo di decisivita’, giusta le considerazioni svolte nell’esaminare il motivo precedente sul tenore della diagnosi.

La seconda censura e’ illustrata senza mai evocare le norme degli articoli 115 e 116 c.p.c., che mai vengono nominate, e comunque, al di la’ di cio’, senza il rispetto del modo di deduzione indicato da Cass., Sez. Un. n. 16598 del 2016 sulla falsariga di Cass. n. 11892 del 2016.La censura esprime solo dissenso dalla valutazione espressa sulla ricostruzione della quaestio facti e, come s’e’ gia’ detto scrutinando il primo motivo, lo fa al di fuori dei limiti entro i quali il controllo sulla relativa motivazione e’ possibile alla stregua dell’articolo 360 c.p.c., nuovo paradigma del n. 5 (vedi le gia’ citate Ss.UU.).

4. Il quarto motivo deduce “violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c. in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 4, nella parte in cui ha ritenuto che dovesse essere il Ministero a fornire la prova dei mancati controlli e non la parte danneggiata”.

Il motivo non si correla alla motivazione della sentenza impugnata, la quale non ha affatto sostenuto la pretesa inversione dell’onere della prova, ma ha sostanzialmente ritenuto, dissentendo dalle conclusioni della c.t.u. (come emerge dalla motivazione riportata a proposito del primo motivo) e valutando, evidentemente in via presuntiva la combinazione fra il dato dell’essere tenuto il Ministero a controlli e vigilanza e il dato dell’assenza di tracciabilita’ delle trasfusioni, provata la responsabilita’ del Ministero.

Siffatta valutazione non e’ idoneamente criticata in iure alla stregua dell’articolo 2697 c.c., in quanto, come s’e’ detto, la sentenza non ha predicato una inversione dell’onere della prova, il che rende la violazione di detto paradigma estranea al contenuto indicato da Cass., Sez. Un., n. 16598 del 2016, la’ dove ha affermato che “La violazione dell’articolo 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioe’ attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni”, cosi’ intendendo sottolineare che tanto esige un’attivita’ espressa od esplicita del giudice nella sua motivazione.

Attivita’ che non viene individuata.

In realta’ il motivo si risolve allora nella sollecitazione ad un controllo sulla ricostruzione della quaestio facti al di fuori dei limiti di cui alle piu’ volte menzionate sentenze delle SS.UU..

Ne’ ancorche’ nemmeno le si evochi, il motivo, proprio per questo, potrebbe essere scrutinato come doglianza di erronea applicazione in iure delle norme sulle presunzioni: sulle relative modalita’ di deduzione vedi ora Cass., Sez. Un. n. 1785 del 2018, che riprende pregressa giurisprudenza.

5. Il ricorso e’, conclusivamente, rigettato, ma ricorrono giusti motivi per la compensazione delle spese, atteso il regime dell’articolo 92 c.p.c., comma 2, applicabile al giudizio e considerato che al momento del ricorso lo stato delle questioni esaminate con il primo motivo poteva giustificarne la proposizione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52 in quanto imposto dalla legge.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.