Corte Costituzionale Sentenza 12 gennaio 2018, n. 2
dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale della legge della Regione Marche 23 giugno 2014, n. 15 (Distacco della frazione di Marotta dal Comune di Fano e incorporazione nel Comune di Mondolfo. Mutamento delle rispettive circoscrizioni comunali), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 113, primo e secondo comma, e 133, secondo comma, della Costituzione, dal Consiglio di Stato, sezione quinta, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara che non spetta allo Stato, e, per esso, al Consiglio di Stato, annullare, dopo l’entrata in vigore della legge reg. Marche n. 15 del 2014, gli atti del procedimento referendario che ne costituiscono il presupposto, e annulla, per l’effetto, la sentenza non definitiva del Consiglio di Stato, sezione quinta, 23 agosto 2016, n. 3678.
Corte Costituzionale Sentenza 12 gennaio 2018, n. 2
Integrale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Marche 23 giugno 2014, n. 15 (Distacco della frazione di Marotta dal Comune di Fano e incorporazione nel Comune di Mondolfo. Mutamento delle rispettive circoscrizioni comunali), promosso dal Consiglio di Stato, sezione quinta, nel procedimento vertente tra il Comune di Fano e altri e la Regione Marche e altri con ordinanza del 23 agosto 2016, iscritta al n. 229 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2016; e nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito della sentenza del Consiglio di Stato, sezione quinta, del 23 agosto 2016, n. 3678, promosso dalla Regione Marche con ricorso notificato il 27 ottobre 2016, depositato in cancelleria il 3 novembre 2016 ed iscritto al n. 5 del registro conflitti tra enti 2016.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri, della Regione Marche, dei Comuni di Fano e Mondolfo;
udito nella udienza pubblica del 7 novembre 2017 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
uditi gli avvocati Antonio D’Atena per il Comune di Fano, Stefano Grassi per la Regione Marche, Massimo Luciani per il Comune di Mondolfo e l’avvocato dello Stato Carlo Sica per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 23 agosto 2016 (r.o. n. 229 del 2016), il Consiglio di Stato, sezione quinta, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 113, primo e secondo comma, e 133, secondo comma, della Costituzione, della legge della Regione Marche 23 giugno 2014, n. 15 (Distacco della frazione di Marotta dal Comune di Fano e incorporazione nel Comune di Mondolfo. Mutamento delle rispettive circoscrizioni comunali).
1.1.– Il rimettente riferisce di essere chiamato a decidere un ricorso proposto dal Comune di Fano per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per le Marche, sezione prima, 18 settembre 2015, n. 660, avente ad oggetto gli atti del procedimento referendario regionale che ha condotto al distacco della frazione di Marotta dal territorio del Comune di Fano e la sua incorporazione nel confinante Comune di Mondolfo.
Il Consiglio di Stato ricorda che il Comune di Fano aveva impugnato innanzi al TAR Marche la delibera del Consiglio regionale 15 gennaio 2013, n. 61, di indizione del referendum consultivo sulla proposta di legge regionale n. 77 del 2011, recante «Distacco della frazione di Marotta dal Comune di Fano e incorporazione nel Comune di Mondolfo. Mutamento delle rispettive circoscrizioni comunali», poiché essa individuava le popolazioni interessate alla variazione territoriale nei soli residenti della frazione di Marotta di Fano.
Il giudice di primo grado, con ordinanza 19 aprile 2013, n. 160, aveva accolto l’istanza cautelare e quindi sospeso l’esecuzione degli atti del procedimento referendario, osservando che, pur non dovendosi necessariamente intendere, per «popolazioni interessate», tutti i residenti del Comune di Fano, la delimitazione degli aventi diritto al voto deve essere definita di volta in volta e in relazione alla particolare situazione socio-economica della zona. Aggiungeva che, sul punto, vi era stato un difetto di istruttoria e di motivazione nel limitare il referendum ai soli residenti in Marotta di Fano, anziché estenderlo ad altri residenti nel Comune di Fano «quali, ad esempio, quelli residenti nelle frazioni limitrofe».
In ossequio a tale pronuncia, il Consiglio regionale della Regione Marche, previa revoca dell’originaria delibera, rinnovava – con la delibera consiliare n. 87 del 22 ottobre 2013 – l’indizione del referendum, estendendo questa volta la consultazione alle popolazioni delle frazioni limitrofe dei due Comuni interessati dal distacco.
Anche tale provvedimento veniva impugnato dal Comune di Fano innanzi al TAR Marche. Quest’ultimo, tuttavia, respingeva l’istanza cautelare, ritenendo che la delibera adottata dal Consiglio regionale rispondesse a quanto disposto dalla propria precedente ordinanza n. 160 del 2013.
Con decreto del Presidente della Regione 14 novembre 2013, n. 188, veniva quindi indetto il referendum, che si è svolto il 9 marzo 2014. A favore del distacco si è espresso il 67,3 per cento dei votanti.
Alla luce dell’esito del referendum, approvando la legge reg. Marche n. 15 del 2014, il Consiglio regionale deliberava il distacco della frazione di Marotta dal Comune di Fano e la sua incorporazione nel Comune di Mondolfo.
Con sentenza 18 settembre 2015, n. 660, il TAR Marche respingeva nel merito il ricorso del Comune di Fano, ritenendo anche manifestamente infondate tutte le censure di legittimità costituzionale formulate dall’amministrazione ricorrente in merito alla ricordata legge reg. Marche n. 15 del 2014, nonché in relazione alla legge della Regione Marche 5 aprile 1980, n. 18 (Norme sui referendum previsti dallo statuto), che disciplina in via generale i procedimenti referendari regionali.
Avverso tale sentenza il Comune di Fano proponeva infine appello innanzi al Consiglio di Stato, attuale giudice a quo.
1.2.– Nell’ordinanza di rimessione il Consiglio di Stato afferma di aver già accolto l’appello proposto dal Comune di Fano con sentenza non definitiva 23 agosto 2016, n. 3678, pronunciata contestualmente all’ordinanza stessa.
In tale sentenza è stata ritenuta illegittima – e quindi annullata – la citata delibera di indizione del referendum consultivo n. 87 del 2013, in quanto – secondo il Consiglio di Stato – la Regione Marche ha chiamato a partecipare al referendum previsto dall’art. 133, secondo comma, Cost. non tutte le popolazioni residenti nei due Comuni interessati dalla proposta di modifica circoscrizionale, ma solo i residenti nella frazione di Marotta di Fano e nelle frazioni limitrofe ai due Comuni.
In questa stessa decisione il Consiglio di Stato ha rigettato – ritenendole manifestamente infondate – le eccezioni del ricorrente, che aveva chiesto di sollevare questioni di legittimità costituzionale della legge reg. Marche n. 18 del 1980, nella parte in cui si limita a stabilire che i referendum consultivi debbano tenersi presso «le popolazioni interessate» (art. 20, comma 2), per violazione del citato art. 133, secondo comma, Cost., nonché, «in via derivata», della legge reg. Marche n. 15 del 2014.
Egualmente rigettate sono state le eccezioni volte a sollecitare il Consiglio di Stato a rimettere alla Corte costituzionale «in via autonoma» questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto la legge reg. Marche n. 15 del 2014, perché asseritamente approvata con l’intento di interferire con la funzione giurisdizionale.
Nel rigettare tali eccezioni, il Consiglio di Stato ha osservato che, in base alla giurisprudenza costituzionale formatasi sull’art. 133, secondo comma, Cost., non possono essere escluse dalla consultazione referendaria le popolazioni direttamente interessate al mutamento circoscrizionale, né possono essere escluse a priori quelle che, essendo comunque residenti nei Comuni interessati dalla proposta di mutamento, sebbene non direttamente coinvolte, in linea di principio vantano un interesse ad esprimersi su di essa, mentre possono essere escluse solo in casi «particolari ed eccezionali» (è menzionata la sentenza n. 433 del 1995 della Corte costituzionale). Ha aggiunto che dalla medesima giurisprudenza costituzionale si evince come alla legge regionale spetti la definizione dei criteri in base ai quali escludere di volta in volta le popolazioni non direttamente interessate dalla partecipazione al referendum consultivo, ma che, tuttavia, in assenza di criteri, la definizione di tali popolazioni può legittimamente essere demandata «alla sede amministrativa (al momento dell’indizione del referendum consultivo)», in modo che la scelta in concreto compiuta possa essere eventualmente censurata davanti al giudice amministrativo. Ha infine osservato che la legge reg. Marche n. 18 del 1980 reca, all’art. 20, una formula riproduttiva del dettato costituzionale e, dunque, non in contrasto con quest’ultimo. Di conseguenza, ha ritenuto che la legge reg. Marche n. 15 del 2014 non potesse essere considerata illegittima, in via derivata, «dalla legge regolatrice del referendum per violazione del medesimo parametro» e che, inoltre, trattandosi del doveroso atto conclusivo del procedimento prefigurato dal più volte ricordato art. 133, secondo comma, Cost., la legge reg. Marche n. 15 del 2014 non potesse nemmeno ritenersi adottata in violazione del divieto al legislatore di interferire nell’attività giurisdizionale.
Nonostante il rigetto delle eccezioni sollevate dal ricorrente, il Consiglio di Stato ha ritenuto che, nel caso di specie, difettassero in concreto quelle condizioni «particolari ed eccezionali» che giustificano la deroga al principio generale stabilito dall’art. 133, secondo comma, Cost. e che sono state ripetutamente affermate dalla giurisprudenza costituzionale. Poiché, secondo tale giurisprudenza, in linea di principio tutte le popolazioni residenti nei Comuni interessati dalla proposta di mutamento circoscrizionale devono partecipare al referendum consultivo, esso ha conseguentemente annullato – con sentenza non definitiva – la delibera del Consiglio regionale n. 87 del 2013 di indizione del referendum consultivo sulla proposta di distacco della frazione di Marotta dal Comune di Fano.
1.3.– Il Consiglio di Stato, sottolineando di aver già annullato gli atti impugnati nel giudizio a quo, afferma – richiamando le sentenze n. 225 e n. 226 del 1999 della Corte costituzionale – «di non potere emettere analoga statuizione demolitoria» nei confronti della più volte menzionata legge reg. Marche n. 15 del 2014, «a causa del relativo valore e della relativa forza», in quanto una pronuncia nei confronti dell’atto legislativo conclusivo del procedimento, ai sensi dell’art. 133, secondo comma, Cost., spetta esclusivamente alla Corte costituzionale.
Per tale ragione, ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della legge reg. Marche n. 15 del 2014 per violazione dell’art. 133, secondo comma, Cost.
Tale questione sarebbe rilevante poiché, pur essendo stati annullati con sentenza non definitiva gli atti «della fase amministrativa del procedimento ex art. 133, secondo comma, Cost., permane tuttora l’atto conclusivo di legge, e quindi l’effetto dichiarativo da esso discendente, ovvero il distacco della frazione di Marotta». Trattandosi di una fonte primaria, essa sarebbe «di ostacolo alla pronuncia costitutiva di annullamento degli atti del referendum consultivo, e comunque della satisfattività della pronuncia stessa».
Precisa quindi il rimettente – richiamando letteralmente la propria sentenza non definitiva di accoglimento del ricorso – che l’annullamento della delibera di indizione del referendum deve essere posta in relazione con la sopravvenuta legge reg. Marche n. 15 del 2014, la quale, pur promulgata in seguito allo svolgimento del referendum consultivo indetto con l’annullata delibera, non menziona l’esito della consultazione popolare. Il collegamento sarebbe desumibile soltanto attraverso i lavori preparatori.
Il giudice a quo, pur ammettendo che la volontà di approvare la legge regionale appartiene agli organi legislativi regionali e che il referendum consultivo consente di conoscere la volontà delle popolazioni direttamente interessate, sottolinea che, se il referendum non venisse svolto oppure non venisse svolto correttamente, la legge si porrebbe in contrasto con l’art. 133, secondo comma, Cost.: proprio per il suo carattere di legge-provvedimento, essa sarebbe, infatti, «irragionevole per difetto della possibilità di una congrua valutazione della previa volontà di quelle che davvero risultano le popolazioni interessate», risultando altresì priva del suo indispensabile presupposto procedimentale.
Tuttavia – rileva ancora il giudice a quo – mentre la valutazione della legittimità degli atti di indizione del procedimento referendario, vista la loro natura amministrativa e non legislativa, competerebbe al giudice amministrativo, la legittimità della legge regionale conseguente potrebbe essere giudicata soltanto dalla Corte costituzionale.
Al tempo stesso – prosegue il rimettente – la mancata menzione, nel corpo della legge reg. Marche n. 15 del 2014, del previo procedimento referendario e del suo esito, da un lato, sembrerebbe escludere l’automatica caducazione della legge regionale all’esito del giudizio di annullamento del procedimento referendario, così appunto pregiudicando l’effettività della tutela giurisdizionale garantita dall’art. 113, primo e secondo comma, Cost.; dall’altro, la medesima mancanza sarebbe di ostacolo alla stessa pronuncia di annullamento giurisdizionale, poiché quest’ultima si porrebbe in contrasto con un atto che riveste valore formale di legge e che perciò vincola il giudice al suo rispetto. Tale legge costituirebbe un «irragionevole ostacolo a una pronuncia realmente e pienamente satisfattiva del Comune ricorrente».
In conclusione, il Consiglio di Stato eccepisce l’illegittimità costituzionale della legge reg. Marche n. 15 del 2014, in quanto la mancata menzione del previo svolgimento del procedimento referendario concretamente e compiutamente svolto renderebbe la legge regionale censurata «irragionevolmente autonoma» e lesiva della sequenza procedimentale stabilita dall’art. 133 Cost. («che postulerebbe invece l’espressa integrazione formale della legge regionale con gli atti presupposti»), mantenendola «indenne dall’annullamento giurisdizionale» degli atti amministrativi già disposto dal rimettente.
2.– Si è costituita in giudizio la Regione Marche, parte resistente nel giudizio a quo, chiedendo che le questioni sollevate dal Consiglio di Stato siano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate.
La difesa regionale premette di aver proposto conflitto di attribuzione avverso la sentenza non definitiva del Consiglio di Stato, sezione quinta, n. 3678 del 2016, con cui il rimettente ha annullato il «presupposto indefettibile» della legge-provvedimento censurata nel giudizio di legittimità costituzionale, e chiede che i due giudizi siano trattati congiuntamente.
La difesa regionale afferma anche di aver impugnato la medesima sentenza di fronte alle sezioni unite della Corte di cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi degli artt. 363 del codice di procedura civile, 111, ottavo comma, Cost., e 110 del codice del processo amministrativo, adottato con decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
La Regione Marche eccepisce quindi la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di Stato per la genericità dei parametri costituzionali evocati e, di conseguenza, per l’indeterminatezza delle censure formulate.
Ad avviso della difesa regionale, tali censure sarebbero, in ogni caso, non fondate.
In primo luogo, la semplice menzione del procedimento referendario ex art. 133, secondo comma, Cost. non rappresenterebbe un requisito di validità della legge che sancisce la variazione territoriale. Mentre, infatti, tale legge deve essere necessariamente preceduta dal procedimento di consultazione delle popolazioni interessate, affinché il legislatore tenga conto dell’esito del referendum nella propria conclusiva e discrezionale determinazione, non sarebbe invece necessario che il legislatore menzioni formalmente l’esito del referendum nella legge-provvedimento. Ciò che rileva – ad avviso della difesa regionale – è che il referendum si sia svolto.
Nel ricostruire l’iter che ha condotto all’approvazione della legge reg. Marche n. 15 del 2014, la difesa regionale sottolinea che dell’espletamento della procedura referendaria e delle relative attività istruttorie è stata data evidenza nei lavori consiliari e che i risultati della consultazione sono stati pubblicati nel Bollettino Ufficiale della Regione.
In secondo luogo, la difesa della Regione Marche osserva come la legge censurata non si porrebbe «come irragionevolmente autonoma» rispetto al procedimento referendario «semplicemente perché non deve esserlo», come del resto è chiarito dalla giurisprudenza costituzionale ed è ammesso dallo stesso rimettente. Osserva sul punto la difesa regionale che il Consiglio di Stato avrebbe fondato la propria decisione sulla sentenza n. 47 del 2003 della Corte costituzionale, nella quale sarebbe stato affermato che «sulle deliberazioni amministrative di indizione delle consultazioni popolari» può intervenire il sindacato della giurisdizione amministrativa, e che la Corte può invece limitarsi a valutare la congruità e la legittimità costituzionale dei criteri fissati dalle leggi regionali rispetto all’art. 133, secondo comma, Cost. Poiché, però, nel caso di specie, la legge reg. Marche n. 18 del 1980 non fissa tali criteri – senza, peraltro, che ciò impedisca al Consiglio regionale di definire ragionevolmente l’ambito delle popolazioni interessate – risulterebbe evidente che l’avvio del procedimento di formazione della legge regionale che modifica la circoscrizione comunale sarebbe del tutto inscindibile dalla legge che conclude il procedimento, e non sarebbe perciò possibile consentire che il sindacato su di essa si svolga in due fasi diverse, da parte di due giudici distinti.
Ad avviso della difesa regionale, dunque, poiché si tratta di un unico procedimento, solo nel giudizio di legittimità costituzionale sarebbe ammesso il sindacato sull’atto legislativo e sull’iter in base al quale esso è stato adottato. La valutazione con cui è stato esercitato il potere discrezionale del Consiglio regionale nel selezionare le popolazioni interessate, nel caso in cui non si tratti di sindacare tale scelta sulla base dei criteri fissati nella legge regionale, non potrebbe che spettare all’unico organo in grado di valutare la legittimità costituzionale dell’intero procedimento amministrativo, ossia la Corte costituzionale. Poiché, nel caso di specie, la legge reg. Marche n. 15 del 2014 ha concluso un procedimento, nel cui ambito la consultazione referendaria era stata effettuata alla luce dei criteri indicati dalle delibere del Consiglio regionale, la valutazione della congruità di tali criteri non potrebbe essere effettuata dal giudice amministrativo senza che sia stata previamente effettuata, da parte della Corte costituzionale, la valutazione della legittimità costituzionale della legge conclusiva del procedimento.
In ogni caso – conclude la difesa regionale – i criteri individuati dal Consiglio regionale nel selezionare le popolazioni interessate sarebbero pienamente conformi all’art. 133, secondo comma, Cost.
Dopo aver ricordato la giurisprudenza costituzionale sul punto (e, in particolare, nell’ordine, le sentenze n. 453 del 1989, n. 433 del 1995, n. 94 del 2000 e n. 47 del 2003) la difesa regionale osserva come – premessa comunque la necessità di un’attenta valutazione, caso per caso, degli elementi di fatto nella scelta delle popolazioni da consultare con il referendum consultivo – da tale giurisprudenza si ricavi il particolare rilievo di due criteri: da un lato, la circostanza per cui il gruppo che chiede l’autonomia sia già esistente come «fatto sociologicamente distinto», sia collegato con un’area eccentrica rispetto al capoluogo ed abbia quindi una sua caratterizzazione distintiva, e, dall’altro, la limitata entità del territorio e della popolazione rispetto al totale.
Entrambe tali condizioni ricorrerebbero nel caso concreto. La frazione di Marotta si porrebbe come gruppo sociologicamente distinto rispetto al Comune di Fano, come sarebbe dimostrato dal suo nome, dalla conformazione territoriale, dalla distanza tra i due Comuni e dalla concreta organizzazione e gestione dei servizi comunali. Inoltre, per ciò che concerne l’entità della popolazione e del territorio, precisa la difesa regionale che la frazione di Marotta vanta circa 3.000 abitanti rispetto ai 63.000 del Comune di Fano e ai 12.000 del Comune di Mondolfo, per un’area di 1,53 chilometri quadrati su un totale di 121 chilometri quadrati del Comune di Fano.
2.1.– Nella memoria depositata il 17 ottobre 2017, nell’imminenza dell’udienza pubblica, la Regione Marche osserva come l’ordinanza del Consiglio di Stato confermi la problematicità insita nel sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità di una fase necessaria – la consultazione popolare – di questo particolare procedimento di formazione della legge regionale.
Da un lato, infatti, il giudice amministrativo, sollevando questioni di legittimità costituzionale innanzi alla Corte costituzionale, avrebbe dimostrato di essere consapevole dell’impossibilità di censurare direttamente l’atto legislativo, dall’altro, però, esso ha ritenuto di poter intervenire su una fase essenziale nella formazione della medesima legge regionale, annullando la delibera di indizione del referendum.
La contraddizione in cui sarebbe incorso il Consiglio di Stato sarebbe confermata dal fatto che esso ha inserito nel dispositivo della sentenza la statuizione di annullamento della delibera di indizione del referendum, ma ha, al tempo stesso, considerato la legge reg. Marche n. 15 del 2014 un «ostacolo alla pronuncia costitutiva di annullamento degli atti del referendum consultivo». In conseguenza di tale contraddittoria statuizione, il Consiglio di Stato avrebbe censurato esclusivamente l’omesso richiamo, nel testo della ricordata legge regionale n. 15 del 2014, della consultazione popolare.
Ciò che il rimettente chiede alla Corte costituzionale sarebbe, dunque, una mera «ratifica» di quanto già deciso dal Consiglio di Stato con la sentenza non definitiva n. 3678 del 2016.
La difesa della Regione Marche rileva, quindi, come le censure sollevate dal Consiglio di Stato risulterebbero manifestamente inammissibili per due ragioni.
In primo luogo, esse sarebbero irrilevanti, in quanto – chiedendo «in pratica» il rimettente alla Corte costituzionale di confermare l’annullamento di un presupposto della legge regionale – l’oggetto del giudizio di costituzionalità coinciderebbe con l’oggetto del giudizio a quo.
In secondo luogo – come già osservato nell’atto di costituzione in giudizio – l’ordinanza non indicherebbe con chiarezza gli specifici vizi di legittimità costituzionale in relazione ai parametri invocati e, dunque, sarebbe generica e indeterminata.
Quanto al merito delle censure, la difesa della Regione Marche ribadisce che l’omesso esplicito riferimento alla consultazione popolare nel corpo della legge non è in grado di rendere quest’ultima autonoma rispetto alle fasi precedenti alla sua approvazione, in quanto il procedimento legislativo di competenza regionale deve essere considerato unitariamente e non si compone di fasi scindibili e, dunque, sindacabili da diverse autorità giurisdizionali. Si aggiunge che il contenuto della legge regionale è riferito alla modifica delle circoscrizioni comunali e non allo svolgimento e all’esito della consultazione popolare.
La difesa regionale ricorda, quindi, approfonditamente, le ragioni per le quali ritiene che, nel caso specifico, il procedimento che ha condotto all’approvazione della legge reg. Marche n. 15 del 2014 sia stato pienamente aderente all’art. 133, secondo comma, Cost. e alla relativa giurisprudenza costituzionale, con particolare riferimento ai criteri che il Consiglio regionale deve seguire nell’individuare le popolazioni interessate dalla consultazione popolare.
3.– In data 6 dicembre 2016 si è costituito nel giudizio di legittimità costituzionale il Comune di Fano, parte ricorrente nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di Stato.
Premette l’interveniente che l’art. 133, secondo comma, Cost. delinea un «modello legislativo rinforzato» che si compone di un procedimento amministrativo e di un procedimento legislativo e che, rispetto ad una fattispecie così articolata, la Corte costituzionale avrebbe riconosciuto differenziati mezzi di tutela: il ricorso al giudice amministrativo avverso gli atti che si inseriscono nel procedimento amministrativo e la tutela assicurata dalla stessa Corte costituzionale rispetto alla legge regionale che dispone la variazione territoriale (sul punto sono citati alcuni passi della sentenza n. 47 del 2003).
In tale contesto, il Consiglio di Stato ha accertato che non vi erano le condizioni per limitare la partecipazione al referendum ad una parte delle popolazioni interessate; ha constatato che, per effetto della legge-provvedimento successivamente intervenuta, la sua decisione non avrebbe potuto produrre effetti e che, in mancanza di qualsiasi richiamo espresso da parte della predetta legge-provvedimento alla consultazione referendaria, non era sostenibile che l’accertamento dell’illegittimità dell’atto di indizione potesse produrre un automatico effetto caducatorio della legge; e ha pertanto sollevato le presenti questioni di legittimità costituzionale.
Ritiene la difesa del Comune di Fano che, tra i vizi denunciati dal rimettente, vi sarebbe anche la violazione dell’art. 133, secondo comma, Cost., in quanto, non solo la Regione Marche avrebbe omesso di predeterminare in via legislativa i criteri per individuare le popolazioni interessate («scelta normativa in sé viziata, che l’ecc.ma Corte potrebbe censurare sollevando dinanzi a se stessa la questione di l.c. dell’art. 20, comma 2, della legge regionale n. 18/1980»), ma avrebbe proceduto ad una delimitazione della popolazione da consultare non fondata «su elementi sicuramente idonei a farne ritenere insussistente l’irragionevolezza».
3.1.– In data 17 ottobre 2017 anche la difesa del Comune di Fano ha depositato ulteriore memoria, approfondendo gli argomenti già illustrati nell’atto di costituzione in giudizio.
Ribadisce anzitutto che – a differenza di quanto sostenuto dalla Regione Marche – il procedimento di variazione delle circoscrizioni comunali ex art. 133, secondo comma, Cost. non sarebbe configurabile come un procedimento «monolitico»: l’atto di indizione del referendum consultivo, con cui si apre il «sub-procedimento» che si conclude con la consultazione referendaria, sarebbe produttivo di effetti propri, suscettibili di ledere immediatamente le posizioni giuridiche dei soggetti pubblici e privati interessati e non sarebbe quindi derubricabile ad atto meramente endo-procedimentale. La situazione presenterebbe dunque «chiari punti di contatto» con quella che ha formato oggetto delle decisioni n. 225 e n. 226 del 1999, in cui la Corte costituzionale avrebbe nettamente distinto la fase amministrativa da quella legislativa, assegnando al giudice amministrativo il sindacato dei vizi che si collocano nella prima delle due fasi. Tale conclusione sarebbe stata peraltro confermata dalla sentenza n. 47 del 2003.
Né potrebbe sostenersi – ad avviso del Comune di Fano – che il sindacato del giudice amministrativo sarebbe possibile solo nel caso in cui i criteri dei quali l’organo che indice il referendum deve fare applicazione siano stati espressamente predeterminati dal legislatore regionale, mentre il medesimo sindacato sarebbe da escludere qualora l’atto di indizione della consultazione sia stato assunto in difetto di predeterminazione legislativa. Tale conclusione determinerebbe «un clamoroso deficit di tutela», in quanto, non potendo i cittadini e i Comuni accedere direttamente alla Corte costituzionale, essi non avrebbero la possibilità di denunciare eventuali illegittimità dell’atto di indizione del referendum, al fine di restaurare la legalità violata.
Il Comune di Fano argomenta, quindi, in ordine alla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di Stato, nonostante il medesimo giudice abbia già accertato – con distinta pronuncia – l’illegittimità dell’atto di indizione del referendum. A tal fine, sottolinea come il rimettente abbia espressamente qualificato tale pronuncia come “non definitiva”, proprio perché gli effetti di essa sarebbero subordinati all’esito della decisione sulla questione di legittimità costituzionale. Dal momento che la legge reg. Marche n. 15 del 2014 non consentiva una pronuncia realmente e pienamente satisfattiva della pretesa del Comune ricorrente, il Consiglio di Stato avrebbe correttamente qualificato la propria decisione come «non definitiva», annullando «senza effetto costitutivo» l’atto di indizione del referendum, in attesa della pronuncia della Corte costituzionale.
Il Comune di Fano controdeduce all’eccezione di inammissibilità delle altre parti costituite, sostenendo che, nell’ordinanza di rimessione, non vi sarebbero carenze sulla motivazione in ordine alla manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, in relazione a tutti e tre i parametri invocati.
Nel merito, in ordine alla presunta lesione dell’art. 133, secondo comma, Cost., il Comune di Fano illustra ampiamente le ragioni per le quali ritiene che, nel caso concreto, non siano state correttamente identificate le popolazioni interessate dalla variazione territoriale, richiamando la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 47 del 2003, n. 94 del 2000, n. 433 del 1995 e n. 453 del 1989). Conclude sul punto osservando come l’invalidità della consultazione referendaria non possa non riflettersi sull’atto legislativo che ha disposto la variazione territoriale, determinandone l’illegittimità costituzionale, dal momento che il referendum costituisce un indefettibile presupposto procedimentale della legge regionale.
La legge reg. Marche n. 15 del 2014 si porrebbe in contrasto anche con l’art. 3 Cost., poiché sarebbe stata adottata sulla base di una consultazione da cui è stata esclusa la stragrande maggioranza degli aventi diritto.
Inoltre, essa violerebbe l’art. 113, secondo comma, Cost., poiché non vi sarebbe alcun richiamo formale – nelle premesse o nella formula promulgativa – al referendum e, dunque, l’accertata illegittimità della delibera di indizione del referendum «non ha consentito al giudice amministrativo di prendere atto che la legge regionale 15 del 2014, essendo rimasta priva di un presupposto imprescindibile, non fosse in condizione di produrre la variazione territoriale da essa disposta».
Il Comune di Fano argomenta, infine, in ordine alla «remotissima» – e, a suo avviso, «deprecata» – ipotesi in cui la Corte costituzionale ritenga che la determinazione in concreto delle popolazioni da coinvolgere nella consultazione referendaria si fondi sull’art. 20, secondo comma, della legge reg. Marche n. 18 del 1980, così ammettendo che il Consiglio regionale possa, di volta in volta, selezionare le popolazioni interessate dalla variazione territoriale. In tal caso – e tanto più se si ritenga che, in assenza di criteri legislativamente predeterminati, la determinazione dell’organo sia sottratta al sindacato della giurisdizione amministrativa – il Comune di Fano sollecita la Corte costituzionale a sollevare di fronte a se stessa questione di legittimità costituzionale proprio sull’art. 20, secondo comma, della legge reg. Marche n. 18 del 1980 per violazione del principio di legalità sostanziale, in quanto l’atto amministrativo non troverebbe fondamento in una norma generale e astratta. È sul punto richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 36 del 2011, nella quale si afferma che le leggi adottate ai sensi dell’art. 133, secondo comma, Cost. sono tipiche leggi provvedimento caratterizzate da un aggravamento procedurale «regolato, quanto al suo ambito applicativo e alle sue modalità attuative, da fonte regionale».
Assume il Comune di Fano che alla violazione del principio di legalità sostanziale si affiancherebbe anche la violazione della riserva di legge, non potendosi ragionevolmente dubitare che la previa norma regionale chiamata a prefigurare e circoscrivere il potere dell’autorità amministrativa chiamata a celebrare il referendum debba essere una norma di rango legislativo.
4.– In data 6 dicembre 2016 si è costituito in giudizio anche il Comune di Mondolfo, parte resistente nel giudizio a quo, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di Stato siano dichiarate manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza e di motivazione sulla rilevanza: il rimettente non avrebbe infatti fornito alcuna indicazione sulla necessaria applicabilità della legge censurata nel giudizio principale. Ad avviso della parte, le questioni sarebbero altresì inammissibili per carenza di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza.
In subordine, esse sarebbero comunque manifestamente infondate, in quanto la legge reg. Marche n. 15 del 2014 risulterebbe pienamente rispettosa di tutti i parametri invocati.
4.1.– In data 17 ottobre 2017, il Comune di Mondolfo ha prodotto una memoria in cui illustra e approfondisce le ragioni delle sue allegazioni.
Premette la parte che il Consiglio di Stato avrebbe interamente travisato sia il modello astratto di procedimento legislativo regionale di modifica delle circoscrizioni comunali come previsto dall’art. 133 Cost. e precisato dalla giurisprudenza costituzionale, sia il procedimento che, nel caso di specie, è stato in concreto seguito dalla Regione Marche per giungere all’approvazione della legge n. 15 del 2014.
La giurisprudenza costituzionale avrebbe, infatti, individuato due modelli alternativi di procedimento per la modifica delle circoscrizioni comunali: il primo modello – puntualmente ricostruito nella sentenza n. 47 del 2003 – si caratterizzerebbe per la predeterminazione, con legge, dei criteri generali di individuazione delle popolazioni interessate; nel secondo modello – tratteggiato nella sentenza n. 62 del 1975 – difetterebbe la preventiva fissazione, da parte della legge regionale, dei criteri di individuazione delle popolazioni interessate alla modifica e perciò alla consultazione referendaria.
Ad avviso del Comune di Mondolfo, il Consiglio di Stato avrebbe confuso i due modelli e impostato la questione di legittimità costituzionale come se, nel caso di specie, fosse stato impiegato il modello descritto dalla sentenza n. 47 del 2003. Annullando la delibera di indizione del referendum e poi sollevando la questione di legittimità costituzionale, il Consiglio di Stato avrebbe eliso la possibilità di radicare il nesso di rilevanza tra il giudizio a quo e quello di costituzionalità; avrebbe formulato censure di illegittimità costituzionale non attinenti all’aggravamento procedimentale ex art. 133, secondo comma, Cost., e al principio di autodeterminazione delle comunità locali espresso da quella disposizione costituzionale; e avrebbe, infine, censurato esclusivamente la pretesa violazione del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, collegandolo alla «non menzione» nella legge regionale dei «provvedimenti propedeutici al referendum consultivo».
Ciò premesso, la parte sostiene che le questioni di legittimità costituzionale sarebbero inammissibili per tre ragioni.
In primo luogo, l’inammissibilità deriverebbe dall’assenza di rilevanza. Alla luce della sentenza non definitiva del Consiglio di Stato n. 3678 del 2016, nel giudizio a quo, all’esito del giudizio costituzionale, non rimarrebbe nulla da scrutinare. Essendo già stato annullato l’unico atto impugnato dinnanzi al giudice amministrativo, ossia la seconda delibera di indizione del referendum consultivo, nel giudizio residuerebbe in contestazione solo la legge e, dunque – secondo il Comune di Mondolfo – «[d]elle due, dunque, l’una: o i due giudizi (a quo e ad quem) hanno oggi lo stesso oggetto (la legge regionale), oppure il primo giudizio si è integralmente esaurito». In entrambi i casi difetterebbe il requisito della rilevanza.
In secondo luogo, sempre in seguito alla sentenza non definitiva del Consiglio di Stato n. 3678 del 2016, le questioni sollevate sarebbero inammissibili per sopravvenuto difetto di interesse nel giudizio a quo.
Infine, l’inammissibilità conseguirebbe al difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza: il fondamento delle censure sarebbe inammissibilmente illustrato per relationem rispetto alle argomentazioni che hanno consentito al rimettente di annullare la seconda delibera di indizione del referendum, e, per ciò stesso, sarebbe esposto secondo modalità contraddittorie e confuse; nella parte in cui lamenta la mancata menzione del referendum nella legge reg. Marche n. 15 del 2014 il rimettente sembrerebbe invocare il potere di disapplicare la legge regionale (o comunque di dichiararla nulla o inefficace o «inoperativa»), con motivazione che rende incerto sia il parametro sia l’oggetto della questione sottoposta all’esame della Corte costituzionale; infine, la censura relativa alla asserita violazione dell’art. 113 Cost. sarebbe inammissibile poiché contraddittoria rispetto al rigetto della questione di legittimità costituzionale con cui le parti avevano lamentato che la legge reg. Marche n. 15 del 2014 avrebbe interferito con l’esercizio della funzione giurisdizionale.
Il Comune di Mondolfo ritiene che le questioni di legittimità costituzionale sarebbero «non a caso» poste in modo oscuro e indiretto, poiché il rimettente darebbe per scontato che il suo accertamento determini necessariamente l’incostituzionalità della legge censurata, ciò di cui la Corte costituzionale dovrebbe limitarsi a prendere atto. Anche sotto tale aspetto, le censure sarebbero inammissibili.
Nel merito, il Comune di Mondolfo osserva, anzitutto, che le questioni sollevate sarebbero manifestamente infondate perché dalla giurisprudenza costituzionale non si potrebbe desumere l’obbligo di menzionare espressamente, nella legge regionale di modificazione delle circoscrizioni comunali, «i provvedimenti propedeutici al referendum consultivo o il risultato del referendum consultivo stesso». Evidenzia, peraltro, come la consultazione referendaria in parola sia obbligatoria, ma non vincolante.
In secondo luogo, la parte obietta alla «singolarissima tesi del rimettente» secondo la quale, se la legge regionale avesse menzionato il referendum, allora la pronuncia demolitoria delle operazioni referendarie avrebbe potuto essere accompagnata «a una pronuncia (non è dato intendere se) dichiarativa o costitutiva dell’illegittimità della legge stessa». Un tale potere del giudice di disapplicazione o di diretta invalidazione della legge – osserva – «non esiste».
Il Comune di Mondolfo rileva, quindi, che – in assenza di predeterminazione con legge dei criteri generali per selezionare le popolazioni interessate – il procedimento sarebbe unitario e la corretta individuazione di queste ultime costituirebbe un vizio in procedendo, che può essere vagliato solo dal giudice costituzionale.
Manifestamente infondata sarebbe anche la censura in ordine all’asserita violazione dell’art. 113 Cost., dal momento che la vicenda in esame dimostrerebbe come al Comune di Fano sia stata garantita una tutela cautelare piena ed effettiva.
Argomenta, infine, assai ampiamente la difesa del Comune di Mondolfo anche in merito all’asserita violazione dell’art. 133, secondo comma, Cost., al fine di dimostrare che, nel caso concreto, il referendum sarebbe stato indetto correttamente, coinvolgendo tutte le popolazioni direttamente interessate alla variazione circoscrizionale. Essa, però, svolge tali argomenti solo «tuzioristicamente», poiché sostiene che una tale censura in realtà non sarebbe stata sollevata dal rimettente e, anzi, non sarebbe dato intendere perché quell’articolo della Costituzione sia richiamato come parametro.
5.– Sempre in data 17 ottobre 2017 Gabriele Vitali, personalmente e in qualità di legale rappresentante del Comitato Pro Marotta Unita, parte del giudizio a quo, ha depositato «osservazioni per l’udienza pubblica». Non essendosi costituito nel termine previsto dall’art. 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, tale memoria è inammissibile.
6.– Con ricorso notificato il 21-27 ottobre 2016 e depositato il 3 novembre 2016 (reg. confl. enti n. 5 del 2016), la Regione Marche ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri per l’annullamento, previa dichiarazione di non spettanza allo Stato, della sentenza non definitiva del Consiglio di Stato, sezione quinta, 23 agosto 2016, n. 3678, con la quale è stata ritenuta illegittima, e quindi annullata, la delibera del Consiglio regionale della Regione Marche di indizione del referendum consultivo delle popolazioni interessate ai sensi dell’art. 133 Cost., costituente il presupposto della «legge-provvedimento» reg. Marche n. 15 del 2014.
Dopo aver ripercorso l’intera vicenda processuale, la ricorrente evidenzia come nella impugnata sentenza il Consiglio di Stato abbia ritenuto di essere competente a sindacare la deliberazione di indizione del referendum consultivo, «in applicazione diretta, omisso medio, del principio costituzionale di cui all’art. 133, secondo comma, Cost.».
Il giudice amministrativo – riportando un passaggio della sentenza n. 47 del 2003 della Corte costituzionale – avrebbe ritenuto di poter effettuare il sindacato sulle deliberazioni di indizione del referendum, accogliendo i motivi di censura dedotti dal Comune di Fano.
Nella medesima sentenza il Consiglio di Stato avrebbe, però, ammesso di non poter annullare anche la legge reg. Marche n. 15 del 2014, ed avrebbe perciò sollevato su di essa, con contestuale ordinanza n. 3679 del 2016, questioni di legittimità costituzionale.
Sottolinea, infine, la ricorrente come il Consiglio di Stato – sia nella sentenza impugnata nel conflitto, sia nell’ordinanza di rimessione n. 3679 del 2016 – abbia espressamente ammesso che la legge regionale di modifica della circoscrizione comunale è una legge-provvedimento che, in base alla speciale previsione dell’art. 133, secondo comma, Cost., si pone in un inscindibile legame di presupposizione con una legittima consultazione referendaria. La necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale della legge reg. Marche n. 15 del 2014 deriverebbe, dunque – secondo il Consiglio di Stato – dall’impossibilità, per il giudice amministrativo, di svolgere il proprio sindacato su un atto di normazione primaria. Contestualmente, però, il medesimo giudice ha deciso di annullare il presupposto inscindibile della legge-provvedimento n. 15 del 2014, costituito dalla deliberazione di indizione della consultazione popolare.
Tanto premesso, rileva anzitutto la Regione Marche che, poiché la legge di cui all’art. 133, secondo comma, Cost. è una legge-provvedimento, non sarebbe ammissibile che il suo sindacato sia distinto in due fasi, da parte di due giudici differenti. Poiché la norma costituzionale prevede un procedimento unico, una sola sarebbe la sede in cui chiedere il sindacato sull’atto legislativo e sull’iter in base al quale esso è stato adottato, quella del giudizio di legittimità costituzionale.
Il Consiglio di Stato avrebbe fondato la propria decisione sulla già ricordata sentenza n. 47 del 2003, nella quale la Corte costituzionale avrebbe affermato che sulle deliberazioni di indizione delle consultazioni popolari può intervenire il sindacato della giurisdizione amministrativa, mentre la Corte stessa può limitarsi a valutare la congruità e la legittimità costituzionale dei criteri fissati dalle leggi regionali sulla concreta applicazione del principio di cui all’art. 133, secondo comma, Cost.
Nel caso concreto, tuttavia, non vi è una legge regionale che fissa tali criteri e sarebbe pertanto evidente che l’avvio del procedimento di formazione della legge regionale, che modifica la circoscrizione comunale, sarebbe del tutto inscindibile rispetto alla legge che conclude il procedimento. La valutazione della legittimità dei criteri adottati dal Consiglio regionale per individuare le popolazioni interessate finirebbe così per coincidere con la valutazione della legittimità della legge regionale che modifica la circoscrizione. Poiché, nel caso di specie, la legge reg. Marche n. 15 del 2014 ha concluso un procedimento nell’ambito del quale era stata effettuata la consultazione sulla base dei criteri indicati dalle delibere del Consiglio regionale, risulterebbe evidente che la valutazione della congruità di quei criteri non potrebbe essere effettuata dal giudice amministrativo senza che sia stata preventivamente svolta la valutazione della legittimità costituzionale della legge conclusiva del procedimento da parte della Corte costituzionale.
Il Consiglio di Stato, invece, con la sentenza impugnata, avendo deciso sulla legittimità della delibera di indizione del referendum, che costituisce il presupposto essenziale della legge-provvedimento, avrebbe svolto un giudizio sulla stessa legge, senza averla prima sottoposta al controllo di legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale.
Per tali ragioni, il Consiglio di Stato avrebbe invaso la sfera di attribuzioni costituzionali riconosciuta alla Regione dallo stesso art. 133, secondo comma, Cost.
La ricorrente chiede, quindi, alla Corte costituzionale «di ristabilire la competenza della Regione a legiferare ex art. 133, secondo comma, Cost., sulla modifica delle circoscrizioni comunali», dichiarando che non spetta al giudice amministrativo, ma al giudice costituzionale, valutare la legittimità dei criteri adottati dalla Regione Marche nel determinare le «popolazioni interessate» da consultare.
Quanto all’ammissibilità del conflitto, la Regione ricorrente ricorda che – secondo la giurisprudenza costituzionale – esso può essere proposto anche nei confronti di atti giurisdizionali, a condizione che «sia radicalmente contestata la riconducibilità dell’atto che determina il conflitto alla funzione giurisdizionale, ovvero sia messa in questione l’esistenza stessa del potere giurisdizionale nei confronti del soggetto ricorrente» (è citata la sentenza n. 130 del 2009). Nella fattispecie, la Regione Marche propone ricorso per conflitto di attribuzione nei confronti di una sentenza che – a suo avviso – «costituisce esercizio del sindacato giurisdizionale nei confronti di un atto di legislazione primaria», sindacato che, invece, spetterebbe alla Corte costituzionale.
La decisione del Consiglio di Stato avrebbe, infatti, annullato i presupposti di una legge regionale in contrasto con l’art. 134, primo comma, Cost. e con l’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie di indipendenza della Corte costituzionale), nonché in violazione delle competenze costituzionalmente attribuite alla Regione Marche e, in particolare, dell’autonomia garantita alla Regione dagli artt. 117, quarto comma, 118, secondo comma, e 133, secondo comma, Cost.
La Regione ricorrente ricorda che la Corte costituzionale, proprio nell’interpretare l’art. 133, secondo comma, Cost., avrebbe affermato che «le variazioni del territorio dei comuni non solo sono espressamente demandate, dalla norma ora citata, a leggi regionali, ma rientrano altresì nella materia delle “circoscrizioni comunali”, attribuita dall’art. 117 della Costituzione alla competenza legislativa delle Regioni. Il disposto dell’art. 133, secondo comma, e nell’ambito di questo la prescrizione dell’obbligo di sentire “le popolazioni interessate”, costituisce naturalmente un vincolo nei confronti del legislatore regionale, al quale spetta però la competenza per definire, nel rispetto della Costituzione e dei principi fondamentali della legislazione statale, il procedimento che conduce alla variazione, e dunque anche i criteri di individuazione delle popolazioni interessate, la cui consultazione è in ogni caso obbligatoria» (sentenza n. 94 del 2000).
La Regione Marche ritiene, dunque, che il ricorso sia ammissibile, in quanto con esso è contestata l’esistenza stessa del potere giurisdizionale di sindacare il procedimento legislativo svolto ai sensi dell’art. 133, secondo comma, Cost. e concluso con la legge reg. Marche n. 15 del 2014.
Osserva ancora la ricorrente che la menzionata legge regionale è stata approvata a seguito di un procedimento legislativo attivato dal Consiglio regionale della Regione Marche mediante la convocazione di una consultazione popolare che rispettava pienamente i criteri definiti dalla giurisprudenza costituzionale in ordine all’individuazione delle popolazioni interessate alla modifica delle circoscrizioni comunali di Fano e Mondolfo; che la Corte costituzionale avrebbe escluso la necessità di individuare in astratto, in apposita legge regionale, i criteri per individuare le popolazioni interessate a pronunciarsi ai sensi dell’art. 133, secondo comma, Cost.; che, ancora, la stessa Corte avrebbe definito i criteri ai quali il Consiglio regionale deve attenersi, compiendo una valutazione caso per caso, quand’anche la Regione non abbia deliberato di precisare in apposita legge regionale le modalità con cui scegliere le popolazioni da consultare.
Concludendo, la difesa regionale ribadisce che, qualora non si tratti di sindacare l’atto del Consiglio regionale sulla base dei criteri fissati dal legislatore, l’unico organo in grado di valutare la legittimità costituzionale dell’intero procedimento legislativo sarebbe la Corte costituzionale, «unico ed effettivo garante della correttezza di tali valutazioni, interne al procedimento legislativo avviato con la proposta di legge regionale a iniziativa popolare n. 77 del 2011». Spetterebbe, dunque, alla Corte costituzionale, e non al Consiglio di Stato, valutare la congruità dei criteri scelti per individuare le popolazioni interessate nel caso concreto, in quanto la definizione di tali criteri e la convocazione della consultazione costituiscono il presupposto indefettibile dell’intero procedimento che si conclude con la legge-provvedimento ex art. 133, secondo comma, Cost.
6.1.– In prossimità dell’udienza pubblica, in data 17 ottobre 2017, la Regione Marche ha depositato una memoria in cui evidenzia, in primo luogo, come sia il conflitto tra enti promosso dalla Regione Marche, sia le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Consiglio di Stato con l’ordinanza iscritta al r.o. n. 229 del 2016, pongano all’attenzione della Corte costituzionale il medesimo quesito, ossia la definizione della natura e della sindacabilità degli atti del procedimento legislativo ex art. 133, secondo comma, Cost., disciplinato dalla Regione Marche con la ricordata legge reg. Marche n. 18 del 1980 e con la successiva legge reg. Marche 16 gennaio 1995, n. 10 (Norme sul riordinamento territoriale dei Comuni e delle Province nella Regione Marche).
Sottolinea quindi la Regione ricorrente che – secondo quanto dispone la legge reg. Marche da ultimo ricordata – la competenza a svolgere il procedimento di formazione delle singole leggi di riordino delle circoscrizioni regionali spetta al Consiglio regionale, il quale ha anche la responsabilità di individuare le popolazioni interessate da sentire con il referendum, componendo le esigenze degli elettori dei Comuni coinvolti con quelle sociali, politiche ed economiche della comunità regionale complessivamente considerata. La consultazione popolare, dunque, costituirebbe «un atto interno (e inscindibile) del procedimento di formazione della legge» attribuito al Consiglio regionale.
Il Consiglio di Stato, con la sentenza impugnata nel conflitto tra enti, avrebbe dunque svolto un sindacato sul presupposto della legge reg. Marche n. 15 del 2014 rispetto all’art. 133, secondo comma, Cost. Infatti, pur eccependo l’illegittimità costituzionale della legge reg. Marche n. 15 del 2014, il Consiglio di Stato avrebbe già statuito, con una sentenza solo formalmente indicata come non definitiva, l’illegittimità dell’indizione del referendum consultivo. La definitività della decisione del Consiglio di Stato sarebbe confermata dalla circostanza che, nel dispositivo, è espressamente inserita, senza alcuna condizione sospensiva, la statuizione di annullamento della delibera di indizione del referendum.
La difesa della Regione Marche obietta, quindi, all’eccezione di inammissibilità del conflitto sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, osservando come il ricorso per conflitto non sarebbe utilizzato come un improprio mezzo di gravame avverso la sentenza del Consiglio di Stato, in quanto esso ha piuttosto la finalità di mettere in questione l’esistenza stessa del potere esercitato dall’autorità giudiziaria rispetto al legislatore regionale. Il Consiglio di Stato, annullando la delibera di indizione del referendum consultivo e, contestualmente, sollevando la questione di legittimità costituzionale della legge reg. Marche n. 15 del 2014, avrebbe chiesto alla Corte costituzionale una «mera “ratifica” della decisione già adottata», così violando le competenze legislative attribuite alla Regione dagli artt. 117, quarto comma, 118, secondo comma, e 133, secondo comma, Cost.
Quanto al merito del conflitto, la Regione Marche ribadisce che il procedimento legislativo ex art. 133, secondo comma, Cost. avrebbe una struttura unitaria e l’unico sindacato ammissibile sarebbe quello riservato alla Corte costituzionale.
La legge di variazione della circoscrizione comunale sarebbe, infatti, una legge atipica, la cui particolarità non consiste nella necessità di approvare o meno gli esiti della consultazione popolare, quanto nell’obbligo di svolgere, nell’iter di formazione della legge, il referendum. Il sindacato sulla legge e sull’iter della sua formazione spetterebbe esclusivamente alla Corte costituzionale (è richiamata, sul punto, la sentenza n. 226 del 1999).
La difesa della Regione Marche ribadisce, infine, le ragioni per le quali non sarebbe conferente al caso di specie il richiamo alla sentenza n. 47 del 2003 della Corte costituzionale operato dall’Avvocatura generale dello Stato: a suo avviso, qualora manchi l’intermediazione della legge, spetterebbe esclusivamente alla Corte costituzionale valutare la razionalità dei criteri seguiti dal legislatore regionale, verificando la ragionevolezza della diretta applicazione della norma costituzionale da parte del legislatore.
7.– Nel giudizio si è costituito, con atto depositato il 2 dicembre 2016, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso sia dichiarato, preliminarmente, inammissibile o, in subordine, non fondato.
Dopo aver ricostruito l’intera vicenda processuale nell’ambito della quale è stata pronunciata la sentenza non definitiva del Consiglio di Stato, sezione quinta, n. 3678 del 2016, impugnata dalla Regione Marche nel conflitto tra enti, l’Avvocatura generale dello Stato argomenta, anzitutto, l’inammissibilità del ricorso, in quanto esso mirerebbe ad ottenere una pronuncia della Corte costituzionale in relazione a profili che esulerebbero dall’ambito oggettivo del conflitto tra poteri, quale giudizio volto a tutelare una o più attribuzioni costituzionalmente garantite, asseritamente «lese in ragione dell’esercizio (o del mancato esercizio) del potere da parte di un altro potere o di un altro soggetto».
Più specificamente – prosegue la difesa statale – il conflitto tra poteri potrebbe avere ad oggetto atti giurisdizionali solo quando sia contestata radicalmente la riconducibilità dell’atto che determina il conflitto alla funzione giurisdizionale ovvero sia messa in questione l’esistenza stessa del potere giurisdizionale nei confronti del soggetto ricorrente, mentre il medesimo conflitto sarebbe inammissibile qualora si risolva in uno strumento improprio di censura del modo di esercizio della funzione giurisdizionale.
Tanto premesso, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che la Regione Marche, benché asserisca di voler tutelare la propria funzione legislativa tramite la proposizione del conflitto di attribuzione, prospetterebbe – al contrario – proprio un conflitto relativo alle modalità di esercizio della funzione giurisdizionale da parte del giudice amministrativo, il quale avrebbe annullato un atto endo-procedimentale rispetto all’iter di formazione della legge, anziché limitarsi a rimettere la questione di legittimità costituzionale della legge regionale alla Corte costituzionale. La ricorrente avrebbe, però, dovuto utilizzare i rimedi processuali previsti dall’ordinamento e, in particolare, avrebbe dovuto impugnare la sentenza del Consiglio di Stato dinnanzi alla Corte di cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione.
Ad avviso della difesa statale, il ricorso sarebbe, comunque, infondato, poiché il Consiglio di Stato avrebbe «correttamente motivato ed esercitato il proprio potere giurisdizionale».
Dopo aver valutato la legittimità degli atti innanzi ad esso impugnati, ed una volta intervenuta l’approvazione della legge reg. Marche n. 15 del 2014, il Consiglio di Stato avrebbe correttamente evidenziato come, pur trattandosi di una legge in rapporto di inscindibile presupposizione con una legittima consultazione referendaria, il valore e la forza dell’atto legislativo non ne consentissero una pronuncia di annullamento.
Per tale ragione, il Consiglio di Stato avrebbe correttamente sottolineato come la non menzione nel corpo della legge regionale del previo procedimento referendario e del suo esito inducesse ad escludere la possibilità di un’automatica caducazione della legge all’esito del giudizio di annullamento del procedimento referendario e, nel contempo, avrebbe evidenziato la netta differenza tra la valutazione della legittimità degli atti di indizione del procedimento referendario (aventi natura amministrativa) dalla valutazione di conformità a Costituzione della legge regionale conseguente alla procedura referendaria.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza 23 agosto 2016, il Consiglio di Stato, sezione quinta, solleva questioni di legittimità costituzionale della legge della Regione Marche 23 giugno 2014, n. 15 (Distacco della frazione di Marotta dal Comune di Fano e incorporazione nel Comune di Mondolfo. Mutamento delle rispettive circoscrizioni comunali), per violazione degli artt. 3, 113, primo e secondo comma, e 133, secondo comma, della Costituzione.
Ad avviso del rimettente, tale legge, che dispone il distacco della frazione di Marotta dal Comune di Fano e la sua incorporazione nel Comune di Mondolfo, risulterebbe lesiva delle disposizioni costituzionali citate poiché, nelle proprie premesse, non richiama né lo svolgimento del referendum consultivo previsto dall’art. 133, secondo comma, Cost., né l’esito di tale consultazione.
Questa mancata menzione impedirebbe al giudice amministrativo di assicurare la necessaria tutela giurisdizionale, nel senso richiesto dal ricorrente Comune di Fano.
A garantire una tutela pienamente satisfattiva delle pretese del ricorrente non risulterebbe sufficiente l’annullamento degli atti del procedimento referendario, già disposto dallo stesso Consiglio di Stato con separato provvedimento, per non avere il Consiglio regionale correttamente individuato le popolazioni da consultare.
Infatti, la violazione dell’art. 113, primo e secondo comma, Cost. conseguirebbe proprio all’inevitabile permanenza in vigore della legge di variazione circoscrizionale, pur dopo l’annullamento ricordato.
Nella prospettiva assunta dal Consiglio di Stato rimettente, una legge regionale di variazione circoscrizionale, una volta privata dei suoi indispensabili presupposti procedimentali (quale, nella specie, la delibera di indizione del referendum), dovrebbe risultare priva di contenuto e, come tale, non dispiegare effetti giuridici (sono richiamate, sul punto, le sentenze di questa Corte n. 225 e n. 226 del 1999). Invece, osserva il rimettente, nel caso in esame proprio la mancanza di un formale collegamento, rinvenibile nelle premesse dell’atto legislativo, tra procedimento referendario e contenuto della legge di variazione circoscrizionale, costringerebbe il giudice amministrativo ad escludere «l’automatica caducazione» della legge regionale, pur all’esito del giudizio di annullamento degli atti del procedimento referendario, già disposto con il ricordato separato provvedimento.
In una con l’impossibilità di assicurare tutela giurisdizionale effettiva al ricorrente, la mancata menzione del previo procedimento referendario renderebbe la legge regionale irragionevolmente autonoma, in violazione dell’art. 3 Cost., rispetto a tale procedimento e, quindi, anche lesiva della sequenza inderogabilmente stabilita dall’art. 133, secondo comma, Cost.
Conclude il rimettente che, non essendo consentito al giudice amministrativo – pur a seguito dell’annullamento degli atti del procedimento referendario – caducare la legge regionale che non menzioni tali atti, trattandosi di fonte primaria, solo questa Corte potrebbe accertarne l’illegittimità costituzionale, per violazione degli evocati parametri costituzionali, eliminando così un «irragionevole ostacolo […] a una pronuncia realmente e pienamente satisfattiva del Comune ricorrente».
2.– La Regione Marche ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri chiedendo l’annullamento, previa dichiarazione di non spettanza allo Stato, della sentenza non definitiva del Consiglio di Stato, sezione quinta, 23 agosto 2016, n. 3678, con la quale è stata ritenuta illegittima, e quindi annullata, la delibera del Consiglio regionale della Regione Marche di indizione del referendum consultivo delle popolazioni interessate, ai sensi dell’art. 133 Cost., costituente il presupposto della legge reg. Marche n. 15 del 2014.
Premette la ricorrente che, nell’ordinamento della Regione Marche, la legge regionale non definisce i criteri per l’individuazione delle popolazioni interessate alle variazioni circoscrizionali e assume, fondandosi su una interpretazione della sentenza n. 47 del 2003 di questa Corte, che il sindacato del giudice amministrativo sugli atti del procedimento referendario sarebbe consentito solo in presenza di tali criteri.
Poiché, nel caso in esame, non si tratterebbe di sindacare l’atto consiliare di indizione del referendum consultivo sulla base di criteri predeterminati in legge, solo questa Corte sarebbe competente a valutare la legittimità costituzionale dell’intero procedimento legislativo che conduce alla variazione circoscrizionale.
Sostiene altresì la Regione ricorrente che il Consiglio di Stato, annullando con la sentenza impugnata la delibera consiliare di indizione del referendum – presupposto indispensabile della legge di variazione – anziché sollevare su di essa questioni di legittimità costituzionale, avrebbe violato l’art. 134 Cost., esercitando una funzione spettante solo a questa Corte. In tal modo, avrebbe inoltre leso le competenze costituzionalmente attribuite alla Regione dagli artt. 117, quarto comma, 118, secondo comma, e 133, secondo comma, Cost., i quali riservano alla potestà legislativa e amministrativa regionale l’intero procedimento di variazione delle circoscrizioni comunali.
3.– In considerazione dell’omogeneità delle questioni proposte i giudizi vanno riuniti per essere decisi congiuntamente.
Entrambi i giudizi – al di là delle specifiche prospettazioni delle parti, legate alla peculiarità dei procedimenti nei quali sorgono, da un lato, le questioni di legittimità costituzionale e, dall’altro, il conflitto di attribuzione tra enti – pongono infatti i medesimi interrogativi: quale rapporto intercorra tra il referendum consultivo e la legge regionale di variazione circoscrizionale, nell’ambito del procedimento di cui all’art. 133, secondo comma, Cost.; e quali ambiti riservati di sindacato spettino, rispettivamente, al giudice amministrativo e a questa Corte, in riferimento agli atti del complessivo procedimento che si conclude, ai sensi della richiamata disposizione costituzionale, con una legge regionale di variazione delle circoscrizioni comunali.
4.– L’art. 133, secondo comma, Cost. stabilisce che la Regione, sentite le popolazioni interessate, può con sue leggi istituire nel proprio territorio nuovi Comuni e modificare le loro circoscrizioni e denominazioni.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, l’appena citata disposizione costituzionale comporta, per le Regioni a statuto ordinario, l’obbligo di sentire le popolazioni interessate mediante referendum e non attraverso altre modalità di coinvolgimento (sentenze n. 214 del 2010, n. 237 del 2004, n. 94 del 2000, n. 279 del 1994, n. 107 del 1983 e n. 204 del 1981).
Tale aggravamento procedurale è regolato, quanto al suo ambito applicativo e alle sue modalità attuative, con legge regionale (sentenza n. 36 del 2011).
Spetta dunque al legislatore regionale, innanzitutto, la disciplina del procedimento che conduce alla variazione circoscrizionale, e, in particolare, la scelta in ordine al momento in cui debba essere svolto il referendum, se prima o dopo l’atto di iniziativa legislativa relativa alla variazione stessa. L’art. 133, secondo comma, Cost., da questo punto di vista, prevede come necessaria la consultazione delle popolazioni interessate, ma non contiene indicazioni sulla fase in cui essa debba avvenire. In base alla libera scelta del legislatore regionale, pertanto, il referendum consultivo può essere parte del procedimento legislativo che alla variazione conduce, oppure restarne fase esterna e antecedente.
Lo stesso legislatore regionale può, inoltre, individuare i criteri per la selezione delle popolazioni interessate al procedimento referendario, anche sulla base delle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 47 del 2003, n. 94 del 2000, n. 433 del 1995, e n. 453 del 1989).
Compete ovviamente alla Regione, infine, l’approvazione della legge con cui è disposta la singola variazione circoscrizionale. E proprio con riferimento alle leggi regionali che, di volta in volta, determinano la variazione in esame, questa Corte ha precisato che si tratta di leggi-provvedimento caratterizzate da un aggravamento procedurale imposto dal ricordato art. 133, secondo comma, Cost. (sentenze n. 36 del 2011 e n. 47 del 2003).
In tale contesto si colloca la sentenza n. 47 del 2003, in cui questa Corte ha affermato che le condizioni sulla base delle quali sono individuate le popolazioni interessate alla variazione territoriale devono essere verificate in concreto dall’organo regionale che delibera di far luogo al referendum, con decisione motivata suscettibile di essere controllata in sede giurisdizionale.
Si è così ammesso che il giudice amministrativo possa essere investito del giudizio su un atto che integra una fase interna al procedimento che conduce alla legge di variazione circoscrizionale (si intende, nei casi in cui il legislatore regionale abbia così disciplinato il referendum consultivo). E si è in tal modo derogato, per questo specifico procedimento (e sempre per i casi in cui l’ordinamento regionale configuri il referendum consultivo come fase interna al procedimento legislativo), alla stessa giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 226 del 1999), nonché a quella amministrativa (Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 27 settembre 1993, n. 1301), che – in generale – escludono la sindacabilità nel processo amministrativo degli atti interni al procedimento legislativo.
Da una parte, questa soluzione rende più immediata la tutela giurisdizionale dei soggetti che ritengono di essere stati illegittimamente esclusi dalle consultazioni referendarie, e contribuisce ad evitare che le controversie relative al procedimento di variazione circoscrizionale siano portate all’attenzione del giudice amministrativo, ed eventualmente di questa Corte, solo una volta che il procedimento in questione sia concluso.
Dall’altra parte, può in questa prospettiva accadere che, pendente il giudizio amministrativo, il procedimento legislativo si concluda e la pronuncia giurisdizionale debba perciò confrontarsi con una legge di variazione circoscrizionale ormai approvata.
5.– Così è avvenuto nel caso di specie.
In conformità all’orientamento illustrato, nella vicenda da cui nascono le questioni ora in esame, le delibere consiliari di indizione del referendum consultivo adottate dal Consiglio regionale sono state impugnate innanzi al giudice amministrativo, pur facendo parte, nell’ordinamento giuridico della Regione Marche, del procedimento legislativo di variazione circoscrizionale (in particolare, l’art. 20 della legge della Regione Marche 5 aprile 1980, n. 18, recante «Norme sui referendum previsti dallo Statuto», il cui terzo comma stabilisce, fra l’altro, che sono sottoposte a referendum consultivo delle popolazioni interessate le proposte di legge concernenti i mutamenti delle circoscrizioni comunali; nello stesso senso gli articoli da 8 a 10 della legge della Regione Marche 16 gennaio 1995, n. 10, recante «Norme sul riordinamento territoriale dei Comuni e delle Province nella Regione Marche»). E, così, il Tribunale amministrativo regionale per le Marche ha sindacato la legittimità sia della prima, sia della seconda delibera del Consiglio regionale, e analogo giudizio ha svolto – in grado di appello – il Consiglio di Stato.
Pendente il giudizio di fronte al giudice amministrativo, il Consiglio regionale della Regione Marche ha approvato la legge-provvedimento che dispone la variazione circoscrizionale, ossia la citata legge reg. Marche n. 15 del 2014.
Investito in grado d’appello, il Consiglio di Stato – pur a fronte della conclusione del procedimento legislativo – ha sottoposto a sindacato gli atti del procedimento referendario, giungendo ad annullarli con la sentenza non definitiva n. 3678 del 2016, ed ha contestualmente rimesso a questa Corte, con separata ordinanza, il giudizio di legittimità costituzionale della legge regionale prima ricordata, per asserita lesione degli artt. 3, 113, primo e secondo comma, e 133, secondo comma, Cost.
Lamentando che la legge reg. Marche n. 15 del 2014 non menzioni lo svolgimento e l’esito del referendum consultivo, il giudice amministrativo mostra di ritenere che, se tale menzione vi fosse, la propria pronuncia di annullamento degli atti del procedimento referendario, anche se intervenuta successivamente all’approvazione della legge di variazione circoscrizionale, produrrebbe gli stessi effetti predicati dalla sentenza n. 225 del 1999 di questa Corte, riferita ad una legge regionale di approvazione di un piano territoriale di coordinamento di un parco.
In quella vicenda, all’esito del procedimento amministrativo, al Consiglio regionale spettava la mera approvazione con legge dell’atto conclusivo del procedimento stesso, senza possibilità di apportarvi modifiche. In proposito, questa Corte affermò che i vizi del piano territoriale non erano sottratti al sindacato del giudice amministrativo nemmeno quando fosse intervenuta la legge di (mera) approvazione di quello. E osservò che, in tali casi, la decisione di annullamento totale o parziale del piano territoriale da parte del giudice amministrativo aveva l’effetto di lasciare la legge di approvazione «in tutto o in parte priva di oggetto».
Il Consiglio di Stato, in definitiva, muove dalla premessa per cui il rapporto tra delibera di indizione del referendum e legge-provvedimento regionale conclusiva del procedimento ex art. 133, secondo comma, Cost., si configuri alla stessa stregua del rapporto tra provvedimento adottato all’esito di un procedimento amministrativo e sua mera approvazione con legge (come nel caso deciso dalla sentenza n. 225 del 1999), ritenendo che la legge di variazione circoscrizionale non sia che una ratifica dell’esito del referendum.
6.– La complessiva ricostruzione operata dal Consiglio di Stato, presupposto sia dell’ordinanza di rimessione sia della sentenza che annulla gli atti del procedimento referendario, non può essere condivisa.
In primo luogo, infatti, la legge di variazione circoscrizionale ex art. 133, secondo comma, Cost. non è in alcun modo paragonabile a una legge di mera approvazione di un atto amministrativo. Non si è, infatti, in presenza di una legge-provvedimento di ratifica dell’esito del referendum, ma, come si evince dalla natura consultiva del referendum medesimo (sentenze n. 171 del 2014, n. 214 del 2010, n. 204 del 1981), si è al cospetto di una scelta politica del Consiglio regionale, il quale deve tenere conto della volontà espressa dalle popolazioni interessate, «componendo nella propria conclusiva valutazione discrezionale gli interessi, sottesi alle valutazioni, eventualmente contrastanti, emersi nella consultazione» (sentenza n. 94 del 2000).
La consultazione referendaria, ai sensi dell’art. 133, secondo comma, Cost., o meglio il suo esito, non costituisce, dunque, il contenuto della legge di variazione circoscrizionale (a differenza dell’altra ipotesi, in cui l’atto amministrativo esaurisce l’oggetto della legge di mera approvazione); lo svolgimento del referendum è, invece, un aggravamento del procedimento di formazione della legge di variazione.
In secondo luogo, questa Corte ha circoscritto la portata della sentenza n. 225 del 1999, cui il Consiglio di Stato annette particolare rilievo, definendola specifica soluzione della assai peculiare questione allora sottoposta a giudizio (sentenza n. 241 del 2008), e ha chiarito che, in generale, il controllo sulla legge, quand’anche essa mostri i caratteri della legge-provvedimento, spetta esclusivamente al giudice costituzionale.
Applicando questi principi al caso di specie, deve ribadirsi che il sindacato del giudice amministrativo sugli atti del procedimento referendario è ammissibile e deve risultare pieno e tempestivo, in modo da ridurre la possibilità, come già accennato, che le controversie relative alla legittimità della procedura referendaria vengano in rilievo quando ormai la variazione circoscrizionale è già stata disposta con legge.
Come si accennava, può tuttavia accadere (e di fatto è accaduto nel caso di specie) che, pur pendente il giudizio amministrativo, intervenga l’entrata in vigore della legge di variazione circoscrizionale. In via di fatto, del resto, i tempi del procedimento legislativo possono non coincidere con la durata del processo amministrativo, né è ipotizzabile che la decisione politica del Consiglio regionale circa l’approvazione della legge di variazione sia in principio subordinata alla conclusione della vicenda giudiziaria (che l’approvazione della legge di variazione circoscrizionale costituisca la doverosa conclusione del procedimento ex art. 133, secondo comma, Cost., è riconosciuto dallo stesso giudice a quo, il quale, per questa ragione, rigetta come manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata dal Comune di Fano sul presupposto che la legge reg. Marche n. 15 del 2014 fosse stata approvata con l’intento di interferire nella funzione giurisdizionale).
Entrata in vigore la legge di variazione circoscrizionale, il giudice amministrativo – qualora riscontri un vizio nella delibera di indizione del referendum – anziché procedere direttamente alla verifica della legittimità della delibera e al suo eventuale annullamento (come ha invece fatto, nel caso di specie, il Consiglio di Stato), deve sospendere il processo e sollevare, all’esito del giudizio di non manifesta infondatezza, la questione di legittimità costituzionale sulla legge-provvedimento regionale, per asserito vizio procedimentale ex art. 133, secondo comma, Cost.
In altre parole, il mancato o non corretto svolgimento del referendum, una volta entrata in vigore la legge, si traduce in un vizio procedimentale di quest’ultima. La delibera di indizione del referendum è perciò sindacabile in quanto tale dal giudice amministrativo sino a quando la legge di variazione circoscrizionale non sia in vigore. Dopo tale momento, i vizi della delibera di indizione del referendum consultivo si traducono in un vizio formale della legge; e il sindacato giurisdizionale non risulta escluso, ma muta di segno, giacché al giudice amministrativo spetta sollevare questione di legittimità costituzionale, chiedendo a questa Corte di verificare se i vizi della delibera referendaria si configurino, a quel punto, quali vizi del procedimento di formazione della legge, in lesione dell’art. 133, secondo comma, Cost.
Solo all’esito del giudizio di legittimità costituzionale, il giudice amministrativo potrà concludere il proprio esame, accogliendo o rigettando il ricorso.
La soluzione che qui si indica, del resto, è analoga a quella affermata dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 241 del 2008 e n. 62 del 1993) in relazione alle stesse leggi-provvedimento che recepiscano il contenuto di atti amministrativi oggetto di controversia pendente: nel caso di approvazione con legge dell’atto amministrativo lesivo delle posizioni soggettive dei ricorrenti, i diritti di difesa di questi ultimi non sono pretermessi, ma vengono a connotarsi secondo il regime tipico dell’atto legislativo, trasferendosi dall’ambito della giustizia amministrativa a quello proprio della giustizia costituzionale.
Nel particolare caso qui in discussione, relativo alla procedura delineata dall’art. 133, secondo comma, Cost., la soluzione indicata è frutto del necessario bilanciamento tra due principi: da una parte, l’effettività e immediatezza della tutela giurisdizionale, da assicurare, ai sensi dell’art. 113 Cost., a coloro che ricorrono avverso una delibera di indizione del referendum ritenuta illegittima; dall’altra, la discrezionalità politica del legislatore regionale in tema di variazioni circoscrizionali, ai sensi degli artt. 117 e 133 Cost.
Al tempo stesso, la soluzione in parola, senza ledere la giurisdizione del giudice amministrativo, preserva la posizione di questa Corte, alla quale l’art. 134 Cost. affida in via esclusiva il compito di garantire la legittimità costituzionale della legislazione anche regionale.
7.– La soluzione appena delineata – che ammette il pieno sindacato del giudice amministrativo prima dell’approvazione della legge di variazione circoscrizionale – vale sia nel caso in cui la legge regionale definisca in via generale e preventiva i criteri per l’individuazione delle popolazioni interessate alla variazione circoscrizionale, sia nel caso in cui una tale legge manchi o si limiti a riprodurre il contenuto dell’art. 133, secondo comma, Cost.
È quindi possibile ricorrere al giudice amministrativo avverso la delibera di indizione del referendum consultivo, sia qualora si lamenti un contrasto di quest’ultima con la legge regionale che contenga i menzionati criteri, sia quando – in assenza di tale legge – si ritenga che la delibera violi direttamente la norma costituzionale, come interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte.
In entrambi i casi, il giudice amministrativo potrà sindacare il contenuto dell’atto impugnato.
Nella prima ipotesi, la delibera consiliare d’indizione del referendum potrà essere confrontata al contenuto della legge regionale. Qualora risulti che essa sia conforme ai criteri contenuti nella legge regionale, e siano direttamente questi ultimi a risultare in contrasto con l’art. 133, secondo comma, Cost., come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale, il giudice dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale sulla stessa legge regionale, così che questa Corte possa verificare la «congruità costituzionale dei criteri legislativamente stabiliti» per l’individuazione delle popolazioni interessate (come si legge nella citata sentenza n. 47 del 2003).
Nella seconda ipotesi, il giudice amministrativo verificherà direttamente la legittimità della delibera di indizione del referendum alla stregua dell’art. 133, secondo comma, Cost., sempre come interpretato da questa Corte.
Non può quindi essere accolta la prospettazione fatta propria dalla Regione Marche e dal Comune di Mondolfo, secondo i quali il sindacato del giudice amministrativo sarebbe consentito solo nell’ipotesi in cui esista una legge regionale che detti in via preliminare i criteri per l’individuazione delle popolazioni interessate alla variazione circoscrizionale, non essendo invece tale sindacato possibile qualora tale legge non vi sia oppure non contenga alcun criterio sostanziale per la individuazione delle popolazioni interessate, come del resto accade nel caso di specie.
Non erra, infatti, la difesa del Comune di Fano nell’osservare che tale prospettazione determinerebbe una disparità di trattamento tra cittadini, consentendo l’accesso immediato alla tutela giurisdizionale solo se la legge regionale abbia avuto cura di individuare i criteri generali per l’identificazione delle popolazioni da consultare, mentre in assenza di tali criteri tale accesso risulterebbe precluso.
Inoltre, la soluzione qui criticata potrebbe produrre il paradossale effetto di indurre le Regioni a non approvare alcuna legge di carattere generale proprio al fine di evitare che, contestualmente allo svolgimento del procedimento legislativo di variazione circoscrizionale, si instauri un contenzioso amministrativo.
Nei casi in cui manchi una legge regionale generale, resta comunque fermo che, se nel corso del giudizio amministrativo sugli atti del procedimento referendario, entra in vigore la legge di variazione circoscrizionale, gli asseriti vizi della delibera di indizione del referendum diventano vizi del procedimento legislativo, e il giudice dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale sulla legge di variazione.
8.– Tutto ciò premesso, le questioni di legittimità costituzionale proposte dal Consiglio di Stato, sezione quinta, con l’ordinanza 23 agosto 2016, iscritta al r.o. n. 229 del 2016, sono inammissibili, perché sollevate sulla base di premesse interpretative errate.
In primo luogo, infatti, il rimettente, lamentando la mancata menzione del procedimento referendario nella legge di variazione circoscrizionale, ha erroneamente ricostruito qualificazione e funzione del referendum consultivo nell’ambito del procedimento delineato dall’art. 133, secondo comma, Cost. (punto 6). Tale referendum non costituisce oggetto e contenuto della legge di variazione circoscrizionale, ma suo presupposto procedimentale.
In secondo luogo, è erronea, come si è dimostrato, la ricostruzione del complessivo quadro costituzionale e legislativo dei rapporti tra sindacato del giudice amministrativo sulla delibera di indizione del referendum consultivo e controllo di legittimità costituzionale spettante a questa Corte, sempre in relazione alla procedura di variazione delle circoscrizioni comunali delineata dall’art. 133, secondo comma, Cost.
Infine, non ci si può esimere dal rilevare che, proprio in ordine al rapporto tra sindacato del giudice amministrativo e controllo di legittimità costituzionale, accogliere la prospettiva del rimettente comporterebbe che questa Corte sarebbe chiamata a prendere atto della valutazione operata nel processo amministrativo, solo dovendo, in ossequio a tale valutazione, esercitare la propria competenza ad “accertare” l’illegittimità costituzionale di una fonte primaria, la cui dichiarazione sfuggirebbe al giudice amministrativo solo in virtù del regime giuridico (la forza e il valore di legge) tipico dell’atto in questione.
Tale assorbente e generale motivo d’inammissibilità esonera dall’esame puntuale delle altre eccezioni sollevate dalle parti costituite.
9.– Con riferimento al ricorso per conflitto di attribuzione tra enti, sollevato dalla Regione Marche a seguito della sentenza del Consiglio di Stato 23 agosto 2016, n. 3678, con la quale sono stati annullati gli atti del procedimento referendario relativi alla variazione circoscrizionale in esame, deve essere preliminarmente esaminata l’eccezione d’inammissibilità prospettata dall’Avvocatura generale dello Stato.
Assume la difesa statale che il ricorso per conflitto innanzi a questa Corte si risolverebbe in una censura delle modalità di esercizio della funzione giudiziaria e, dunque, in un improprio mezzo di impugnazione della sentenza. La ricorrente avrebbe, invece, dovuto utilizzare i rimedi processuali previsti dall’ordinamento e, in particolare, avrebbe dovuto impugnare la sentenza del Consiglio di Stato dinnanzi alla Corte di cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione.
La stessa Regione Marche, peraltro, espone di aver impugnato la sentenza del Consiglio di Stato n. 3678 del 2016 anche innanzi alle sezioni unite della Corte di cassazione.
L’eccezione non è fondata.
In primo luogo, questa Corte ha già affermato che il conflitto di attribuzione tra enti avente ad oggetto una decisione giudiziaria è ammissibile se è messa in questione l’esistenza stessa del potere giurisdizionale nei confronti del ricorrente (sentenze n. 252 del 2013 e n. 130 del 2009). È ciò che avviene nel caso ora in discussione, in cui la Regione Marche contesta al Consiglio di Stato lo stesso potere di annullare l’atto di indizione del referendum.
In secondo luogo, il ricorso per conflitto pone effettivamente una questione di riparto costituzionale delle competenze, in quanto la Regione Marche asserisce che l’annullamento di un presupposto della legge di variazione circoscrizionale da parte del giudice amministrativo – e non da parte di questa Corte, all’esito del giudizio di legittimità costituzionale – lede le sue competenze legislative e amministrative (artt. 117, quarto comma, 118, secondo comma, 133, secondo comma, e 134 Cost.).
Infine, anche questioni di giurisdizione, già prospettate come tali di fronte alla Corte di cassazione, possono essere oggetto di un conflitto di attribuzione: ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione (art. 362 del codice di procedura civile) e ricorso per conflitto sono due rimedi distinti, operanti su piani diversi, e non si può escludere che siano attivati entrambi, di fronte ad una pronuncia giudiziaria alla quale siano contemporaneamente imputabili l’erronea applicazione delle norme sulla giurisdizione e l’invasività in sfere d’attribuzione costituzionale (sentenze n. 52 del 2016, n. 259 del 2009 e n. 150 del 1981).
9.1.– Nel merito, il ricorso per conflitto di attribuzione è fondato e va perciò annullata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione quinta, 23 agosto 2016, n. 3678.
Alla luce della ricostruzione del rapporto intercorrente tra sindacato del giudice amministrativo e competenza di questa Corte, in tema di procedimento di formazione della legge di variazione circoscrizionale ex art. 133, secondo comma, Cost., non spetta allo Stato, e per esso al Consiglio di Stato, annullare gli atti relativi al procedimento di consultazione referendaria, in riferimento al distacco della frazione di Marotta dal Comune di Fano e alla sua incorporazione nel Comune di Mondolfo, una volta entrata in vigore la relativa legge regionale di variazione circoscrizionale.
Come affermato supra (punti 6 e 7), a seguito di tale approvazione, non spetta al giudice amministrativo annullare un atto che si colloca nell’ambito del procedimento legislativo e che costituisce una fase indispensabile di questo. Compete invece a tale giudice, se ritiene che ne sussistano i presupposti, sollevare di fronte a questa Corte questione di legittimità costituzionale della ormai intervenuta legge di variazione circoscrizionale per vizio procedimentale, cioè per violazione dell’art. 133, secondo comma, Cost.
Invece, nel presente caso, con la sentenza che annulla gli atti del procedimento referendario, procedimento che è parte dell’iter di formazione di una legge regionale ormai approvata ed entrata in vigore, il Consiglio di Stato non solo ha esercitato un sindacato in realtà spettante a questa Corte (in lesione dell’art. 134 Cost.), ma ha altresì pregiudicato la sfera di attribuzioni costituzionali della Regione ricorrente (sentenza n. 39 del 2014, punto 6.3.4.3.1. del considerato in diritto). Infatti, l’esercizio di un controllo giurisdizionale sul procedimento di formazione della legge regionale finisce indirettamente per tradursi in un limite alla potestà legislativa regionale in materia di variazioni circoscrizionali (artt. 117, quarto comma, 118, secondo comma, 133, secondo comma, Cost.).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale della legge della Regione Marche 23 giugno 2014, n. 15 (Distacco della frazione di Marotta dal Comune di Fano e incorporazione nel Comune di Mondolfo. Mutamento delle rispettive circoscrizioni comunali), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 113, primo e secondo comma, e 133, secondo comma, della Costituzione, dal Consiglio di Stato, sezione quinta, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara che non spetta allo Stato, e, per esso, al Consiglio di Stato, annullare, dopo l’entrata in vigore della legge reg. Marche n. 15 del 2014, gli atti del procedimento referendario che ne costituiscono il presupposto, e annulla, per l’effetto, la sentenza non definitiva del Consiglio di Stato, sezione quinta, 23 agosto 2016, n. 3678.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 novembre 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere