ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’usucapione – il cui onere grava su chi invoca la fattispecie acquisitiva – la coltivazione del fondo non è sufficiente, in quanto, di per sé, non esprime, in modo inequivocabile, l’intento del coltivatore di possedere, occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta “uti dominus”.

Tribunale|Pavia|Sezione 3|Civile|Sentenza|13 febbraio 2020| n. 245

Data udienza 11 febbraio 2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI PAVIA

SEZIONE TERZA CIVILE

in composizione monocratica, nella persona del Dott. Luciano Arcudi, sulle conclusioni prese all’udienza del 30.10.2019, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. di R.G. 1234/2017, promossa da:

TR.MO. (C.F.: (…) e TR.AN. (C.F.: (…)) elettivamente domiciliate in Voghera (PV), Via (…), presso lo studio dell’Avv. Gi.Ve., che le rappresenta e difende in forza di procura in atti,

– attrici –

contro

LA.AD., nata (…), + altri,

– convenuti contumaci –

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO

Trattasi di causa di usucapione ordinaria ventennale promossa dalle attrici con riferimento ad alcune porzioni immobiliari ubicate nel Comune di Brallo di Pregola (PV).

Secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, anche con riguardo alla usucapione speciale per la piccola proprietà rurale di cui alla legge 10 maggio 1976 n. 346 (istituto che, vale peraltro precisare, non è stato evocato nella fattispecie se non nella comparsa conclusionale, avendo le attrici agito per la declaratoria dell’usucapione ventennale), la prova del possesso idoneo all’usucapione, sia per quanto concerne l’elemento materiale sia per quanto attiene all’elemento subiettivo dell’animus, deve essere fornita dalla parte che chiede il riconoscimento, in suo favore, della dedotta fattispecie acquisitiva (cfr., ex multis, Cass. Civ., Sez. 2, sent. n. 975 del 28.1.2000).

Nulla porta a ritenere che, nella specie, sussista una relevatio ab onere probandi in capo a chi agisce per l’accertamento del possesso acquisitivo.

Non la natura “speciale” dell’usucapione e neppure la contumacia dei convenuti: a tale ultimo proposito, si deve rilevare che la disciplina della contumacia “… non attribuisce a questo istituto alcun significato sul piano probatorio, salva previsione espressa, con la conseguenza che si deve escludere non solo che essa sollevi la controparte dall’onere della prova (circostanza peraltro esclusa dal novellato art. 115 c.p.c., che limita gli effetti della non contestazione alla parte “costituita”), ma anche che rappresenti un comportamento valutabile ex art. 116 comma 1 c.p.c. per trarne argomenti di prova in danno del contumaci” (cfr. Cass. civ. sez. III, sent. n. 14860 del 13.6.2013).

Ciò premesso, con motivata ordinanza del 24.7.2019 questo giudice ha rigettato le istanze di ammissione di prova testimoniale dedotte dalla parte attrice, la quale si duole di tale provvedimento rilevando che la prova del possesso acquisitivo può essere data anche per testimoni e che dal corpus è possibile desumere, in via presuntiva, l’animus.

Il punto è che, nella specie, non è stata offerta idonea prova del dedotto possesso acquisitivo.

La prova testimoniale articolata dalla parte attrice può essere idealmente scomposta in due parti: in un capitolo (il primo) si deduce genericamente una situazione possessoria ventennale, senza specificare in quali atti materialmente il possesso si sia estrinsecato, e negli altri si fa riferimento in parte allo stato attuale di alcuni terreni (che si dicono essere “coltivati”, per lo più, a bosco e “prato stabile”), ed, in parte, all’utilizzo attuale di alcune porzioni immobiliari (in parte fabbricati) a “servizio” dei terreni stessi.

Iniziando dal primo capitolo, il “fatto” è formulato come segue: “vero che le signore Tr.Mo. e Tr.An., unendo il loro possesso a quello dei loro dante causa, sono al possesso da oltre 20 anni in modo pacifico, pubblico ed ininterrotto, non equivoco ed esclusivo degli immobili sotto individuati catastalmente e rappresentati nelle n. 3 planimetrie che si rammostrano)”.

L’inammissibilità di tale capitolo è, ad avviso del giudicante, alquanto evidente.

Secondo la definizione dell’art. 1140 c.c., il possesso è il “… potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà o di altro diritto reale”.

Quindi, la nozione di “possesso” identifica una categoria giuridica e non un fatto (tantomeno, un fatto specifico) sul quale un teste possa essere chiamato a deporre.

Nella citata ordinanza del 24.7.2019, questo G.U. ha richiamato giurisprudenza di legittimità secondo cui “… la prova per testimoni del possesso, consistendo questo in una relazione materiale tra chi se ne assuma titolare e la cosa, può riguardare solo l’attività attraverso la quale il possesso si manifesta, non già il risultato del suo esercizio nel quale il possesso stesso si identifica, e ciò in applicazione della regola fondamentale secondo la quale la prova testimoniale deve avere ad oggetto non apprezzamenti o giudizi, ma fatti obiettivi” (cfr. Cass. civ. sez. II, sent. n. 1824 del 18.2.2000 e, conforme, Cass. civ. sez. II, sent. n. 22720 del 24.10.2014).

La prova del possesso non muta a seconda che si tratti di azione possessoria o di azione diretta alla declaratoria di usucapione (nella seconda delle sentenze sopra citate il principio di cui trattasi è stato applicato proprio in una causa avente ad oggetto la declaratoria di usucapione).

Il capitolo di prova testimoniale di cui trattasi, quindi, non poteva essere ammesso, essendo stato dedotto in aperta violazione dell’art. 244 c.p.c. (cfr., Cass. civ., Sez. III Ord., 08/02/2019, n. 3708).

Si aggiunge che alla genericità non potrebbe ovviare il giudice in sede di assunzione della prova: “l’indagine del giudice di merito sui requisiti di specificità e rilevanza dei capitoli formulati dalla parte istante va condotta non solo alla stregua della loro formulazione letterale, ma anche in correlazione all’adeguatezza fattuale e temporale delle circostanze articolate, con l’avvertenza che la facoltà del giudice di chiedere chiarimenti e precisazioni ex art. 253 c.p.c. di natura esclusivamente integrativa, non può tradursi in una inammissibile sanatoria della genericità e delle deficienze dell’articolazione probatoria (Cass. civ. Sez. II Ord., 05/06/2018, n. 14364).

Venendo al secondo gruppo di capitoli di prova, occorre richiamare il principio, anch’esso più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “la richiesta di provare per testimoni un fatto esige non solo che questo sia dedotto in un capitolo specifico e determinato, ma anche che sia collocato univocamente nel tempo e nello spazio, al duplice scopo di consentire al giudice la valutazione della concludenza della prova ed alla controparte la preparazione di un’adeguata difesa” (Cass. civ. sez. VI – III, ord. n. 20997 del 12.10.2011; in senso analogo, Cass. civ. sent. n. 9547 del 22.4.2009).

Tale principio si presenta particolarmente stringente nelle cause in cui l’aspetto cronologico riveste importanza determinante e, quindi, in quelle di usucapione.

I capitoli sono tutti riferiti all’attualità e, pertanto, la mera conferma dei fatti come capitolati sarebbe irrilevante ai fini di causa.

Si deve anche rilevare che, nel primo capitolo di prova, la parte attrice fa riferimento al possesso di un “dante causa”, privo di ogni riferimento cronologico ed al relativo titolo, mentre nei capitoli di cui trattasi l’attività appare riferita alle sole attrici.

L’art. 832 c.c., nell’enunciare il “contenuto” del diritto di proprietà, testualmente dispone che “Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo (…)”.

Per quanto rileva ai fini del presente giudizio, la facoltà di “godimento” inerente al diritto dominicale consiste nel diritto di utilizzare il bene e di trame i frutti, sia naturali sia civili, mentre il riferimento al suo carattere “esclusivo” esprime la caratteristica, immanente al diritto di proprietà, che il proprietario, e solo lui, è titolare di tale facoltà (“ius excludendi alios”), della quale, naturalmente, può disporre.

Se ci si ferma al dato testuale dell’art. 832 c.c., potrebbe presentarsi non agevole l’individuazione di un’attività “corrispondente” all’esercizio di un diritto dominicale. Infatti, il diritto di proprietà si caratterizza per l’attribuzione al suo titolare di un fascio di posizioni soggettive, in termini di facoltà e poteri, tendenzialmente pieno, che, per quanto riguarda il “godimento”, va dallo sfruttamento intensivo del bene al non uso dello stesso (tradizionalmente ritenuto costituire un legittimo modo di godimento, anche in ragione del fatto che il diritto di proprietà è imprescrittibile).

Ai fini della dimostrazione del possesso, l’art. 1140 c.c. richiede peraltro la “manifestazione di un’attività”, ciò che porta ad escludere condotte che, pur astrattamente compatibili con il diritto di proprietà, non si sostanziano in attività materiali tangibili e ben percepibili all’esterno.

Ma la prova di un mero utilizzo del bene non sarebbe comunque sufficiente ai fini della configurabilità di una situazione possessoria, e ciò si ricava dallo stesso tenore letterale della citata disposizione dell’art. 832 c.c., laddove il diritto di proprietà appare concepito come una posizione soggettiva che attribuisce al suo titolare una signoria piena sulla cosa, non limitata quindi al mero utilizzo della stessa sulla base della sua naturale destinazione economica. In particolare, immanente al diritto di proprietà (e caratterizzante questo) è il concetto di “esclusività” che, per l’appunto, si esprime nel tenere il bene assoggettato alla propria esclusiva ingerenza.

D’altra parte, l’art. 1141 c.c., nel prevedere la presunzione di possesso in colui che esercita il “potere di fatto”, utilizza proprio il termine “potere”, ad evidenziare che si deve trattare di una signoria esercitata (di fatto) nel bene stesso: la norma in questione rende evidente come, ai fini della prova del possesso, null’altro che tale elemento il possessore sia onerato a dimostrare, non dovendo, in particolare, fornire la prova della titolarità di uno “ius possidendi” ossia di un titolo idoneo ad attribuire l’esercizio del potere stesso.

In definitiva, ciò che rileva ai fini della configurazione di un “possesso” nella definizione offerta dal citato articolo 1140 c.c. è un utilizzo del bene caratterizzato da modalità tali da fare emergere la chiara volontà del possessore di tenerlo assoggettato alla propria esclusiva signoria, volontà che, nella sua accezione interna e psicologica, viene tradizionalmente individuata nel c.d. “animus possidendi”: tale ultimo requisito, che non può evidentemente essere provato nella sua connotazione psicologica interiore, deve essere desunto dagli atti esteriori nei quali il citato potere si manifesta.

Chi intende fare valere una propria posizione di possesso (anche ai fini dell’usucapione) è pertanto onerato – secondo la regola generale di cui all’art. 2697 c.c. – a fornire la prova di una relazione materiale con il bene che presenti le caratteristiche enunciate, ovvero è tenuto ad allegare e comprovare il corpus e l’animus, il quale ultimo, in quanto atteggiamento psicologico interiore, dovrà di regola essere dimostrato in via inferenziale attraverso fatti esteriori (inclusi gli stessi, aventi natura primaria, integranti il corpus) idonei a farlo presumere (cfr., Cass. civ. Sez. II, sent. n. 9325 del 26.4.2011).

Dalle considerazioni che precedono emerge come possa risultare non agevole la prova del possesso di un immobile quando questa abbia ad oggetto non un fabbricato ma un terreno ed, in particolare, quando il terreno stesso non venga occupato con opere stabili che, in quanto tali, rendano inequivocabile la manifestazione di un’ingerenza sul bene avente le citate caratteristiche (come nel caso di chi recinta completamente il terreno stesso oppure vi costruisce edifici o porzioni di edifici).

In particolare, secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità, “ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’usucapione – il cui onere grava su chi invoca la fattispecie acquisitiva – la coltivazione del fondo non è sufficiente, in quanto, di per sé, non esprime, in modo inequivocabile, l’intento del coltivatore di possedere, occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta “uti dominus” (Cass. civ. Sez. II Sent., 29/07/2013, n. 18215).

Anche ad ipotizzare un minor rigore per chi rivendica l’acquisto per usucapione di un terreno, si dovrebbe comunque escludere che l’attività come indicata in larga parte dei capitoli di prova testimoniale – ci si riferisce, in particolare, alla mera raccolta di erba, legna e prodotti spontanei del bosco – possa dirsi integrare un possesso utile ai fini dell’usucapione.

In definitiva, la domanda deve essere rigettata.

P.Q.M.

Il Tribunale di Pavia, definitivamente pronunciando, respinge la domanda.

Così deciso in Pavia l’11 febbraio 2020.

Depositata in Cancelleria il 13 febbraio 2020.

1 Comment

  • GIUDITTA

    BELLA SENTENZA, E GIUSTA, perche secondo me chi vanta questo diritto, deve essere veramente il possessore, attraverso atti e opere che escludano i veri proprietari, e non portare testimoni che chissa come mai, potrebbero tranquillamente inventarsi cose solo a parole, dove nel concreto nulla è stato dimostrato, senza contare , nel mio caso chi vanta l’usucapione lo sta facendo attraverso testimonanze , dove esse stesse hanno posto in essere gli stessi atti/comportamenti di chi vuol usucapire, ovviamente senza quindi che chi vanta estrometta terzi e abbia fatto opere. Sarebbe anche opportuno che in questi casi dove i testimoni ( amici7parenti e conoscneti di chi vuol usucapire) che testimoniamo palesemente cose “false” in quanto non corrispondenti a nulla ma solo parole, fossero responsabili in solido al pagamento delle spese per la parte soccombente, e forse con questo timore potrebbero dire solo ed esclusivamente la verità…che oggi giorno ahime è una cosa ormai passata di moda..

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.