Corte di Cassazione, Sezione 3 civile Sentenza 13 aprile 2018, n. 9180

in tema di responsabilita’ professionale del medico, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico puo’ essere chiamato a risarcire il danno se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento.

 

Corte di Cassazione, Sezione 3 civile Sentenza 13 aprile 2018, n. 9180

Integrale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere

Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9632-2015 proposto da:

AZIENDA USL ROMA (OMISSIS) in persona del suo Direttore Generale e legale rappresentante pro tempore Dott. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) e (OMISSIS) in proprio e quali esercenti la potesta’ genitoriale sulla figlia minore (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), domiciliati ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dagli avvocati (OMISSIS) giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 140/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 12/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/01/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI Corrado che ha concluso per la parziale inammissibilita’ o comunque rigetto;

udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega;

udito l’Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato nel 2005, (OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e nella qualita’ di rappresentanti legali della figlia minore (OMISSIS), e gli altri due figli maggiorenni (OMISSIS) e (OMISSIS), convennero in giudizio l’Azienda Sanitaria Roma (OMISSIS) per sentirne accertare la responsabilita’ per la morte del figlio (OMISSIS), il quale, ricoverato il (OMISSIS) presso l’ospedale di Anzio per “colica addominale di natura da determinarsi” e sottoposto il giorno dopo a intervento di appendicectomia, cui seguiva la somministrazione per via endovenosa del medicinale antiemetico Plasil, decedeva lo stesso giorno per intossicazione farmacologica.

Lamentavano in particolare che il bambino era stato sottoposto ad un intervento chirurgico non necessario, senza che i genitori venissero informati ai fini del consenso alla terapia chirurgica e all’anestesia, essendo il bambino allergico al latte e ad alcuni antibiotici, come da loro immediatamente segnalato al personale sanitario all’ingresso in ospedale; che, somministrato dopo l’intervento il Plasil, il cui principio attivo sviluppava nel bambino reazioni di tipo extrapiramidale, e comparsi immediatamente i primi sintomi d’irrigidimento degli arti superiori, i medici e personale ausiliario dell’ospedale, non riconoscendo la patologia insorta, nonostante i solleciti dalla madre, ritardavano le terapie, sicche’ il bambino decedeva a circa cinque ore dalla somministrazione.

Si costituiva in giudizio l’azienda Usl Roma (OMISSIS), la quale evidenziava, anche alla luce della ricostruzione del fatto storico operata nel corso del procedimento penale, l’assenza di responsabilita’ civile ascrivibile al personale sanitario dell’ospedale di Anzio e tanto meno alla struttura.

Chiedeva quindi il rigetto della domanda in quanto infondata in fatto e in diritto e non provata.

Il Tribunale di Velletri, con sentenza n. 162/2009, ritenendo utilizzabili gli esiti dell’indagine penale per omicidio colposo contro i medici e gli ausiliari coinvolti nella vicenda – procedimento definito con sentenza di proscioglimento degli imputati per non aver commesso il fatto – rigetto’ la domanda.

Secondo il Tribunale l’intervento, anche se non urgente e indifferibile, era comunque necessario, potendo il bambino tollerare solo un altro giorno di attesa ed essendo probabile che anche il giorno dopo il bambino avrebbe presentato, nella fase post-operatoria, gli stessi sintomi di vomito, ai quali si sarebbe posto rimedio con la somministrazione di Plasil, sicche’ l’evento si sarebbe comunque verificato.

L’intervento, comunque, avrebbe costituito mera occasione dell’evento dannoso.

Il fatto che il bambino soffrisse di allergie non costitutiva motivo tale da imporre particolare cautela nella somministrazione di un farmaco di cui non era conosciuta la tolleranza, che era indicato per il caso di specie, per cui non vi erano controindicazioni, e che era stato somministrato in dosaggio anche un po’ piu’ basso rispetto al peso del bambino.

Di conseguenza, il decesso doveva ritenersi conseguenza imprevedibile, rara e anomala, tale da rientrare nel caso fortuito.

Non ci fu noncuranza e tardivo intervento dei medici rispetto alla complicanza, essendo stata la stessa madre del bambino a confermare che medici ed infermieri intervennero immediatamente dopo la segnalazione dei primi sintomi della reazione extrapiramidale e che, subito dopo l’anestesista, ella telefonava al centro antiveleni, da quel momento in poi venendole impedito di rientrare nella stanza dove venivano praticate la terapia farmacologica di disintossicazione e le manovre meccaniche per le complicanze cardiologiche che avrebbero portato il bambino alla morte.

La decisione e’ stata riformata dalla Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 140 del 12 gennaio 2015.

Secondo la Corte di Appello, in base alla documentazione medica ed alle consulenze dei periti non sarebbe stato possibile ritenere che l’intervento fosse necessario ed urgente.

Di conseguenza, sarebbe stato imprescindibile il consenso alla terapia chirurgica da parte dei genitori.

Emergerebbe quindi una condotta non corretta del personale sanitario gia’ nella fase precedente alla somministrazione del Plasil.

Quanto alla condotta dei sanitari successiva all’intervento, cui direttamente si collega la morte del bambino, la Corte osserva che la distinzione scientifica tra allergie ed intossicazione farmacologica non sarebbe sufficiente ad escludere l’efficienza della segnalazione della madre del bambino, la quale invece avrebbe determinato la necessita’ di una diligenza speciale rispetto ad ogni iniziativa terapeutica praticabile sul bambino, attraverso una rigorosa lettura delle indicazioni, controindicazioni, avvertenze ed effetti indesiderati o collaterali, per poi monitorarne attentamente le reazioni in seguito alla somministrazione.

Secondo la Corte di Appello, poi, l’intervallo temporale tra la somministrazione del Plasil e la diagnosi di intossicazione farmacologica (il cui accertamento e’ decisivo al fine di determinare la fattibilita’ di un efficace intervento per disintossicare il bambino), sarebbe di due ore -due ore e mezza, come emergerebbe sia dalla documentazione medica, sia dalle dichiarazioni della madre, confermate dalla madre di un altro bambino che stava nella stessa stanza del piccolo (OMISSIS).

Rispetto a tale dato univoco, frutto di concordi risultanze orali e documentali, perderebbero rilievo eventuali incongruenze nel racconto della madre sui dettagli di quanto avvenuto in quell’intervallo.

In particolare, da tali dettagli emerge che in tale arco temporale vi furono degli interventi del personale sanitario senza che pero’ venisse rilevata l’anomalia della situazione.

Al riguardo, pero’, i consulenti tecnici, nel giudizio penale, avevano precisato che la reazione anomala al farmaco non avviene con sintomi incomprensibili e che nel caso di specie il bambino era entrato in corna gia’ al primo manifestarsi dei sintomi.

Tale circostanza non era suscettibile di passare inosservata e non era collegabile ad altre cause.

A fronte di sintomatolagia extrapiramidale clinicamente rilevabile, nel lasso temporale di oltre 2 ore e mezza, il personale avrebbe dovuto/potuto interrompere immediatamente la somministrazione del Plasil e provvedere ad eliminare gli effetti tossici. Tali azioni, anche in base alla letteratura medica, avrebbero certamente prodotto esito positivo.

Di conseguenza, sussisterebbe la prova della causalita’ dei comportamenti sia commissivi che omissivi dei sanitari e del personale paramedico.

La Corte quindi ha provveduto a liquidare, in favore dei genitori e dei fratelli del piccolo (OMISSIS), il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, facendo applicazione dei valori massimi previsti dalle tabelle del Tribunale di Milano. Nei confronti dei genitori, ha riconosciuto altresi’ il danno da lesione da consenso informato, considerato che l’intervento era stato occasione dell’esito tragico della vicenda e che “l’omissione ha risolto l’evoluzione degli accadimenti autonomamente dalla libera determinazione dei genitori, rappresentando anche tale risvolto motivo di discordie successive tra i genitori circa la scelta di rivolgersi all’ospedale di Anzio piuttosto che ad un altro ospedale”.

Avverso tale decisione, propone ricorso in Cassazione, sulla base di cinque motivi, l’Azienda USL Roma (OMISSIS).

3.1 Resistono con controricorso illustrato da memoria, (OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e quali esercenti la potesta’ genitoriale sulla figlia (OMISSIS), nonche’ (OMISSIS) e (OMISSIS).

RAGIONI DELLA DECISIONE

I motivi riguardano le “due condotte” tenute dai sanitari. I primi due sono relativi alla necessita’ o meno dell’intervento. Dalla necessita’ o indifferibilita’ dell’intervento scaturisce, poi, la questione relativa al consenso informato. Gli altri motivi, invece, riguardano il comportamento dei sanitari post intervento a seguito della somministrazioni di farmaci.

4.1. Con il primo motivo, la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, la “violazione e falsa applicazione delle norme in materia di appello, con particolare riferimento all’articolo 346 c.p.c.”.

Dei profili di responsabilita’ prospettati dagli attori in primo grado e respinti dal Tribunale di Velletri, solo quello relativo all’inadeguato controllo e al tardivo riscontro della anomala reazione del paziente al Plasil sarebbe stato riproposto in appello, mentre per gli altri due gli appellanti avrebbero fatto generico richiamo alle deduzioni svolte in primo grado.

Pertanto, in assenza di una specifica riproposizione, le doglianze dei (OMISSIS) – (OMISSIS) attinenti i profili di responsabilita’ dei sanitari per aver sottoposto il paziente ad un intervento non urgente, ne’ indifferibile e per mancata acquisizione del consenso informato dovrebbero considerarsi rinunciati.

Il motivo e’ inammissibile.

Di recente questa Corte a Sezioni Unite ha espresso il principio secondo cui gli articoli 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal Decreto Legge n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilita’, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversita’ rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Cass. S.U. 27199/2017).

Nel caso di specie, le domande circa la responsabilita’ dei sanitari per aver sottoposto il bambino ad un intervento non necessario ne’ urgente e per non aver acquisito il consenso informato dei genitori in relazione allo stesso intervento costituisce certamente questione autonoma e distinta rispetto a quella relativa alla responsabilita’ dei medesimi sanitari per aver somministrato il Plasil e omesso di monitorare le reazioni del ragazzo al farmaco, causandone la morte. E la Corte territoriale, cui spetta l’interpretazione e la qualificazione delle domande, ha ritenuto che le stesse siano state, comunque, sufficientemente delineate dagli appellanti. E difatti il giudice del merito ha valutato gli elementi della domanda complessivamente intesa ed ha ritenuto che, sotto il profilo processuale, l’errore di diagnosi sia stato tempestivamente allegato al thema decidendum proposto agli atti introduttivi del giudizio, in termine di intervento chirurgo non necessario e urgente, e che la non indifferibilita’ dell’intervento rilevasse sotto il profilo della necessita’ del consenso informato.

Per quanto sopra detto, il gravame relativo alla prima questione era ammissibile e conseguentemente idoneo a determinare l’insorgenza del potere – dovere del giudice di appello di pronunziarsi su di esso.

4.2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.c., n. 5, il “vizio di motivazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio del capo della sentenza che ha affermato la responsabilita’ della struttura per aver eseguito un intervento per il quale non sussisteva indicazione”.

La Corte di appello avrebbe totalmente obliterato di considerare che, dalle relazioni medico – legali disposte in sede penale risultava incontrovertibilmente che l’appendicectomia aveva costituito mera occasione e non causa del decesso del bambino.

Il motivo e’ infondato ai limiti dell’inammissibilita’ perche’ in manifesta violazione dei limiti assegnati da Cass. Sez. Un. 8053-8054 del 2014 all’articolo 360 c.p.c., n. 5 e al controllo della motivazione sulla questio facti.

Ma in ogni caso il la ricorrente non coglie la ratio decidendi della sentenza, perche’ la Corte di appello ha correttamente riconosciuto che “la non indifferibilita’ dell’intervento rileva sotto il profilo della necessita’ di consenso informato dei genitori” (cfr. p. 8 sentenza) e che la morte del bimbo si collega direttamente “alla condotta dei sanitari successiva all’intervento” (cfr. p. 10 sentenza). Ovvero il giudice del merito ha ritenuto, con un accertamento di fatto, che dal quadro clinico complessivo era incerta la diagnosi di appendicite acuta e quindi poco convincente l’indicazione chirurgica (pag. 7 e 8 della sentenza impugnata). Quindi, non potendo definirsi necessario l’intervento, il consenso dei genitori era imprescindibile, non essendo sufficiente ad eluderlo la sola opportunita’ dell’intervento. Ed e’ stato accertato che tale consenso non e’ stato acquisito.

4.3. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, il “vizio di motivazione del capo di sentenza che ha affermato la responsabilita’ della struttura per imprudente somministrazione del farmaco”.

Dalla consulenza tecnico legale esperita in sede penale si ricaverebbe che la sindrome extrapiramidale cui e’ ricollegabile il decesso del bambino non ha nulla a che vedere con una reazione allergica, che la segnalazione delle allergie, correttamente registrata nella cartella clinica, non avrebbe potuto determinare i medici ad una conclusione diversa da quella dell’insussistenza di controindicazioni alla somministrazione del farmaco; che comunque il farmaco fu prudenzialmente somministrato in dosaggio piu’ basso rispetto al peso del bambino e diluito.

Di conseguenza, non sussisterebbe nesso di causalita’, dato che la condotta che la Corte di Appello afferma essere stata omessa non avrebbe comunque impedito l’evento, qualificabile percio’ come caso fortuito.

Il motivo e’ infondato.

Con riferimento alla condotta consistente nella somministrazione del Plasil, la sentenza impugnata afferma che la differenza tra allergia e reazione extrapiramidale sarebbe irrilevante e che l’informazione della madre circa le allergie (ad altri farmaci) sofferte dal figlio sarebbe stata sufficiente a determinare un “approfondimento delle conoscenze della terapia farmacologica opportuna, attraverso la rigorosa lettura delle Indicazioni, Controindicazioni, Avvertenze ed Effetti Indesiderati o collaterali”. Conclude quindi che detta condotta non sarebbe stata conforme a prudenza.

La Corte di Appello non ha affatto trascurato di esaminare ed argomentare in ordine alle ulteriori circostanze dedotte dall’odierna ricorrente, emergenti dalla consulenza tecnica espletata in sede penale al fine dell’accertamento della responsabilita’, ovvero sia sulla circostanza che, all’epoca dei fatti, non esistevano particolari controindicazioni mediche all’assunzione del Plasil da parte di soggetti nella situazione di (OMISSIS), sia sulla circostanza che, comunque, presumibilmente in considerazione dell’eta’ e dello stato del bambino, erano state prese particolari cautele, procedendo alla somministrazione in dose inferiore rispetto a quella raccomandata per il peso del paziente.

Semplicemente, le ha ritenute irrilevanti. La Corte d’Appello ha difatti ritenuto che le informazioni della madre circa la tendenza allergica del figlio avrebbe dovuto imporre, nel comportamento dei sanitari, una attenzione particolare di valutazione e di prevedibilita’ verso eventuali reazioni avverso la somministrazione di qualsiasi farmaco, che, anche se non di tipo allergico, potevano essere dannose per il bambino. E quindi i medici avrebbero dovuto tenere una condotta assai piu’ diligente, consistente nel leggere con attenzione il bugiardino di tutti i farmaci somministrati e seguire attentamente le reazioni del bambino.

La motivazione, scevra da vizi logico-giuridici, non puo’ che essere confermata.

4.4. Con il quarto motivo, la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, la “violazione e falsa applicazione dei principi processuali civilistici in punto di prova, in particolare degli articoli 2697 e 2735 c.c.”, nonche’, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, “vizio di motivazione per omessa valutazione di un fatto decisivo” tutto in relazione al capo della sentenza che ha affermato la responsabilita’ della struttura per l’omessa tempestiva diagnosi della sindrome extrapiramidale.

Le dichiarazioni della madre del bambino, su cui la sentenza della Corte di Appello afferma di basarsi, dimostrerebbero che, al primo manifestarsi dei sintomi della sindrome extrapiramidale (in particolare, la ritrazione del braccio), arrivo’ immediatamente l’anestesista, con la conseguenza che il vuoto temporale di due ore-due ore e mezza, rilevato dalla Corte di Appello sulla base del solo dato orario della cartella clinica, in realta’, non esisterebbe.

In violazione del principio secondo cui, al fine del soddisfacimento dell’onere di cui all’articolo 2697 c.c., possono essere utilizzate solo le dichiarazioni aventi contenuto confessorio, e quindi contra se, la Corte di appello avrebbe formato il proprio convincimento sulla parte delle dichiarazioni della (OMISSIS) non utilizzabili.

Le uniche dichiarazioni della parte attrice che avrebbero potuto trovare ingresso nel giudizio, ai sensi dell’articolo 2735 c.c., erano quelle relative all’episodio della ritrazione del braccio e al tempestivo intervento dell’anestesista.

Pertanto, non essendo vero che si erano perse due ore e mezza nell’arco delle quali il bambino avrebbe potuto essere salvato, non si sarebbe potuto affermare, con il sufficiente grado di probabilita’ richiesto dalla giurisprudenza in materia di causalita’ civile, che un intervento piu’ tempestivo avrebbe impedito l’evento.

Il motivo e’ inammissibile.

Il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimita’, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se, nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non puo’ invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte.

In ogni caso, il motivo e’ anche infondato.

Infatti, la Corte di Appello osserva che risulta provato per tabulas (e non solo in base alle dichiarazioni della madre) che l’intervento dell’anestesista avvenne alle 20.45, circa due ore-due ore e mezza dopo la somministrazione del farmaco.

Poiche’ e’ incontestato che i primi sintomi della reazione extrapiramidale avvennero una decina di minuti dopo la suddetta somministrazione, appare corretta l’affermazione della Corte di Appello secondo cui, tra la reazione e il riconoscimento della patologia, vi fu un lungo vuoto temporale, nell’arco del quale, con l’opportuno monitoraggio circa il manifestarsi di eventuali effetti indesiderati e l’adozione di accorgimenti quali l’interruzione della somministrazione del farmaco (che non risulta provato essere stata tempestivamente avvenuta), si sarebbe potuto salvare il bambino.

Ne’ risulta viziata l’ulteriore affermazione della Corte di Appello secondo cui, alla luce di tali risultanze documentali, risulterebbero irrilevanti le contraddizioni emergenti dalle dichiarazioni della madre, considerato che spetta al giudice del merito di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilita’ e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione e che le dichiarazioni contenute in una querela, non diversamente rispetto a quelle rese agli organi di polizia giudiziaria, non costituiscono prova legale ma mera confessione stragiudiziale fatta ad un terzo che il giudice ha il potere – dovere di apprezzare liberamente (cfr. Cass. civ. Sez. 3, 05-02-2002, n. 1513, Cass., 16 agosto 2000, n. 10825).

4.5. Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3, la “violazione e falsa applicazione di norme di diritto con particolare riferimento agli articoli 2697 e 1223 c.c.”.

Ai fini della risarcibilita’ della mancata acquisizione del consenso del paziente al trattamento occorre la prova del pregiudizio in concreto derivato da tale omissione.

Nel caso di specie, se anche l’intervento fosse stato eseguito senza consenso, ad esso non sarebbe conseguito alcun danno risarcibile, vista l’assenza di collegamento causale tra l’appendicectomia ed il decesso.

Inoltre, la Corte di Appello non avrebbe neppure accertato se il paziente, ove fosse stato adeguatamente informato, avrebbe rifiutato quel tipo di intervento.

Il motivo e’ infondato.

Difatti, secondo l’insegnamento di Cass. n. 2847/2010 secondo cui, in tema di responsabilita’ professionale del medico, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico puo’ essere chiamato a risarcire il danno se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento.

E la mancanza di consenso puo’ assumere rilievo a fini risarcitori quando siano configurabili conseguenze pregiudizievoli derivate dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in se considerato, del tutto a prescindere dalla lesione incolpevole della salute del paziente.

Tale diritto, distinto da quello alla salute, rappresenta, secondo l’insegnamento della stessa Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008), una doverosa e inalienabile forma di rispetto per la liberta’ dell’individuo, nonche’ uno strumento relazionale volto al perseguimento e alla tutela del suo interesse ad una compiuta informazione, che si sostanzia nella indicazione:

– delle prevedibili conseguenze del trattamento sanitario;

– del possibile verificarsi di un aggravamento delle condizioni di salute;

– dell’eventuale impegnativita’, in termini di sofferenze, del percorso riabilitiativo post-operatorio.

Cio’ e’ a dirsi nell’ottica della legittima pretesa, per il paziente, di conoscere con la necessaria e ragionevole precisione le stesse conseguenze dell’intervento medico, onde prepararsi ad affrontarle con maggiore e migliore consapevolezza, atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in se’ e ne sancisce il rispetto in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralita’ della sua essenza, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive (Cass. n. 21748/2007; Cass. 23676/2008, in tema di trasfusioni salvavita eseguite al testimone di Geova).

Ad una corretta e compiuta informazione consegue, difatti:

– la facolta’, per il paziente, di scegliere tra le diverse opzioni di trattamento medico;

– la possibilita’ di acquisire, se del caso, ulteriori pareri di altri sanitari;

– la facolta’ di scelta di rivolgersi ad altro sanitario e ad altra struttura, che offrano maggiori e migliori garanzie (in termini percentuali) del risultato sperato, eventualmente anche in relazione alle conseguenze post-operatorie;

la facolta’ di rifiutare l’intervento o la terapia – e di decidere consapevolmente di interromperla.

Viene innanzitutto in rilievo il caso in cui, alla prestazione terapeutica, conseguano pregiudizi che il paziente avrebbe alternativamente preferito non sopportare nell’ambito di scelte che solo a lui e’ dato di compiere.

In secondo luogo, viene in rilievo la considerazione del turbamento e della sofferenza che derivi al paziente sottoposto ad atto terapeutico dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate perche’ non prospettate e, anche per questo, piu’ difficilmente accettate.

Condizione di risarcibilita’ (in via strettamente equitativa) di tale tipo di danno non patrimoniale e’ che esso varchi la soglia della gravita’ dell’offesa secondo i canoni delineati dalle sentenze delle Sezioni unite (Cassazione Sezioni Unite n. 26972/2008  Cassazione Sezioni Unite 26975/2008), con le quali e’ stato condivisibilmente affermato che il diritto deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilita’, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento tra principio di solidarieta’ e di tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico.

Diversamente, il paziente che richieda il risarcimento anche del danno da lesione della salute che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, necessario e correttamente eseguito secundum legem artis, ma tuttavia compiuto senza la preventiva informazione circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, deve allegare, sulla base anche di elementi soltanto presuntivi (Cass. 16503/2017) – la cui efficienza dimostrativa seguira’ una sorta di ideale scala ascendente, a seconda della gravita’ delle condizioni di salute e della necessarieta’ dell’operazione che egli avrebbe rifiutato quel determinato intervento se fosse stato adeguatamente informato (Cass. civ. Sez. 3, Sent., 9-2-2010, n. 2847), allegando ancora che, tra il permanere della situazione patologica in atti e le conseguenze dell’intervento medico, avrebbe scelto la prima situazione, ovvero che, debitamente informato, avrebbe vissuto il periodo successivo all’intervento con migliore e piu’ serena predisposizione ad accettarne le eventuali conseguenze (e le eventuali sofferenze) – predisposizione la cui mancanza andrebbe realisticamente e verosimilmente imputata proprio (e solo) all’assenza di informazione. Ci si trova, pertanto, in un territorio (e in una dimensione probatoria) che impone al giudice di interrogarsi se il corretto adempimento, da parte del medico, dei suoi doveri informativi avrebbe prodotto l’effetto della non esecuzione dell’intervento chirurgico dal quale, senza colpa di alcuno, lo stato patologico e’ poi derivato, ovvero avrebbe consentito al paziente la necessaria preparazione e la necessaria predisposizione ad affrontare il periodo post-operatorio nella piena e necessaria consapevolezza del suo dipanarsi nel tempo.

Infatti, se il paziente avesse comunque e consapevolmente acconsentito all’intervento, dichiarandosi disposto a subirlo qual che ne fossero gli esiti e le conseguenze, anche all’esito di una incompleta informazione nei termini poc’anzi indicati sarebbe palese l’insussistenza di nesso di causalita’ materiale tra la condotta del medico e il danno lamentato, perche’ quella incolpevole lesione egli avrebbe, in ogni caso, consapevolmente subito, all’esito di un intervento eseguito secondo le leges artis da parte del sanitario.

Nel caso di specie il giudice del merito ha ritenuto provato che (decesso cagionato dalla somministrazione di plasil quale anti ematico, conoscendo i genitori la sensibilita’ allergica o comunque intollerante ad alcuni farmaci), l’evoluzione degli accadimenti sia stata determinata proprio da una scelta non effettuata consapevolmente e liberamente dai genitori, avendo rappresentato anche tale risvolto un motivo di discordie successive tra i genitori circa la loro decisione di rivolgersi all’ospedale di Anzio piuttosto che ad altro presidio per le cure del bambino.

La decisione della Corte territoriale risulta, pertanto, conforme a diritto.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Spese secondo soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimita’ che liquida in Euro 10.200 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del citato articolo 13, comma 1 – bis.

 

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.