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la bancarotta riparata si configura, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attivita’ di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, non rilevando, invece, il momento di manifestazione del dissesto come limite di efficacia della restituzione
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Corte di Cassazione, Sezione 5 penale Sentenza 28 febbraio 2017, n. 9710
Integrale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPPI Aniello – Presidente
Dott. LAPALORCIA Grazia – Consigliere
Dott. DE GREGORIO Eduardo – Consigliere
Dott. MICHELI Paolo – rel. Consigliere
Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi proposti nell’interesse di:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza emessa il 10/06/2015 dalla Corte di appello di Milano;
visti gli atti, la sentenza impugnata ed i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Micheli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Orsi Luigi, che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilita’ del ricorso del (OMISSIS) ed il rigetto del ricorso del (OMISSIS);
udito per il (OMISSIS) l’Avv. (OMISSIS), il quale ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
1. Il 10/06/2015, la Corte di appello di Milano confermava la sentenza emessa dal Tribunale della stessa citta’, in data 08/03/2012, nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS), ritenuti responsabili di delitti di bancarotta fraudolenta. I fatti addebitati agli imputati riguardavano il fallimento della (OMISSIS) s.r.l., dichiarato il 13/03/2008, societa’ della quale:
– il (OMISSIS) era stato legale rappresentante in vari periodi, nonche’ liquidatore (oltre che, secondo l’assunto accusatorio, comunque amministratore di fatto);
– il (OMISSIS) era stato l’ultimo liquidatore.
Le condotte criminose contestate afferivano alla distrazione di tre autovetture, non rinvenute dagli organi della procedura concorsuale (la condanna del (OMISSIS) veniva pronunciata relativamente ad uno soltanto di tali veicoli), ed alla sottrazione od occultamento delle scritture contabili a far data dal 2001.
2. Propone ricorso il difensore del (OMISSIS), deducendo:
violazione di legge e mancanza di motivazione della sentenza impugnata.
Il curatore aveva precisato che il 99% del passivo era rappresentato da un presunto credito verso l’Erario, per IVA e imposte non pagate; cio’ derivava da un’indagine dell’A.G. di Forli’, che aveva portato al sequestro dei libri contabili ed all’adozione di provvedimenti restrittivi nei confronti dell’imputato, per addebiti di associazione per delinquere e frode fiscale. Su quel presupposto, l’Agenzia delle entrate aveva emesso cartelle esattoriali, rimaste non pagate, ed era su tali cartelle che era venuta a fondarsi l’esposizione debitoria, fattore causale del fallimento.
Quel procedimento penale, pero’, si chiuse anni dopo con l’archiviazione, per insussistenza dei fatti ipotizzati; dovendosi rideterminare il passivo fallimentare, la relativa entita’ avrebbe dovuto assestarsi non piu’ in milioni di Euro, bensi’ in una cifra di poco inferiore a 200.000,00 Euro, corrispondente all’entita’ complessiva dei debiti extra-tributari. In proposito, la difesa del ricorrente evidenzia un errore della Corte territoriale a proposito della verifica della consistenza del passivo, laddove si legge in sentenza che l’Erario non potrebbe comunque vantare crediti chirografari: al contrario, la documentazione in atti rivela che (OMISSIS) era stata ammessa al privilegio solo per una parte delle somme asseritamente vantate.
Ne deriva, percio’, che la societa’ non avrebbe potuto intendersi fallibile, alla luce delle innovazioni introdotte con il Decreto Legislativo n. 5 del 2006 e Decreto Legislativo n. 169 del 2007, con l’ulteriore conseguenza che “il venir meno dell’assoggettabilita’ della (OMISSIS) s.r.l. alla disciplina del fallimento comporta, ovviamente, l’impossibilita’ in concreto di applicare la normativa penalistica della bancarotta”. I giudici di merito, malgrado fossero stati appositamente sollecitati con richiami alla giurisprudenza di legittimita’, non risultano avere affrontato il problema, neppure per chiedersi se i fatti contestati avrebbero potuto – ferma la non ravvisabilita’ della bancarotta documentale – integrare diversi reati contro il patrimonio, con ogni conseguenza in punto di valutazione della procedibilita’ o dell’eventuale sopravvenienza di cause estintive, come pure ai fini del trattamento sanzionatorio erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione, in tema di c. d. “bancarotta riparata”.
La tesi difensiva e’ che, in relazione alla distrazione di beni materiali (o delle somme incamerate a seguito delle cessioni degli stessi), puo’ ravvisarsi una bancarotta in senso penalmente rilevante solo se, prima del fallimento, l’imprenditore non abbia posto in essere operazioni di segno inverso con denari propri. Ammesso, pertanto, che la societa’ avrebbe incassato 13.000,00 Euro (distratti dal (OMISSIS)) quale corrispettivo delle auto, e’ comunque dimostrato che l’imputato concluse in quel periodo varie transazioni con una pluralita’ di soggetti, nell’interesse della (OMISSIS) s.r.l. ma con assegni tratti su conti suoi, per circa 20.000,00 Euro. A fronte della non contestabilita’ del dato, la Corte di appello obietta che l’imputato non avrebbe dimostrato come impiego’ i 13.000,00 Euro anzidetti, ma il tema rimane irrilevante (anche perche’, ove fosse stata provata una destinazione della somma a fini coerenti con l’attivita’ imprenditoriale, il reato sarebbe stato escluso in radice).
Secondo la difesa, inoltre, la Corte di merito affronta la questione delle auto come se fossero state tutte di proprieta’ della (OMISSIS), senza considerare che, invece, una delle vetture era oggetto di un leasing, e che la risoluzione di quel contratto in epoca molto anteriore alla scadenza fu addirittura un vantaggio per la societa’: a riguardo, il ricorrente richiama plurimi riferimenti giurisprudenziali di legittimita’ erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione, in ordine alla bancarotta documentale.
Nell’interesse del (OMISSIS) si fa rilevare che, pacificamente, la (OMISSIS) s.r.l. non fu piu’ attiva dopo il 2004, per cui non vi era alcuna scrittura contabile su cui annotare operazioni di sorta: a decorrere da quella data, vennero solo perfezionate delle transazioni con vari creditori, molti dei quali privilegiati (l’unico soggetto rimasto insoddisfatto fu, come ricordato, l’Erario, ma in relazione a pretese poi rivelatesi inconsistenti) – erronea applicazione della legge penale e vizi della motivazione, in tema di trattamento sanzionatorio.
La difesa del ricorrente si duole della mancata applicazione, in favore del (OMISSIS), dell’attenuante di cui all’articolo 219, u.c., legge fall.: in proposito, evidenzia che l’osservazione dei giudici milanesi in chiave ostativa, circa l’essersi trovato il curatore fallimentare nell’impossibilita’ di esercitare eventuali azioni revocatorie, appare non conferente. Cosi’ argomentando, infatti, si giungerebbe all’assurda conclusione che la circostanza de qua non potrebbe trovare mai applicazione in casi di bancarotta documentale.
3. In data 05/10/2016 il difensore del (OMISSIS) ha depositato una memoria con motivi nuovi di ricorso, ancora sui temi della bancarotta riparata e della contestata ravvisabilita’ del delitto di bancarotta documentale.
Sotto il primo profilo, si rappresenta che “l’impatto economico dell’immissione di denaro personale risulta (…) aritmeticamente superiore al valore dei beni in ipotesi distratti, con il conseguente azzeramento dell’effetto di depauperamento patrimoniale richiesto dalla norma e dalla giurisprudenza”.
Quanto al secondo aspetto, la difesa evidenzia che non sarebbero state illustrate dai giudici di merito le ragioni della ritenuta sussistenza del dolo specifico, che avrebbe dovuto animare la presunta condotta dell’imputato (non esauritasi in una mera tenuta della contabilita’ in guisa tale da non consentire la ricostruzione del movimento degli affari dell’impresa, ma consistita – secondo il capo d’imputazione – nella sottrazione e nel materiale occultamento di alcune scritture.
4. Propone altresi’ ricorso (OMISSIS), con atto da lui personalmente sottoscritto ed affidato a tre motivi.
4.1 Con il primo, l’imputato lamenta vizi della motivazione della sentenza impugnata, segnalando che la Corte territoriale non avrebbe dedicato specifica disamina a tutte le doglianze mosse con l’atto di appello (in particolare, sarebbe rimasto privo di concreta risposta il tema, prospettato dalla difesa, secondo cui la gestione della (OMISSIS) s.r.l. era da intendersi affidata in via esclusiva, ed in piena autonomia, al solo (OMISSIS), come dimostrato proprio dalle vicende delle auto asseritamente distratte: fra l’altro, la societa’ di leasing aveva comunque recuperato la disponibilita’ della vettura che la fallita deteneva a quel titolo, e che lo stesso (OMISSIS) aveva abbandonato in strada). Le risultanze processuali, del resto, deponevano concordemente nel senso che il (OMISSIS) aveva acquisito la carica di liquidatore in una societa’ la cui attivita’ era di fatto gia’ cessata da tempo, e senza ricevere informazioni – da parte di chi lo aveva preceduto in quella veste – circa l’esistenza delle auto di cui sopra.
4.2 Con il secondo motivo, il ricorrente si duole dell’omessa assunzione di prove decisive, atteso che manca qualsivoglia riscontro, di natura tecnico-documentale, all’ipotesi accusatoria: a tacer d’altro, non sarebbe stato provato neppure il danno conseguente alle condotte in rubrica.
4.3 Il (OMISSIS) lamenta infine la violazione della legge penale, in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio, anche per non essere stato esaminato il profilo del grado della sua responsabilita’: i giudici di merito avrebbero ponderato solo alcuni degli elementi contemplati dall’articolo 133 cod. pen..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso del (OMISSIS) non puo’ trovare accoglimento, mentre quello del (OMISSIS) appare inammissibile (per genericita’ e manifesta infondatezza dei profili di doglianza).
2. Quanto all’impugnazione proposta nell’interesse del (OMISSIS), deve innanzi tutto rilevarsi che il profilo della fallibilita’ o meno della (OMISSIS) s.r.l. secondo le previsioni di legge introdotte nel 2006 e 2007, a prescindere dalla fondatezza delle osservazioni della difesa circa la consistenza reale del passivo, appare del tutto irrilevante.
Infatti, la giurisprudenza invocata dal ricorrente a sostegno delle proprie tesi si esaurisce nelle prime occasioni di commento agli effetti delle citate novelle, senza neppure menzionare l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui “il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, articoli 216 e segg., non puo’ sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza dell’impresa e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la fallibilita’ dell’imprenditore, sicche’ le modifiche apportate (…) dal Decreto Legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 e dal Decreto Legislativo 12 settembre 2007, n. 169, non esercitano influenza, ai sensi dell’articolo 2 cod. pen., sui procedimenti penali in corso” (Cass., Sez. U, n. 19601 del 28/02/2008, Niccoli, Rv 239398).
La motivazione della pronuncia del massimo organo di nomofilachia, richiamati i contrasti di giurisprudenza – interni a questa stessa Sezione – che avevano determinato l’ordinanza di rimessione ex articolo 618 del codice di rito, fa rilevare che “se fosse vero che la definizione normativa dei presupposti per la dichiarazione di fallimento di un’impresa costituisce una norma extrapenale integratrice della fattispecie penale, dovrebbe essere verificato se, in virtu’ di abolitio criminis (parziale), il fatto ascritto all’imputato non sia piu’ previsto dalla legge come reato”: ergo, e piu’ in particolare, “occorre verificare se la norma extrapenale incida su un elemento della fattispecie astratta, non essendo di per se’ rilevante una mutata situazione di fatto che da quella norma derivi”.
Elemento fondamentale di valutazione, allora, e’ che “nella struttura delle fattispecie di bancarotta di cui agli articoli 216 e ss. legge fall., il presupposto formale perche’ possano essere prese in considerazione, ai fini della responsabilita’ penale, le condotte specificamente contemplate dalle norme non richiama le condizioni di fatto richieste per il fallimento (o l’ammissione alle altre procedure concorsuali) di un’impresa, consistendo invece nella esistenza di una sentenza dichiarativa di fallimento (…). In altri termini (…), nella struttura dei reati di bancarotta “la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale”, e non per i fatti con essa accertati. Sicche’, in quanto atto della giurisdizione richiamato dalla fattispecie penale, la sentenza dichiarativa di fallimento e’ insindacabile in sede penale; ne’ la disciplina delle questioni pregiudiziali prevista dal codice di rito agli articoli 2 e 3 “vale a spostare le premesse di diritto sostanziale”, perche’ i presupposti di fatto accertati nella sentenza richiamata dalla fattispecie penale non sono una “questione pregiudiziale” della quale possa ritenersi investito il giudice penale, dato che essi sono stati appunto accertati da detta sentenza, “la quale vincola il giudice penale (purche’ esistente e non revocata) come elemento della fattispecie criminosa, e non quale decisione di una questione pregiudiziale” implicata dalla fattispecie”.
La disamina offerta dalle Sezioni Unite con la sentenza Niccoli prosegue rilevando che “l’atto giuridico richiamato in una fattispecie penale conta per gli effetti giuridici che esso produce e non per i fatti con esso definiti, sicche’, se muta, per jus superveniens, la definizione legale dei presupposti (che possono a loro volta consistere in dati di fatto o anche in atti giuridici) perche’ un certo atto giuridico possa essere legittimamente adottato, non puo’ dirsi che le norme sopravvenute, che quei presupposti mutino, incidano sulla struttura del reato. E’ il caso poi di precisare che quando un atto giuridico e’ assunto quale dato della fattispecie penale (non importa se come elemento costitutivo del reato o come condizione di punibilita’), esso e’ sindacabile dal giudice penale nei soli limiti e con gli specifici mezzi previsti dalla legge”. Il che comporta, visto che nel caso di specie l’atto giuridico consiste in un provvedimento giudiziale, l’impossibilita’ di riconoscere al giudice penale “alcun potere di sindacato, dovendo limitarsi a verificare l’esistenza dell’atto e la sua validita’ formale”.
Avuto riguardo al precetto disegnato dagli articoli 216 e 217 legge fall., infine, le Sezioni Unite spiegano che nelle norme de quibus “il termine “imprenditore” non rileva di per se’ ma solo in quanto individua il soggetto “dichiarato fallito”: esso compone cioe’ un’endiadi che ha lo stesso valore connotativo del piu’ breve riferimento al “fallito” contenuto nell’articolo 220 legge fall., del tutto analogo alla espressione “societa’ dichiarate fallite” usata negli articoli 223 e 224 legge fall., per il caso dei “reati commessi da persone diverse dal fallito”; e nessun indizio logico-giuridico puo’ desumersi da dette fattispecie acche’ possa a ragione ritenersi che al giudice penale sia demandato il compito di accertare in capo all’imputato la veste di “imprenditore” ovvero, per la ipotesi di bancarotta impropria, di sindacare la veste societaria assunta dalla fallita. D’altro canto, anche se cio’ fosse, il giudice penale avrebbe, in tesi, solo il compito di accertare una generica qualita’ di “imprenditore”, ma non quella di verificare se, in base alla legge fallimentare, un “imprenditore”, quale che sia, “possa essere dichiarato fallito”, posto che le norme penali qui considerate non si esprimono in questi termini, ma ancorano la operativita’ della fattispecie a una dichiarazione di fallimento e non a un accertamento del giudice penale sulla esistenza delle condizioni per le quali quell’imprenditore poteva essere dichiarato fallito. L'”imprenditore” evocato dalle fattispecie in questione altri non e’, dunque, che il “soggetto dichiarato fallito”, giacche’ nel nostro ordinamento la dichiarazione di fallimento e’ inscindibilmente legata all’esercizio di una impresa, e la norma penale, ponendo a dato strutturale della fattispecie l’esistenza di una dichiarazione di fallimento, non puo’ che richiamarsi a quella condizione soggettiva (“imprenditore”) che la dichiarazione di fallimento implica necessariamente”.
I principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite risultano costantemente ribaditi nelle pronunce successive (v. ad esempio Cass., Sez. 5, n. 40404 dell’08/05/2009, Melucci, Rv 245427, dove si legge che “il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267, articoli 216 e segg., non puo’ sindacare la qualita’ di imprenditore assoggettabile alla procedura fallimentare (…) accertata con la sentenza dichiarativa di fallimento”); si e’ anche ritenuta “manifestamente infondata la questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 150 del d.lgs. n. 5 del 2006, secondo cui i ricorsi e le procedure fallimentari pendenti al momento dell’entrata in vigore del decreto indicato continuano ad essere definiti secondo la legge anteriore, nella parte in cui consente, in relazione ai ricorsi gia’ presentati, la pronuncia dichiarativa di fallimento nei confronti di soggetti che, in applicazione del nuovo regime, non sarebbero assoggettabili a tale tipo di decisione, non rinvenendosi alcuna disparita’ di trattamento tra colui che, in base alla precedente normativa, si trovava in condizione di essere dichiarato fallito, e colui che, a seguito della disciplina sopravvenuta, non lo e’ piu’, posto che, nella struttura delle fattispecie previste dagli articoli 216 e segg. legge fall., la dichiarazione di fallimento assume rilevanza nella sua natura di provvedimento giurisdizionale, e non per i fatti con essa accertati” (Cass., Sez. 5, n. 19889/2014 del 24/10/2013, Raponi, Rv 259837).
3. In ordine alla presunta ravvisabilita’ di una ipotesi di “bancarotta riparata”, e’ senz’altro corretto, da parte della difesa del (OMISSIS), il richiamo di una recente decisione di questa Corte, secondo cui “la bancarotta riparata si configura, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attivita’ di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, non rilevando, invece, il momento di manifestazione del dissesto come limite di efficacia della restituzione” (Cass., Sez. 5, n. 4790/2016 del 20/10/2015, Budola, Rv 266025). Tuttavia, perche’ gli effetti del depauperamento del patrimonio vengano meno occorre una immediata correlazione della condotta riparatoria a quella distrattiva, intendendo l’imprenditore porvi specificamente rimedio: ragionando altrimenti, si dovrebbe ritenere che qualunque attivita’ di finanziamento posta in essere da un socio-amministratore, a prescindere dall’epoca dell’apporto di liquidita’, elida ipso facto la rilevanza penale di una sottrazione di risorse di pari od inferiore importo.
Nel caso di specie, la Corte territoriale chiarisce – e la difesa non ne confuta, sul punto, le argomentazioni – che “non vi e’ in ogni caso piena coincidenza temporale fra l’attivita’ di liquidazione delle auto (maggio-giugno 2004) e le iniziative transattive, atteso che queste ultime iniziano assai prima (dicembre 2003) (…) e si concludono ben dopo la cessione delle autovetture (dicembre 2004) (…), cosi’ da rendere impossibile coniugare con precisione la vendita delle autovetture e l’adempimento delle citate transazioni”. Tanto piu’ che i giudici di merito, con osservazione certamente logica, fanno al contempo presente l’obiettiva incoerenza tra la “necessita’ di reperire risorse da destinare al pagamento di taluni creditori” e “l’acquisto di un’altra autovettura (gennaio 2004, la “Smart”), conservata fra l’altro solo cinque mesi”.
Quanto all’omessa considerazione che una delle vetture de quibus era detenuta dalla fallita a seguito di un contratto di leasing, tanto da dover ritenere la risoluzione del rapporto negoziale un vantaggio per la societa’, liberata dai relativi impegni economici per il pagamento dei ratei, deve certamente tenersi conto dell’orientamento giurisprudenziale – richiamato nell’interesse dello stesso ricorrente – secondo cui, “in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, la pregressa cessione di un contratto di locazione finanziaria integra gli estremi della distrazione nel solo caso in cui determini un effettivo nocumento nei confronti dei creditori, il che e’ escluso quando la permanenza del rapporto negoziale nel patrimonio affidato al curatore costituisca in concreto, dal punto di vista economico, un onere e non gia’ una risorsa positiva” (Cass., Sez. 5, n. 3612/2007 del 06/11/2006, Tralicci, Rv 236043; v. anche Cass., Sez. 5, n. 29757 del 21/05/2010, D’Agostino). Le pronunce ora ricordate, pero’, riguardano la peculiare ipotesi di una cessione del contratto, senza affrontare il tema centrale della concreta acquisizione del bene da parte del fallito, acquisizione che ben puo’ risolversi anche in una disponibilita’ di fatto: non a caso, decisioni piu’ recenti hanno chiarito che “in tema di bancarotta per distrazione di beni ottenuti in leasing, ai fini della configurabilita’ del reato in capo all’utilizzatore poi fallito, e’ necessario che tali beni fossero nella sua effettiva disponibilita’, in conseguenza dell’avvenuta consegna, e che di essi vi sia stata appropriazione, non rilevando la tipologia del contratto di leasing (traslativo o di godimento)” (Cass., Sez. 5, n. 44898 del 01/10/2015, Cantore, Rv 265509).
Nella motivazione della pronuncia appena richiamata, viene ribadito che la giurisprudenza sopra ricordata – con espresso riferimento alla sentenza D’Agostino – era relativa al caso della cessione del contratto di leasing, e che in quel caso era stato lasciato nell’ombra “un punto nodale della questione, ossia se i beni oggetto del contratto di locazione finanziaria fossero mai entrati, di fatto, nella sfera di disponibilita’ della societa’ fallita, a seguito di consegna. La configurabilita’ del reato di bancarotta per distrazione postula, infatti, che i beni non rinvenuti in sede di inventario siano entrati realmente nella sfera patrimoniale della societa’ fallita, di talche’ possa ipotizzarsi quel distacco ingiustificato che integra sul piano oggettivo la fattispecie incriminatrice. La sentenza 29757 del 2010 cit., peraltro, condivisibilmente aggiunge che, ove il fallimento, come nel caso di specie, riguardi l’utilizzatore, puo’ venire in rilievo la sola disponibilita’ di fatto, essendo pacifico che il soggetto non ha la disponibilita’ giuridica, almeno sino alla fine del rapporto e, cioe’, sino a quando, previo esercizio del diritto di opzione, il medesimo non abbia corrisposto il prezzo di riscatto, acquisendo cosi’ la proprieta’ del bene. Per quanto si e’ detto, la disponibilita’ di fatto – la sola configurabile in capo all’utilizzatore – postula, pur sempre, l’avvenuta consegna del bene oggetto di contratto di leasing; verificatosi tale indefettibile presupposto, la relativa appropriazione da parte sua integra distrazione, in quanto la sottrazione (o la dissipazione) del bene comporta un pregiudizio per la massa fallimentare che viene privata del valore dello stesso che avrebbe potuto essere conseguito mediante riscatto al termine del rapporto negoziale – e, al tempo stesso, gravata di ulteriore onere economico scaturente dall’inadempimento dell’obbligo di restituzione” (per l’affermazione degli stessi principi, v. anche, gia’ in precedenza, Cass., Sez. 5, n. 33380 del 18/07/2008, Bottamedi, nonche’ Cass., Sez. 5, n. 9427/2012 del 03/11/2011, Cannarozzo).
Oneri, dunque, che si registrano anche nella odierna fattispecie concreta, a nulla rilevando la circostanza che il contratto fosse, in ipotesi, gia’ stato risolto: nel momento della distrazione, e’ pacifico che la societa’ fallita avesse (e non potesse avere altro che) la disponibilita’ di fatto dell’auto, e l’inadempimento dell’obbligo di restituzione, con la conseguente esposizione della (OMISSIS) s.r.l. verso chi era titolare del correlato diritto, comporto’ comunque una deminutio patrimonii, coerentemente al disposto dell’articolo 79 legge fall., in base al quale “se le cose delle quali il fallito deve la restituzione non si trovano piu’ in suo possesso il giorno della dichiarazione di fallimento, e il curatore non puo’ riprenderle, l’avente diritto puo’ far valere nel passivo il credito per il valore che la cosa aveva alla data della dichiarazione del fallimento”.
4. Le censure svolte dalla difesa del (OMISSIS) in ordine alla ritenuta sussistenza del delitto di bancarotta documentale si palesano generiche, risolvendosi nella acritica iterazione di doglianze gia’ motivatamente disattese dalla Corte di appello, senza neppure considerare le argomentazioni utilizzate dai giudici di merito per confutare le tesi qui ribadite.
Con analisi in fatto non censurabile in questa sede, la Corte milanese ha infatti smentito l’assunto difensivo circa la inattivita’ della societa’ fallita nel 2004, in quanto si collocarono in quell’anno le vicende dell’acquisto della “Smart” e varie iniziative volte a definire i rapporti della (OMISSIS) con alcuni creditori, “tutte rigorosamente trascurate dalla documentazione contabile” (v. pag. 10 della motivazione della sentenza impugnata); e, in punto di dolo specifico, risulta parimenti gia’ evidenziato che “la stessa scelta “transattiva” dell’imputato, per come documentata (di soddisfare solo alcuni dei creditori), in un momento in cui era gia’ palese lo stato di dissesto della societa’, configura astrattamente una irregolarita’ – bancarotta preferenziale – che il (OMISSIS) aveva naturalmente interesse a non documentare” (ibidem).
5. Infondata e’, da ultimo, la prospettazione della difesa circa il mancato riconoscimento dell’attenuante ex articolo 219, comma 3, legge fall..
Secondo la giurisprudenza di legittimita’, infatti, l’entita’ del danno cagionato alla massa dei creditori deve essere valutata sia in relazione al pregiudizio immediatamente conseguente al depauperamento economico, sia – laddove si discuta di bancarotta documentale – alla “impossibilita’ di ricostruire la consistenza del patrimonio e il movimento degli affari dell’impresa fallita e di esercitare le azioni revocatorie o le altre azioni a tutela degli interessi dei creditori” (Cass., Sez. 5, n. 24325 del 18/05/2005, Plati, Rv 232206, dove di precisa che “qualora tale danno non sussista o non sia dimostrato l’attenuante in questione deve essere applicata”; v. anche Cass., Sez. 5, n. 19304 del 18/01/2013, Tumminelli). Tuttavia, nel caso di specie il danno patrimoniale derivante dalla distrazione delle auto risulta accertato ed in re ipsa, visto che nessuna delle vetture intestate alla (OMISSIS) s.r.l. fu rinvenuta dagli organi della procedura (con la conseguente, parimenti assodata, impossibilita’ di assumere iniziative di sorta verso soggetti determinati, al fine di consentirne il recupero): dalla vendita delle auto di proprieta’ – secondo le dichiarazioni rese dal (OMISSIS) in sede di esame, come riportate a pag. 4 della motivazione della pronuncia in epigrafe – la societa’ incasso’ la non minima somma di 13.000,00 Euro, cui deve essere aggiunto il valore della vettura in leasing (una “Fiat Stilo”, che lo stesso (OMISSIS) sostenne di avere abbandonato in strada). Ne’ puo’ valere, quanto alla deminutio patrimonii, il dato della perdita parametrato proporzionalmente all’entita’ del passivo, giacche’ “in tema di bancarotta fraudolenta, il giudizio relativo alla particolare tenuita’ del fatto deve essere posto in relazione alla diminuzione, non percentuale ma globale, che il comportamento del fallito ha provocato alla massa attiva che sarebbe stata disponibile per il riparto ove non si fossero verificati gli illeciti” (Cass., Sez. 5, n. 13285 del 18/01/2013, Pastorello, Rv 255063).
6. In ordine al ricorso del (OMISSIS), gli assunti dell’imputato appaiono generici e manifestamente infondati.
6.1 Il primo motivo, infatti, costituisce mera riproposizione delle doglianze mosse con l’atto di appello, a fronte di una decisione della Corte territoriale che ha gia’ chiarito come egli – pur avendo partecipato soltanto all’ultimo periodo di attivita’ della fallita – divenne legale rappresentante della societa’ senza curarsi in alcun modo di rintracciare ed aggiornare le scritture contabili, disinteressandosi completamente anche della comunicazione dell’ufficio di Polizia Locale che gli aveva segnalato, prima del fallimento, il rinvenimento della “Fiat Stilo” anzidetta (senza che il (OMISSIS) si attivasse per recuperarla in qualche modo, venendo cosi’ a concorrere nella condotta di abbandono e dispersione del bene, gia’ posta in essere dal (OMISSIS)).
Percio’, le censure del ricorrente riproducono ragioni gia’ discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, e per costante giurisprudenza il difetto di specificita’ del motivo – rilevante ai sensi dell’articolo 581 c.p.p., lettera c), va apprezzato non solo in termini di indeterminatezza, ma anche “per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non puo’ ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di aspecificita’ che conduce, a norma dell’articolo 591 c.p.p., comma 1, lettera c), all’inammissibilita’ dell’impugnazione” (Cass., Sez. 2, n. 29108 del 15/07/2011, Cannavacciuolo). Gia’ in precedenza, e nello stesso senso, si era rilevato che “e’ inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli gia’ dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla Corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso” (Cass., Sez. 6, n. 20377 dell’11/03/2009, Arnone, Rv 243838).
6.2 Quanto alla lamentata assenza di “effettivi riscontri di natura tecnico-documentale” alle presunte risultanze probatorie sulla materialita’ dei fatti addebitati, deve rilevarsi, da un lato, che l’imputato aveva impugnato la sentenza di primo grado invocando soltanto la propria mancanza di dolo; dall’altro, la doglianza e’ articolata sotto il profilo dell’omessa assunzione di prove decisive, senza dedurre che dinanzi ai giudici di merito era stato sollecitato l’esperimento di una perizia e senza considerare che comunque – per consolidata giurisprudenza di questa Corte – una eventuale pronuncia recante il rigetto di una “richiesta di perizia, ritenuta decisiva dalle parti, non e’ censurabile ai sensi dell’articolo 606, comma primo, lettera d), cod. proc. pen., in quanto costituisce il risultato di un giudizio di fatto (…) insindacabile in cassazione” (Cass., Sez. 4, n. 7444 del 17/01/2013, Sciarra, Rv 255152).
4.3 In relazione alla presunta inosservanza dell’articolo 133 cod. pen., il (OMISSIS) si limita a rappresentare che il Tribunale e la Corte di appello avrebbero compiuto una valutazione parziale degli elementi indicati dalla norma, ma non indica quali aspetti – idonei, ove adeguatamente valorizzati, a giungere ad un trattamento sanzionatorio piu’ mite – sarebbero stati pretermessi. Deve peraltro essere qui ribadito che “la graduazione della pena, anche rispetto agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalita’ del giudice di merito, il quale la esercita, cosi’ come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli articoli 132 e 133 cod. pen., sicche’ e’ inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruita’ della pena” (Cass., Sez. 3, n. 1182/2008 del 17/10/2007, Cilia, Rv 238851).
7. Si impongono pertanto le determinazioni di cui al dispositivo; entrambi gli imputati debbono essere conseguentemente condannati al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimita’ e, il solo (OMISSIS) – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’, in quanto riconducibile alla volonta’ del ricorrente (v. Corte Cost., sent. n. 186 del 13/06/2000) – anche al pagamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di Euro 2.000,00, cosi’ equitativamente stabilita in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso di (OMISSIS), e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Rigetta il ricorso di (OMISSIS), che condanna al pagamento delle spese processuali.