Corte Costituzionale Sentenza 18 gennaio 2018, n. 4
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 89-bis del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), inserito dall’art. 2, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 13 ottobre 2014, n. 153 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), sollevate, in riferimento agli artt. 76, 77, primo comma, e 3 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 89-bis del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), inserito dall’art. 2, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 13 ottobre 2014, n. 153 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, nel procedimento vertente tra Mare Azzurro Service srl e il Comune di Messina e altro, con ordinanza del 28 settembre 2016, iscritta al n. 263 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti l’atto di costituzione di Mare Azzurro Service srl, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 21 novembre 2017 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi l’avvocato Antonio Saitta per Mare Azzurro Service srl e l’avvocato dello Stato Danilo Del Gaizo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 28 settembre 2016 (r.o. n. 263 del 2016), il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, ha sollevato, in riferimento agli artt. 76, 77, primo comma, e 3 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 89-bis del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), inserito dall’art. 2, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 13 ottobre 2014, n. 153 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui stabilisce che l’informazione antimafia è adottata anche nei casi in cui è richiesta una mera comunicazione antimafia e produce gli effetti di questa.
Il giudice a quo premette di essere investito del ricorso contro: «a) [l’]ordinanza del Comune di Messina n. 43 in data 1 febbraio 2016, con cui è stata disposta la decadenza della segnalazione certificata di inizio attività n. 112582 del 6 maggio 2014 ed è stato fatto divieto alla società di proseguire l’attività di vendita di prodotti del I Settore Alimentare nei locali siti in Via Stazione 2; b) [la] nota del Ministero degli Interni n. 11001/119/20(9) in data 14 dicembre 2015; c) [la] nota della Prefettura di Messina n. 114429 del 17 dicembre 2015».
Riferisce il collegio rimettente che la ricorrente, mediante la segnalazione certificata di inizio attività del 6 maggio 2014, aveva ottenuto dal Comune di Messina l’autorizzazione alla vendita al dettaglio di prodotti relativi al «I Settore Alimentare (prodotti freschi e congelati, ittici e non)» nei locali siti nel medesimo Comune.
In precedenza – riferisce sempre il giudice a quo – la società ricorrente aveva partecipato al bando per l’erogazione di un finanziamento dell’Assessorato regionale dell’agricoltura e nel corso del relativo procedimento, in seguito alla richiesta di rituali informazioni, ai sensi dell’art. 83 del d.lgs. n. 159 del 2011, da parte dell’Amministrazione procedente, la Prefettura di Messina aveva adottato l’informazione antimafia interdittiva dell’11 settembre 2015, peraltro non impugnata, e aveva rilevato la sussistenza di possibili tentativi di infiltrazione mafiosa, dando atto che il coniuge del legale rappresentante della società era stato rinviato a giudizio per il reato di cui all’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) e che «alcuni procedimenti di natura patrimoniale» si erano conclusi con provvedimenti di sequestro e confisca di beni riconducibili al gruppo imprenditoriale in questione.
Il Prefetto di Messina, in seguito alla richiesta del Comune di Messina del 18 febbraio 2015 sull’esistenza di cause ostative ai sensi dell’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011, in relazione alla segnalazione certificata di inizio attività del 6 maggio 2014, aveva comunicato l’avvenuta emissione dell’informazione antimafia interdittiva, trasmettendo anche la nota del Ministero dell’interno n. 11001/119/20(9) del 14 dicembre 2015, con allegato il parere del Consiglio di Stato n. 3088 del 17 novembre 2015, in merito all’applicabilità dell’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011 ai provvedimenti di natura meramente autorizzatoria.
Il Comune di Messina, con nota n. 302385 del 21 dicembre 2015, aveva comunicato alla ricorrente l’avvio del «procedimento per la decadenza della segnalazione certificata di inizio attività» n. 112582 del 6 maggio 2014, e successivamente, «tenuto conto dell’ambito di applicazione» del citato art. 89-bis, aveva emesso l’ordinanza impugnata.
Come riferisce il collegio rimettente, questo provvedimento era stato impugnato in quanto adottato al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, perché la verifica era stata effettuata in un procedimento diverso da quello relativo alla segnalazione certificata di inizio attività. Inoltre, secondo la ricorrente, l’informazione antimafia dovrebbe riguardare ipotesi in cui l’amministrazione intende stipulare contratti, rilasciare concessioni o disporre erogazioni e non le attività private sottoposte a regime autorizzatorio, per le quali sarebbe invece richiesta la comunicazione antimafia. Perciò la ricorrente, in via subordinata, aveva chiesto al Tribunale amministrativo rimettente di sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011.
Si erano costituiti nel giudizio a quo il Comune di Messina e il Ministro dell’interno chiedendo il rigetto del ricorso.
Il Tribunale amministrativo ha rilevato che la comunicazione antimafia deve essere acquisita dai soggetti di cui all’art. 83, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, in relazione al rilascio di determinati provvedimenti di natura concessoria o lato sensu autorizzatoria, nonché alla stipulazione di contratti relativi a lavori, servizi e forniture pubblici di importo inferiore a quello per cui è prevista l’acquisizione dell’informazione antimafia. Le cause determinanti il rilascio di una comunicazione interdittiva sarebbero costituite dai provvedimenti definitivi di applicazione delle misure di prevenzione di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 159 del 2011 e dalle condanne con sentenza definitiva o confermata in appello per taluno dei delitti consumati o tentati elencati dall’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale.
L’informazione antimafia di cui all’art. 84, comma 3, del d.lgs. n. 159 del 2011 attesterebbe invece, oltre a quanto già previsto per la comunicazione antimafia, anche la sussistenza o meno di tentativi di infiltrazione mafiosa, tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi della società o dell’impresa interessate.
Come sarebbe stato rilevato nel parere del Consiglio di Stato 17 novembre 2015, n. 3088/15, la comunicazione antimafia costituirebbe «un “minus” rispetto all’informazione antimafia (attestando quest’ultima anche l’eventuale sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa)» e andrebbe richiesta in relazione a fattispecie di rilievo minore rispetto a quelle per cui è prevista l’informazione.
In base all’art. 88, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, quando dalla consultazione della banca dati nazionale unica, in seguito alla richiesta di una comunicazione antimafia, emerge la sussistenza di cause di decadenza, sospensione o divieto di cui al precedente art. 67, il prefetto sarebbe tenuto ad effettuare le necessarie verifiche e ad accertare la corrispondenza dei motivi ostativi emersi dalla consultazione della banca dati alla situazione aggiornata del soggetto sottoposto agli accertamenti. Le verifiche in questione sarebbero anche finalizzate all’accertamento di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa. Qualora, in esito alle verifiche di cui all’art. 88, comma 2, fosse accertata la sussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa, il prefetto dovrebbe adottare un’informazione antimafia interdittiva, dandone comunicazione ai soggetti richiedenti, senza emettere la comunicazione antimafia. In tal caso l’informazione antimafia «tiene luogo della comunicazione antimafia richiesta».
Nelle ipotesi in questione, dato il precedente coinvolgimento del soggetto interessato con gli ambienti della criminalità organizzata, sussisterebbe l’esigenza di una «speciale attenzione» da parte dell’Amministrazione, il che giustificherebbe l’accertamento, oltre che dell’attualità delle cause interdittive, anche di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, in relazione ai quali non verrebbero ordinariamente svolte verifiche relative a provvedimenti o contratti per cui è prevista la semplice comunicazione antimafia.
Secondo questa interpretazione, la comunicazione e l’informazione antimafia resterebbero soggette a una disciplina sostanzialmente equivalente, in quanto gli accertamenti tipici dell’informazione dovrebbero esperirsi in ogni caso, in contrasto con il complessivo impianto della disciplina volta a distinguere i due istituti.
Avendo il legislatore fatto esclusivo riferimento alle verifiche ai sensi dell’art. 88, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, e non ad altre ipotesi, dovrebbe ritenersi, in base ad un’esegesi letterale della disciplina, che nella specie si sarebbe dovuta adottare una comunicazione liberatoria, nonostante in concreto fossero stati accertati, sebbene in un diverso procedimento, tentativi di infiltrazione mafiosa nei confronti del soggetto interessato, e ciò, secondo il Tribunale amministrativo rimettente, determinerebbe la fondatezza della prima censura sollevata dalla società ricorrente.
Tuttavia la situazione relativa al precedente accertamento di tentativi di infiltrazione mafiosa, che aveva dato luogo a un’informazione interdittiva ancora efficace, non sarebbe «in nulla dissimile» da quella regolata dal citato art. 89-bis.
L’accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa sarebbe imposto dalla legge, sebbene «nell’ambito di un diverso (e precedente) procedimento amministrativo». Sussisterebbe, infatti, un’obiettiva situazione di pericolo, accertata in sede amministrativa, in ossequio a un obbligo di legge, e consistente nel coinvolgimento del soggetto interessato con gli ambienti della criminalità organizzata, seppure «al più tenue livello» dei meri tentativi di infiltrazione mafiosa.
Vi sarebbe dunque una totale identità di ratio tra l’ipotesi indicata e quella «esplicitamente considerata» dal legislatore delegato, derivante «dalla circostanza che in entrambi i casi i tentativi vengono obiettivamente appurati dall’Amministrazione in una sede procedimentale: in esito ai doverosi accertamenti imposti dagli artt. 88, secondo comma, e 89-bis, primo comma, in un caso; a seguito di precedente, doverosa ed ancora efficace informazione antimafia interdittiva nell’altro».
L’identità di ratio giustificherebbe l’applicazione analogica al caso in esame dell’art. 89-bis, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, ai sensi dell’art. 12, secondo comma, delle disposizioni preliminari al codice civile.
In base a questa interpretazione i motivi del ricorso dovrebbero essere rigettati, in quanto ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) non sarebbe annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Nel caso in esame, dunque, il provvedimento adottato risulterebbe interamente vincolato, in seguito all’intervenuto accertamento, sebbene in una diversa sede procedimentale, dei tentativi di infiltrazione mafiosa, a nulla rilevando che l’Amministrazione abbia motivato la propria decisione in modo formalmente differente, giacché ai sensi del citato art. 21-octies, comma 2, la mancata o insufficiente motivazione dell’atto non potrebbe «refluire sulla sua validità qualora essa esprima un potere privo di margini di discrezionalità».
Ciò premesso, il Tribunale amministrativo rimettente ritiene che l’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, «analogicamente applicato anche in relazione all’ipotesi di precedente ed efficace informazione antimafia interdittiva che abbia accertato la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa», sarebbe costituzionalmente illegittimo per eccesso di delega, in quanto fra i principi e i criteri direttivi dell’art. 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136 (Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia) non sarebbe contemplata la possibile estensione del rilascio dell’informazione antimafia, con i più severi accertamenti da essa previsti, per alcuna delle ipotesi in cui l’ordinamento aveva precedentemente previsto la richiesta e il rilascio della semplice comunicazione antimafia.
L’opera del legislatore dovrebbe necessariamente mantenersi nell’alveo delle scelte di fondo operate dalla legge delega, senza potersi spingere a ricomprendere materie e ipotesi che ne sarebbero escluse.
Il legislatore delegato avrebbe invece previsto l’adozione di un’informazione antimafia con riferimento a una «fattispecie – da interpretarsi analogicamente nei termini ripetutamente indicati – per cui la normativa previgente imponeva la richiesta e, soprattutto, il rilascio di una semplice comunicazione».
Alla stregua del quadro normativo così delineato, il legislatore avrebbe trattato in modo dissimile situazioni che potrebbero anche ritenersi sostanzialmente identiche, non comprendendosi perché i tentativi di infiltrazione dovrebbero assumere rilievo solo nei casi in cui sia richiesta la comunicazione antimafia relativa a un soggetto nei cui confronti risultino pregresse cause interdittive, nonché nel caso di una precedente ed ancora efficace informazione antimafia interdittiva, mentre essi risulterebbero irrilevanti, anche se sussistenti, negli altri casi.
Non sarebbe chiaro perché il legislatore, in luogo di introdurre la disciplina derogatoria di cui all’art. 89-bis, comma 1, che rimanda alla sola ipotesi di cui al precedente art. 88, comma 2, e analogicamente al caso di una precedente ed efficace informazione interdittiva, «non abbia previsto “tout court”, attesa la sostanziale omogeneità fra le diverse fattispecie, il rilascio di un’informazione antimafia per tutti i procedimenti di rilievo minore – o, in alternativa, per nessuno – per i quali in precedenza si prevedeva (la richiesta ed) il rilascio di una semplice comunicazione».
In questa prospettiva, la disciplina di cui all’art. 89-bis potrebbe risultare irrazionale e violare «il canone di ragionevolezza desumibile dall’art. 3, primo comma, della Costituzione», attribuendo rilievo ai tentativi di infiltrazione, non in ragione dell’obiettiva importanza del provvedimento o del contratto, ma per circostanze contingenti consistenti nella pregressa sussistenza di una causa interdittiva o nella precedente emissione di un’informazione antimafia interdittiva.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che le questioni siano dichiarate non fondate.
L’Avvocatura dello Stato ha sottolineato che il confronto tra la norma censurata e i criteri di delega contenuti nell’art. 2 della legge n. 136 del 2010 consente di escludere qualsiasi contrasto tra i principi e i criteri direttivi individuati in quest’ultima e la norma censurata. I criteri fissati dalla legge delega non risulterebbero così stringenti e specifici da indurre a ritenere che la disciplina contenuta nell’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011 sia esorbitante rispetto alla ratio e ai limiti tracciati dal legislatore delegante.
L’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 136 del 2010 indicherebbe, tra tali criteri, in linea generale, l’aggiornamento delle procedure di rilascio della documentazione antimafia, menzionando a mero titolo esemplificativo e non esaustivo l’ipotesi di revisione dei casi di esclusione e dei limiti di valore oltre i quali i soggetti pubblici e le società o imprese dagli stessi controllate non potrebbero stipulare, approvare o autorizzare contratti pubblici, rilasciare concessioni o riconoscere erogazioni in presenza di cause di decadenza o di tentativi di infiltrazione mafiosa.
Inoltre l’art. 2, comma 1, lettera c), della legge n. 136 del 2010, nel prevedere l’istituzione della banca dati nazionale della documentazione antimafia, ne individuerebbe la finalità nell’esigenza di «“potenziamento dell’attività di prevenzione dei tentativi di infiltrazione mafiosa nell’attività di impresa”, senza distinzione alcuna in relazione alla tipologia di detta attività e dei rapporti con la pubblica amministrazione». Da tale finalità si dovrebbe dedurre che «l’intento del legislatore delegante è stato quello di assicurare una tutela rafforzata alle situazioni di pericolo di coinvolgimento delle organizzazioni criminali in qualsiasi attività di natura imprenditoriale», e in considerazione di tale finalità «il Consiglio di Stato, nel parere della Sezione I, n. 3088 del 2015, nell’interpretare l’art. 89-bis in esame, ha affermato che lo stesso si applica anche alle ipotesi in cui si verta in materia di autorizzazione all’esercizio di attività private, posto che anche in tali ipotesi “l’esistenza di infiltrazioni mafiose inquina l’economia legale, altera il funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubbliche”».
Nel caso in esame, il procedimento di decadenza della segnalazione certificata di inizio attività sarebbe scaturito non già da autonomi accertamenti del prefetto circa la sussistenza di infiltrazioni mafiose nei confronti della società ricorrente, ma dalla constatazione dello stesso che quest’ultima era stata in precedenza destinataria di un’informazione interdittiva ancora in vigore, certamente risultante dalla consultazione della banca dati, posto che, ai sensi dell’art. 98 del d.lgs. n. 159 del 2011, la stessa dovrebbe contenere tutte le comunicazioni e le informazioni antimafia, sia liberatorie che interdittive.
Palese sarebbe poi la ragionevolezza della disciplina contenuta nella norma censurata, del tutto conforme ai principi dell’ordinamento in materia, oltre che a quelli enunciati nella legge delega.
Lo stesso Tribunale amministrativo rimettente, infatti, in contrasto con quanto affermato in altro periodo della medesima ordinanza, avrebbe riconosciuto la ragionevolezza della disciplina, la quale potrebbe giustificarsi per la «particolarità della fattispecie», posto che, secondo lo stesso giudice rimettente, «nel caso di intervenuto accertamento in sede amministrativa di pregresse cause interdittive sembra emergere l’esigenza di una maggiore attenzione nei confronti del soggetto interessato e la conseguente necessità di un accertamento che involga anche l’eventuale sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa».
3.– Si è costituita in giudizio la società ricorrente nel processo principale e ha chiesto che le questioni siano dichiarate fondate.
In punto di rilevanza la parte privata ha osservato che l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale incide in modo diretto sull’esito del giudizio a quo determinando il richiesto annullamento.
Nel merito la società ricorrente, dopo aver ricostruito i momenti salienti della vicenda amministrativa e il quadro normativo di riferimento, ha rilevato che l’interpretazione fatta propria dal Comune e dal Ministero con i provvedimenti impugnati scardina l’impianto codicistico, che, sulla base della legge delega, manterrebbe ferma l’alternatività tra comunicazione antimafia e informazione antimafia.
L’art. 2 della legge delega avrebbe circoscritto l’ambito della operatività dell’informazione antimafia ai rapporti contrattuali e a quelli relativi a una concessione o all’erogazione di sussidi economici, e non a ogni forma di contatto anche meramente autorizzatorio con la pubblica amministrazione. Ciò in base ad un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco.
Il d.lgs. n. 153 del 2014, con cui è stato introdotto l’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, sarebbe soggetto agli identici principi e criteri direttivi contenuti nella legge delega. L’art. 89-bis, nella parte in cui dispone che l’informazione antimafia produce i medesimi effetti della comunicazione, anche nell’ipotesi in cui manchi un rapporto contrattuale con la pubblica amministrazione, sarebbe pertanto costituzionalmente illegittimo per la violazione dei principi e dei criteri direttivi contenuti nell’art. 2, comma 1, lettere a) ed f), della legge n. 136 del 2010.
In particolare la delega in questione consentirebbe un limitato margine di discrezionalità per l’introduzione di soluzioni innovative, le quali dovrebbero attenersi strettamente ai principi e ai criteri direttivi enunciati dal legislatore delegante. Inoltre la normativa censurata sarebbe intrinsecamente irragionevole. L’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, impedendo all’impresa oggetto di tentativi di infiltrazione lo svolgimento di qualsiasi attività, ne determinerebbe «la morte commerciale e imprenditoriale».
Da ciò conseguirebbe la violazione degli artt. 3 e 41 Cost., e del canone della ragionevolezza.
4.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria con la richiesta che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate.
Nella memoria l’Avvocatura dello Stato ha rilevato che «la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha definitivamente chiarito, con numerose sentenze […], che la disciplina dettata dal d.lgs. 6.9.2011, n. 159 (codice delle leggi antimafia) consente l’applicazione delle informazioni antimafia, di cui all’art. 84, comma 3, del predetto codice, anche ai provvedimenti a contenuto autorizzatorio, confermando, così, il parere n. 3088/2015, espresso, in sede consultiva, dalla Sezione I dello stesso Consesso, nell’adunanza del 14.10.2015, nonché l’orientamento in precedenza assunto, al riguardo, da diversi Tribunali amministrativi regionali». Tale conclusione sarebbe suffragata da dati normativi incontestabili, rinvenibili, sia nella legge delega n. 136 del 2010, sia nelle stesse originarie previsioni contenute nel d.lgs. n. 159 del 2011, prima dell’introduzione, in esso, dell’art. 89-bis ad opera del d.lgs. n. 153 del 2014. Da ciò conseguirebbe l’irrilevanza delle questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 89-bis, in quanto quest’ultimo non sarebbe l’unica e neppure la principale disposizione applicabile «ai fini del controllo di legittimità del provvedimento impugnato dinanzi al TAR Sicilia».
Nel merito, l’Avvocatura dello Stato ha ribadito quanto aveva sostenuto nell’atto di intervento.
5.– Anche la parte privata ha depositato una memoria, insistendo sulle conclusioni già formulate.
In particolare ha rilevato che la giurisprudenza comune che si è occupata dell’articolo in questione ha confermato l’interpretazione assunta dal collegio rimettente, secondo la quale «la presenza di una “informativa antimafia” ex art. 91, D.Lgs. n. 159 del 2011» impedisce a una persona di avere qualsiasi tipo di rapporto, anche di natura meramente autorizzatoria, con la pubblica amministrazione. Dopo aver osservato che la legislazione vigente mantiene ferma la distinzione tra comunicazione antimafia e informazione antimafia, quanto a presupposti, natura ed effetti, la parte privata ha ribadito ciò che aveva già sostenuto nell’atto di costituzione.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, con ordinanza del 28 settembre 2016, ha sollevato, in riferimento agli artt. 76, 77, primo comma, e 3 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 89-bis del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), inserito dall’art. 2, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 13 ottobre 2014, n. 153 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui stabilisce che l’informazione antimafia è adottata anche nei casi in cui è richiesta una mera comunicazione antimafia e produce gli effetti di questa.
Il giudice a quo conosce della legittimità di un provvedimento di decadenza da una segnalazione certificata di inizio attività, che l’amministrazione ha adottato a causa della esistenza di un’informazione antimafia interdittiva.
Di regola un tale effetto pregiudizievole, che attiene ad un rapporto in senso lato autorizzatorio con la pubblica amministrazione, discende dall’adozione di una comunicazione antimafia interdittiva, con la quale si attesta la sussistenza di una causa di decadenza, di sospensione o di divieto tra quelle indicate dall’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011 (art. 84, comma 2, del medesimo decreto).
Tuttavia l’art. 89-bis censurato prevede che il medesimo effetto derivi dall’informazione antimafia interdittiva, che «tiene luogo della comunicazione antimafia», nel caso indicato dall’art. 88, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, ovvero quando il prefetto, dopo avere consultato la banca dati nazionale unica, riscontri la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa.
In tali casi, che sono caratterizzati da maggiore gravità rispetto alle ipotesi nelle quali è prevista la sola comunicazione antimafia interdittiva, la disposizione censurata riconnette all’informazione antimafia interdittiva, sia l’effetto suo proprio, di inibire la stipulazione, l’approvazione o l’autorizzazione di contratti e subcontratti con la pubblica amministrazione (art. 91 del d.lgs. n. 159 del 2011), sia l’effetto tipico della comunicazione antimafia interdittiva, ovvero quello di vietare i provvedimenti e le attività indicate dall’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011.
In questo senso si è anche espressa una consolidata giurisprudenza amministrativa.
L’art. 89-bis censurato è stato introdotto dall’art. 2, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 153 del 2014. A sua volta quest’ultimo si basa sull’art. 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136 (Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia).
Il giudice rimettente ritiene che l’art. 2 della legge delega n. 136 del 2010 non avrebbe previsto «la possibile estensione del rilascio dell’informazione antimafia […] per alcuna delle ipotesi in cui l’ordinamento abbia precedentemente previsto la richiesta ed il rilascio della semplice comunicazione». In altri termini, secondo il giudice rimettente, il legislatore delegato, violando gli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., avrebbe previsto, in difetto di delega, che l’informazione antimafia, nel peculiare caso indicato dall’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, produca gli effetti interdittivi propri della comunicazione antimafia.
La disciplina in questione contrasterebbe anche con l’art. 3 Cost., perché sarebbe manifestamente irragionevole prevedere che simili effetti interdittivi si manifestino non già per ogni tentativo di infiltrazione mafiosa di apprezzabile gravità, ma per il solo fatto che, a seguito della consultazione della banca dati, sia emersa una precedente informazione antimafia interdittiva.
2.– In via preliminare deve essere dichiarata l’inammissibilità delle deduzioni svolte dalla difesa della parte privata, dirette ad estendere il thema decidendum – come fissato nella ordinanza di rimessione – alla violazione del parametro dell’art. 41 Cost., ivi non contemplato. Per costante giurisprudenza di questa Corte, «l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione. Pertanto, non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze» (ex plurimis, sentenze n. 251 del 2017, n. 214 del 2016, n. 231 e n. 83 del 2015).
3.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale perché l’effetto estensivo denunciato dal rimettente sarebbe ascrivibile anche a numerose altre disposizioni recate dal d.lgs. n. 159 del 2011, e non alla sola norma censurata.
L’eccezione di inammissibilità è priva di fondamento, perché, ai fini della motivazione sulla rilevanza, è sufficiente che il rimettente abbia indicato senza incorrere in errore la disposizione che nel caso di specie è tenuto ad applicare, e in contrario non vale osservare che esistono altre disposizioni di analogo contenuto normativo.
4.– La questione relativa alla violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, Cost. non è fondata.
Il giudice rimettente, senza porre alcun dubbio di legittimità costituzionale specificamente riferito alla natura meramente correttiva e integrativa del d.lgs. n. 153 del 2014, lamenta che la legge delega non avrebbe permesso di attribuire alla sola informazione antimafia gli effetti interdittivi propri della comunicazione antimafia, e insiste nel rilevare che anteriormente alla legge delega n. 136 del 2010, la quale nulla avrebbe innovato sul punto, l’informazione e la comunicazione antimafia costituivano documenti alternativi, nel senso che l’uno non avrebbe mai potuto produrre gli effetti dell’altro.
In verità, però, e quale che fosse l’ambito riservato dal legislatore all’informazione e alla comunicazione antimafia anteriormente al d.lgs. n. 159 del 2011, non sussisteva alcun ostacolo logico o concettuale, che imponesse di circoscrivere gli effetti dell’informazione antimafia alle attività contrattuali della pubblica amministrazione, escludendone invece quelle ulteriori indicate ora dall’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011.
Del resto, nell’impostazione originaria recata dall’art. 10 della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), la documentazione antimafia allora prevista riguardava, con effetti impedienti, sia l’attività contrattuale, sia quella ulteriore oggi preclusa dall’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011, ponendo fin da allora in luce la necessità di reagire su entrambi i fronti, davanti al pericolo che soggetti raggiunti da una misura di prevenzione, o condannati per determinati reati, potessero costituire un qualsivoglia rapporto con la pubblica amministrazione da cui trarre utilità.
In seguito, l’art. 1, lettera d), della legge 17 gennaio 1994, n. 47 (Delega al Governo per l’emanazione di nuove disposizioni in materia di comunicazioni e certificazioni di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575) ha allargato le ipotesi di reazione dell’ordinamento a tale pericolo, attribuendo rilievo ai tentativi di infiltrazione mafiosa, al fine di precludere in questi casi l’attività contrattuale con la pubblica amministrazione. L’art. 10 del d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 (Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia) a tale scopo ha configurato l’informazione antimafia quale specifica documentazione richiesta, mentre la comunicazione antimafia (art. 3) è stata rivolta alle cause impeditive oggi contenute nell’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011.
L’art. 2, comma 1, lettera c), della legge delega n. 136 del 2010 ha inteso allargare il campo di applicazione dell’informazione antimafia, stabilendo che la sua «immediata efficacia» potesse esplicarsi «con riferimento a tutti i rapporti, anche già in essere, con la pubblica amministrazione».
Con questa disposizione il legislatore delegante, prendendo evidentemente le mosse dalla situazione di estrema gravità ravvisabile nel tentativo di infiltrazione mafiosa, ha concesso al legislatore delegato di introdurre ipotesi in cui tale infiltrazione, alla quale corrisponde l’adozione di un’informazione antimafia, giustifichi un impedimento non alla sola attività contrattuale della pubblica amministrazione, ma anche ai diversi contatti che con essa possano realizzarsi nei casi ora indicati dall’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011.
Così, in linea generale, l’art. 84, comma 3, del d.lgs. n. 159 del 2011 ha espressamente esteso l’oggetto dell’informazione antimafia alla sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67, mentre l’art. 91 ha più specificamente allargato gli effetti interdittivi dell’informazione antimafia ai provvedimenti indicati dal precedente art. 67, purché del valore specificamente indicato.
Nel contesto del d.lgs. n. 159 del 2011, e sulla base della legge delega n. 136 del 2010, nulla autorizza quindi a pensare che il tentativo di infiltrazione mafiosa, acclarato mediante l’informazione antimafia interdittiva, non debba precludere anche le attività di cui all’art. 67, oltre che i rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione, se così il legislatore ha stabilito.
Naturalmente spetta alla giurisprudenza comune, in sede di interpretazione del quadro normativo, decidere in quali casi e a quali condizioni il legislatore delegato abbia inteso attribuire all’informazione antimafia gli effetti della comunicazione antimafia.
Nel caso di specie, la giurisprudenza amministrativa, e lo stesso giudice rimettente, hanno interpretato l’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011 nel senso che esso impone di adottare l’informazione antimafia, non soltanto quando l’accertamento eseguito in base all’art. 88, comma 2, permette di riscontrare la sussistenza di una delle cause impeditive di cui all’art. 67, ma anche quando emerge una precedente documentazione antimafia interdittiva in corso di validità, come è accaduto nel processo principale (Consiglio di Stato, sezione terza, 8 marzo 2017, n. 1109).
Non spetta a questa Corte sindacare tale approdo ermeneutico, posto che in sé esso non pone alcun profilo di legittimità costituzionale rilevante in questo giudizio incidentale.
Infatti, una volta chiarito che, nella fisiologica attività di riempimento della delega che gli compete, il legislatore delegato ha facoltà di estendere gli effetti dell’informazione antimafia fino a precludere gli atti e i provvedimenti elencati nell’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011, la circostanza che ciò sia stato disposto, o no, da tale decreto, e in quali casi, ricade interamente nella sfera di interpretazione della legge, di competenza del giudice comune. Questa Corte deve invece limitarsi a rilevare che un tale effetto trova copertura nella legge delega, sicché la questione non è fondata.
5.– Anche la questione concernente la violazione dell’art. 3 Cost. non è fondata.
La fattispecie delineata dall’art. 89-bis censurato si riconnette a una situazione di particolare pericolo di inquinamento dell’economia legale, perché il tentativo di infiltrazione mafiosa viene riscontrato all’esito di una nuova occasione di contatto con la pubblica amministrazione, che, tenuta a richiedere la comunicazione antimafia in vista di uno dei provvedimenti indicati dall’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011, si imbatte in una precedente documentazione antimafia interdittiva. Non è perciò manifestamente irragionevole che, secondo l’interpretazione dell’art. 89-bis censurato condivisa dallo stesso rimettente, a fronte di un tentativo di infiltrazione mafiosa, il legislatore, rispetto agli elementi di allarme desunti dalla consultazione della banca dati, reagisca attraverso l’inibizione, sia delle attività contrattuali con la pubblica amministrazione, sia di quelle in senso lato autorizzatorie, prevedendo l’adozione di un’informazione antimafia interdittiva che produce gli effetti anche della comunicazione antimafia.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 89-bis del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), inserito dall’art. 2, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 13 ottobre 2014, n. 153 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), sollevate, in riferimento agli artt. 76, 77, primo comma, e 3 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere