Corte Costituzionale Sentenza 18 gennaio 2018, n. 6
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), promossi dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza dell’8 aprile 2016, dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania con ordinanza del 24 maggio 2016 e dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con ordinanza del 26 aprile 2016, iscritte, rispettivamente, ai nn. 107, 218 e 260 del registro ordinanze 2016, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, nn. 22, 44 e 52, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visti gli atti di costituzione di A. N., dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, della Regione Campania, e di M.C. P. e G. R., quest’ultimo atto fuori termine;
udito nella udienza pubblica del 5 dicembre 2017 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio;
uditi gli avvocati Sabatino Rainone per A. N., Maria Morrone per l’INPS, Angelo Abignente per l’Università degli Studi di Napoli Federico II e Rosanna Panariello per la Regione Campania.
Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza iscritta al n. 107 r.o. 2016, le sezioni unite civili della Corte di cassazione hanno sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), «nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30.06.98 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000».
1.1.- Il rimettente espone in punto di fatto che:
– alcuni medici svolgenti attività professionale remunerata a gettone hanno proposto ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione avverso la sentenza del Consiglio di Stato, sezione sesta, 30 luglio 2013, n. 4001, con cui era stata confermata la decisione del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, che aveva dichiarato inammissibile il ricorso volto all’accertamento della sussistenza di un rapporto di impiego di fatto alle dipendenze del Policlinico dell’Università degli studi di Napoli Federico II (d’ora in avanti: l’Università di Napoli o l’Università), e alla sua condanna, unitamente all’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS), alla conseguente regolarizzazione contributiva;
– la declaratoria di inammissibilità si fondava sulla intervenuta decadenza prevista dall’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, trattandosi di domanda attinente a un periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998, attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ma proposta dopo il 15 settembre 2000;
– successivamente alla menzionata decisione del Consiglio di Stato, la Corte europea dei diritti dell’uomo, adita da altri medici che versavano nella medesima condizione giuridica dei ricorrenti, con le sentenze Mottola contro Italia e Staibano e altri contro Italia del 4 febbraio 2014 (d’ora in avanti: sentenze Mottola e Staibano), aveva accertato una duplice violazione degli obblighi convenzionali da parte dello Stato italiano;
– in particolare, la Corte EDU aveva accertato la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, relativamente al diritto di accesso a un tribunale, poiché la decadenza prevista dalla norma censurata avrebbe «posto un ostacolo procedurale costituente sostanziale negazione del diritto invocato»; nonché dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, poiché il diritto di credito pensionistico dei ricorrenti, in quanto riconosciuto dalla giurisprudenza interna, costituiva ai sensi del citato parametro convenzionale un «bene» della persona e la decisione del Consiglio di Stato aveva svuotato la loro legittima aspettativa al suo conseguimento;
– sulla base di tali premesse i ricorrenti hanno proposto ricorso per cassazione, sostenendo che, alla luce delle pronunce Mottola e Staibano, l’interpretazione dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 adottata dal Consiglio di Stato si risolve in un diniego di tutela giurisdizionale in violazione dell’art. 6 della CEDU, sanzionabile davanti alle sezioni unite ai sensi dell’art. 362, primo comma, del codice di procedura civile.
1.2.- In punto di rilevanza, il rimettente riferisce che la decisione gravata è stata depositata in data 30 luglio 2013, con la conseguenza che, in mancanza di notificazione, la decadenza dall’impugnazione si sarebbe realizzata allo scadere di un anno dalla pubblicazione della sentenza, ai sensi dell’art. 327, primo comma, cod. proc. civ., nella formulazione antecedente la riforma introdotta dall’art. 46 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile).
Il ricorso per cassazione, notificato alle controparti il 21 marzo e il 19 aprile 2014, sarebbe quindi tempestivo, con la conseguenza che, «non essendosi ancora creato un giudicato al riguardo, la questione della corretta affermazione della giurisdizione è tuttora aperta».
Sempre in punto di rilevanza, le sezioni unite ritengono sussistenti i presupposti che giustificano il ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione avverso la sentenza del Consiglio di Stato.
Il rimettente ricorda che, secondo la propria giurisprudenza consolidata, il sindacato esercitato dalla Corte di cassazione sulle decisioni rese dal Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 362, primo comma, cod. proc. civ. e dell’art. 110 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), è consentito ove si richieda l’accertamento dell’eventuale sconfinamento del secondo dai limiti esterni della giurisdizione, per il riscontro di vizi che riguardano l’essenza della funzione giurisdizionale e non il modo del suo esercizio, restando, per converso, escluso ogni sindacato sui limiti interni, cui attengono gli errores in iudicando o in procedendo.
A tale stregua, il rimedio in questione sarebbe esperibile nell’ipotesi in cui la sentenza del Consiglio di Stato abbia violato l’ambito della giurisdizione in generale – esercitandola nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, oppure, al contrario, negandola sull’erroneo presupposto che la domanda non possa formare oggetto in modo assoluto di funzione giurisdizionale – ovvero nell’ipotesi in cui abbia violato i cosiddetti limiti esterni della giurisdizione, allorquando, cioè, si pronunci su materia attribuita al giudice ordinario o ad altro giudice speciale, oppure neghi la sua giurisdizione nell’erroneo convincimento che appartenga ad altro giudice.
Secondo il rimettente, però, quanto al confine oltre il quale le sezioni unite non possono spingersi nell’esercizio di tale sindacato, si sarebbe andata affermando una nozione di limite esterno «collegato all’evoluzione del concetto di giurisdizione», «da intendersi in senso dinamico, nel senso dell’effettività della tutela giurisdizionale».
In quest’ottica, il giudizio sulla giurisdizione non sarebbe più uno strumento di «accertamento del potere di conoscere date controversie attribuito ai diversi ordini di giudici di cui l’ordinamento è dotato», ma costituirebbe uno strumento per affermare il diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi: sarebbe norma sulla giurisdizione non solo quella che individua i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quella che dà contenuto a quel potere stabilendo le forme di tutela attraverso le quali esso si estrinseca (si cita la sentenza delle sezioni unite 23 dicembre 2008, n. 30254).
A tale principio – prosegue il rimettente – le sezioni unite hanno fatto ricorso in un caso in cui il Consiglio di Stato aveva interpretato una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione europea per come risultante da una pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea successivamente intervenuta; in tale caso, la cassazione della sentenza è stata ritenuta indispensabile per impedire che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo, esplicasse i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario (si cita la sentenza delle sezioni unite 6 dicembre 2015, n. 2403).
Nel caso di specie, pur fondandosi la tutela giurisdizionale asseritamente negata non sul diritto dell’Unione ma su quello convenzionale, la situazione giuridica creatasi sarebbe analoga, perché anche in questo caso il giudice dell’impugnazione si troverebbe nella condizione di evitare che la decisione gravata, una volta divenuta definitiva, esplichi i suoi effetti in maniera contrastante con norme sovranazionali cui lo Stato italiano è tenuto a dare applicazione.
Ad avviso delle sezioni unite, dunque, la situazione in esame rientrerebbe in uno di quei casi estremi in cui il giudice amministrativo adotta una decisione anomala o abnorme, omettendo l’esercizio del potere giurisdizionale per errores in iudicando o in procedendo che danno luogo al superamento del limite esterno.
1.3.- Nel merito, il rimettente osserva che, in ordine alle controversie relative al periodo del rapporto di lavoro antecedente al 30 giugno 1998 iniziate dopo il 15 settembre 2000, si era creato un primo orientamento giurisprudenziale favorevole a ricomprenderle nella giurisdizione del giudice ordinario; nel tempo, tuttavia, era prevalso un diverso orientamento sia della Corte di cassazione sia del Consiglio di Stato che ricollega alla scadenza del termine la radicale impossibilità di fare valere il diritto dinanzi ad un giudice.
Tale orientamento – proseguono le sezioni unite – è stato avallato dalla Corte costituzionale, la quale ha ritenuto la norma conforme all’art. 3 Cost., in quanto la disparità di trattamento tra dipendenti privati e pubblici è giustificata dall’esigenza di contenere gli effetti connessi al trasferimento della giurisdizione da un plesso all’altro potenzialmente pregiudizievoli del regolare svolgimento dell’attività giurisdizionale, e dall’ampia discrezionalità del legislatore nella disciplina della successione delle leggi processuali nel tempo; nonché conforme all’art. 24 Cost., non essendo ingiustificata in sé la previsione di un termine di decadenza e non essendo il termine specifico di oltre ventisei mesi tale da rendere «oltremodo difficoltosa la tutela giurisdizionale» (si cita l’ordinanza n. 382 del 2005).
La norma così interpretata, tuttavia, si porrebbe in contrasto con l’art. 6 della CEDU, come accertato dalla Corte di Strasburgo con le sentenze Mottola e Staibano, secondo cui la decadenza in questione porrebbe un ostacolo procedurale costituente una sostanziale negazione del diritto invocato ed escluderebbe un giusto equilibrio tra interessi pubblici e privati in gioco.
Stante l’insuperabilità in via interpretativa del contrasto tra la norma interna e quella convenzionale, il rimettente ritiene di dovere sollevare questione di legittimità costituzionale della prima per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui prevede che le controversie attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000.
1.4.- Si è costituito in giudizio l’INPS, eccependo l’inammissibilità e la manifesta infondatezza della questione sollevata e riservandosi di meglio illustrare nel prosieguo le proprie difese.
1.5.- Con successiva memoria depositata in termini, l’INPS ha in particolare eccepito l’inammissibilità della questione per mancanza di una idonea motivazione circa la possibilità di interpretare la norma in maniera costituzionalmente orientata, omissione, questa, che ridonderebbe anche in difetto di motivazione sulla rilevanza.
1.6.- La questione sarebbe inammissibile anche per difetto di rilevanza.
Secondo l’INPS, il ricorso per cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato è possibile solo laddove il secondo abbia violato l’ambito della giurisdizione in generale, ad esempio esercitandola nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero nella ipotesi in cui abbia violato i limiti esterni della giurisdizione, pronunciandosi in materia attribuita alla cognizione del giudice ordinario o di altro giudice. Tali ipotesi non ricorrerebbero nel caso di specie e nemmeno sarebbe configurabile una decisione anomala o abnorme con cui sia stato omesso l’esercizio del potere giurisdizionale.
L’impugnata sentenza del Consiglio di Stato sarebbe tutt’altro che eversiva, ponendosi, per contro, nel solco tracciato dall’adunanza plenaria con la sentenza 21 febbraio 2007, n. 4 e dalla Corte costituzionale con le ordinanze n. 197 del 2006, n. 382 e n. 213 del 2005, n. 214 del 2004.
1.7.- Nel merito, la questione sarebbe infondata, in primo luogo perché la lesione dei diritti previdenziali dei ricorrenti accertata dalla Corte di Strasburgo non sarebbe direttamente ed esclusivamente connessa alla mera esistenza del termine di decadenza di cui all’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, ma piuttosto dovuta al mutamento della giurisprudenza, che aveva finito con l’attribuire alla scadenza di quel termine la conseguenza della radicale impossibilità di far valere i loro diritti in giudizio.
Ed infatti, al punto 51 della sentenza Staibano, la stessa Corte EDU avrebbe riconosciuto che la fissazione del termine, non eccessivamente breve, del 15 settembre 2000 risponde alla legittima e condivisibile finalità, di interesse generale, della buona amministrazione della giustizia, attraverso una ripartizione di competenze coerente e razionale tra il giudice civile e quello amministrativo e l’apposizione di limiti temporali certi per incardinare le controversie in materia di pubblico impiego.
Secondo l’INPS, andrebbe quindi data piena continuità al consolidato orientamento della Corte costituzionale, che ha ritenuto legittimo il termine di decadenza prima previsto dall’art. 45, comma 17, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59) e poi trasfuso nella norma oggi censurata.
1.8.- Si è costituita anche l’Università di Napoli, eccependo innanzitutto l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza.
Secondo l’Università, con il ricorso per cassazione i ricorrenti non hanno inteso ottenere dalle sezioni unite chiarimenti in ordine alla giurisdizione quanto, piuttosto, un ulteriore grado di giudizio nel merito della controversia, inammissibilmente censurando un asserito error in iudicando.
L’estensione del concetto di limite esterno in chiave dinamica e di effettività della tutela giurisdizionale operata dal rimettente, per quanto suggestiva, non sarebbe condivisibile, «proprio alla luce del costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale “l’evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti non giustifica il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 111 Cost., u.c., quando, come nella specie, non si verta in ipotesi di aprioristico diniego di giurisdizione, ma la tutela si assuma negata dal giudice speciale in conseguenza di errori di giudizio che si prospettino dal medesimo commessi in relazione allo specifico caso sottoposto al suo esame (Sez. Un., 16 gennaio 2014, n. 771)” (Cass. Civ., Sez. Un., 29.2.2016, n. 3915)».
Il ricorso per cassazione, dunque, non essendo stato proposto per motivi attinenti alla giurisdizione, mai denegata, non potrebbe che essere dichiarato inammissibile dal giudice a quo, a nulla rilevando l’eventuale sopravvenuta illegittimità costituzionale della norma applicata dal Consiglio di Stato. In altri termini, la questione difetterebbe di rilevanza perché le sezioni unite potrebbero giungere alla definizione del giudizio a prescindere dall’esito della questione di costituzionalità.
1.9.- Nel merito, andrebbe considerato, in primo luogo, che ai medici “gettonati” è stata ampiamente riconosciuta la possibilità di accesso alla giustizia per ottenere il riconoscimento del diritto al versamento dei contributi previdenziali, come sarebbe comprovato dal fatto che molti colleghi dei ricorrenti hanno ottenuto la piena soddisfazione delle loro pretese.
La legittimità della scelta del legislatore di prevedere un termine di decadenza, del resto, sarebbe stata già accertata dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 213 del 2005, che ha giustificato tale misura processuale con effetti sostanziali, «in quanto […] è idonea a prevenire il temuto sovraccarico di entrambi i giudici investiti del contenzioso del pubblico impiego ed idonea, altresì, a realizzare tra di essi un ordinato riparto di tale contenzioso, con l’evitare che per la medesima concreta controversia fosse previsto il succedersi, nel tempo, della giurisdizione di un giudice a quella di una altro giudice».
1.10.- Con memoria depositata fuori termine, si sono costituiti M.C. P. e G. R., parti nel giudizio a quo, aderendo alle argomentazioni spese nell’ordinanza di rimessione a sostegno della rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità sollevata.
1.11.- Con memoria depositata fuori termine l’Università di Napoli ha ulteriormente illustrato le ragioni a sostegno della inammissibilità e non fondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dalle sezioni unite.
2.- Con ordinanza iscritta al n. 218 r.o. 2016, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, «nella parte in cui non consente di proporre al G.O. senza incorrere in decadenza, dopo il 15/9/2000, l’azione relativa ai fatti connessi al rapporto di impiego anteriori al 30/6/1998».
2.1.- Il rimettente espone in punto di fatto che:
– la ricorrente ha riassunto presso il TAR il ricorso proposto davanti al Tribunale di Napoli, che, con sentenza 22 ottobre 2012, n. 281, aveva declinato la giurisdizione in favore del giudice amministrativo, in applicazione del citato art. 69, comma 7;
– la causa ha ad oggetto il risarcimento dei danni subiti per effetto del comportamento della Regione, che avrebbe illegittimamente escluso la ricorrente dal concorso riservato per l’immissione nel ruolo del personale in servizio presso i centri di formazione professionale con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, nonché per la tardiva esecuzione delle sentenze del TAR e del Consiglio di Stato che avevano statuito l’illegittimità di tale esclusione;
– che, infatti, la ricorrente nel giudizio amministrativo previamente instaurato aveva richiesto il riconoscimento del servizio prestato presso l’Ente nazionale ACLI istruzione professionale (ENAIP) fino al 1982 ovvero la retrodatazione della sua nomina anche a fini economici a far data dal 1° settembre 1986, ma la sua domanda era stata definitivamente rigettata dal Consiglio di Stato con sentenza del 23 marzo 2009, n. 1752, che, in motivazione, aveva tuttavia rilevato come la ritardata assunzione in servizio fosse generatrice di responsabilità per danni.
2.2.- Ciò esposto in punto di fatto, il rimettente ritiene sussistere la propria giurisdizione sulla controversia risarcitoria relativa a fatti inerenti al periodo anteriore al 30 giugno 1998, in quanto comunque collegati al rapporto d’impiego, senonché l’azione sarebbe tardiva ai sensi dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, per come ormai interpretato dalla pacifica giurisprudenza del giudice ordinario e amministrativo.
2.3.- Il TAR Campania deduce poi che le sezioni unite della Corte di cassazione, con ordinanza dell’8 aprile 2016, n. 6891, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000; analogamente ha fatto il TAR Lazio con ordinanza del 26 aprile 2016, n. 4776, riguardante una controversia risarcitoria per infortunio in itinere occorso ad un pubblico dipendente.
Il Tribunale campano reputa quindi necessario rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità della norma citata, «ravvisandone la rilevanza nel presente processo e la non manifesta infondatezza, alla stregua delle enunciazioni contenute nell’ordinanza di rimessione delle Sezioni Unite e per contrasto con il medesimo parametro costituzionale dell’art. 117, primo comma, e dell’interposta norma dell’art. 6 della Convenzione EDU».
2.4.- L’applicazione della norma censurata condurrebbe nel caso in esame a dichiarare inammissibile il ricorso, in quanto l’azione è stata proposta oltre il termine del 15 settembre 2000. Secondo il rimettente, sussisterebbe la rilevanza della questione riguardata «sotto l’aspetto dell’individuazione del giudice chiamato a conoscere della controversia».
«In tale prospettiva» si dovrebbe dubitare della legittimità costituzionale della norma in questione, «nella parte in cui stabilisce un effetto decadenziale e non consente di proporre davanti al G.O., dopo il 15 settembre 2000, l’azione relativa a fatti connessi al rapporto di impiego anteriori al 30 giugno 1998».
Così posta, la questione avrebbe «sicura rilevanza» nel processo, in quanto l’illegittimità della norma in tali termini comporterebbe che la cognizione sulla controversia spetterebbe al giudice ordinario e quindi condurrebbe alla necessità per il TAR di sollevare conflitto negativo di giurisdizione ai sensi dell’art. 11, comma 3, del d.lgs. n. 104 del 2010.
2.5.- In punto di non manifesta infondatezza, il TAR Campania ritiene che la norma – come indicato dalla Cassazione – sia in contrasto con l’art. 6, comma 1, della CEDU, ponendo un ostacolo procedurale che costituisce una sostanziale negazione del diritto invocato ed escludendo un giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e privati in gioco.
La riconduzione a legittimità della disposizione in parola si avrebbe con la devoluzione al giudice ordinario della cognizione delle controversie in questione, per come in principio ritenuto dalla giurisprudenza al fine di «garantire la fruizione della giurisdizione» (si cita l’ordinanza di rimessione delle sezioni unite), in linea con la finalità di concentrazione avanti ad un unico giudice sottesa alla riforma recata dal d.lgs. n. 165 del 2001 e in modo da «non coinvolgere troppo a lungo il giudice amministrativo in una giurisdizione ormai perduta» (si cita la sentenza del Consiglio di Stato, adunanza plenaria, 21 febbraio 2007, n. 4).
2.6.- Con memoria depositata nella cancelleria di questa Corte il 20 ottobre 2016, si è costituita la Regione Campania, che, dopo avere ricostruito i fatti di causa, ha eccepito l’inammissibilità della questione sollevata e la sua non fondatezza.
2.7.- Osserva la Regione Campania che solo nel 2003 e poi nel 2009, con le pronunce del TAR e del Consiglio di Stato, la ricorrente aveva appreso di avere erroneamente impostato la sua iniziativa giurisdizionale: invece di agire per l’accertamento della responsabilità aquiliana, «incorrendo nel termine di prescrizione quinquennale», essa aveva intentato un’azione basata su un titolo «inconfigurabile» (il diritto alla restitutio in integrum mediante retrocostituzione del rapporto di lavoro).
Ciò determinerebbe, secondo l’interveniente, la irrilevanza della questione sollevata, poiché la ricorrente sarebbe carente di interesse all’azione di responsabilità almeno dall’anno 2003, essendosi prescritto il relativo diritto.
La fattispecie concreta metterebbe in evidenza un tardivo esercizio del diritto ascrivibile non già al meccanismo normativo introdotto dal legislatore e sospettato d’incostituzionalità ma «a mere scelte strategico-difensive».
2.8.- Nel merito, la Regione Campania ricorda come la giurisprudenza della Corte costituzionale sia inequivoca nel ritenere che il termine decadenziale previsto dalla norma censurata sia giustificato dall’esigenza di contenere gli effetti potenzialmente pregiudizievoli per il regolare svolgimento dell’attività giurisdizionale prodotti dal trasferimento della giurisdizione dal giudice amministrativo a quello ordinario, ed in ragione dell’ampia discrezionalità del legislatore nel regolare istituti processuali intertemporali; né sarebbe lesiva dell’art. 24 Cost. la previsione di un termine decadenziale di oltre ventisei mesi, certamente non tale da rendere difficoltosa la tutela giurisdizionale.
L’interveniente ricorda anche che la Corte EDU nelle sentenze Mottola e Staibano ha ritenuto la violazione dell’art. 6 della CEDU, in quanto, a seguito di un mutamento giurisprudenziale, «i ricorrenti che avevano adito i giudici amministrativi in buona fede e in un regime giuridico che poteva dare luogo a una pluralità di interpretazioni possibili, sono stati privati della possibilità di reintrodurre i loro ricorsi dinanzi ai tribunali definitivamente individuati come competenti».
Tale non sarebbe il caso di specie, laddove la ricorrente avrebbe «riaggiustato il tiro» a distanza di anni, dopo avere adito nei termini il giudice munito di giurisdizione.
Sotto altro profilo, poi, rispetto all’esigenza di non violare le norme convenzionali sarebbe prevalente quella di tutelare i valori costituzionali sottesi alla norma censurata (artt. 3, 24, 25, 81 e 97 Cost.), compito, questo, rimesso alla Corte costituzionale.
3.- Con ordinanza iscritta al n. 260 r.o. 2016, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, «nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000».
3.1.- Il rimettente espone in punto di fatto che:
– la ricorrente, dipendente dell’azienda sanitaria locale (ASL) Roma C, il 2 luglio 1997 era rimasta vittima di un incidente stradale al ritorno dal posto di lavoro; essa aveva pertanto adito il giudice del lavoro del Tribunale ordinario di Roma che aveva riconosciuto l’infortunio in itinere, condannando l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) al pagamento di una rendita per malattia professionale, commisurata ad una inabilità permanente del trentadue per cento, oltre interessi e rivalutazione;
– con altro ricorso notificato l’8 luglio 2002 la ricorrente aveva nuovamente adito il medesimo giudice del lavoro, chiedendo la condanna dell’ASL al risarcimento del danno biologico, in quanto effetto dell’inadempienza del datore di lavoro agli obblighi di protezione imposti dall’art. 2087 del codice civile, ma questa volta il giudice adito aveva declinato la giurisdizione in favore di quello amministrativo, in ragione della ritenuta natura contrattuale della responsabilità datoriale;
– la ricorrente aveva quindi adito il TAR Lazio con ricorso notificato il 12 ottobre 2007 e depositato il successivo 8 novembre, deducendo la responsabilità dell’ASL Roma C per averle imposto dei turni massacranti il giorno dell’infortunio e quello precedente, e chiedendo la sua condanna al risarcimento del danno biologico, esistenziale e morale; l’ASL, costituitasi in giudizio, aveva eccepito il difetto di giurisdizione, la prescrizione dei crediti azionati e l’infondatezza della pretesa avversaria per mancanza del nesso di causalità, spiegando comunque domanda di manleva nei confronti della compagnia assicuratrice.
3.2.- In punto di rilevanza, il rimettente deduce di dovere fare applicazione dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, che ha sostituito in termini non innovativi l’art. 45, comma 17, del d.lgs. n. 80 del 1998, poiché il sinistro stradale è avvenuto il 2 luglio 1997, mentre la domanda con cui la ricorrente ha manifestato per la prima volta la sua pretesa risarcitoria è dell’8 luglio 2002, ben oltre il termine di decadenza del 15 settembre 2000.
3.3.- Nel merito, il TAR Lazio ripete le medesime argomentazioni in diritto sviluppate dall’ordinanza di rimessione delle sezioni unite della Corte di cassazione.
3.4.- Con memoria depositata nella cancelleria di questa Corte il 5 gennaio 2017, si è costituita A. N., ricorrente nel giudizio a quo.
3.5.- In punto di rilevanza, sarebbe evidente, secondo la parte interveniente, che una pronuncia di illegittimità costituzionale della disposizione censurata le consentirebbe di proseguire il giudizio originariamente instaurato presso il giudice ordinario e poi traslato davanti a quello amministrativo.
3.6.- Nel merito, la parte privata ripete le medesime argomentazioni in diritto sviluppate dalle ordinanze di rimessione del TAR Lazio e delle sezioni unite civili della Corte di cassazione.
Considerato in diritto
1.- Le sezioni unite civili della Corte di cassazione hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), «nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30.06.98 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000», deducendo la violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione ai parametri interposti dell’art. 6, paragrafo I, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa.
La disposizione censurata prevede che «Sono attribuite al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie di cui all’art. 63 del presente decreto, relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998. Le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore a tale data restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000».
Osserva il rimettente che, in ordine alle controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 iniziate dopo il 15 settembre 2000, si era formato, in principio, un orientamento giurisprudenziale secondo cui esse spettavano alla giurisdizione del giudice ordinario; nel tempo, tuttavia, era prevalso un diverso orientamento sia della Corte di cassazione sia del Consiglio di Stato (avallato dalla Corte costituzionale) che ricollega alla scadenza del termine la radicale impossibilità di fare valere il diritto dinanzi ad un giudice.
La norma censurata, interpretata in questo modo, violerebbe il diritto di accesso a un tribunale, tutelato dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, e il divieto di interferenze illegittime con la proprietà privata posto dall’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione, come emergerebbe dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo Mottola contro Italia e Staibano ed altri contro Italia del 4 febbraio 2014 (d’ora in avanti: le sentenze Mottola e Staibano), secondo cui la decadenza in questione porrebbe «un ostacolo procedurale che costituisce una sostanziale negazione del diritto invocato» ed escluderebbe «un giusto equilibrio tra interessi pubblici e privati in gioco».
2.- Richiamando l’ordinanza di rimessione delle sezioni unite della Corte di cassazione e ricalcandone la motivazione, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio e il Tribunale amministrativo regionale per la Campania hanno sollevato questione di legittimità costituzionale della stessa disposizione.
Mentre l’ordinanza del primo, tuttavia, reca un identico petitum e gli stessi parametri interposti della questione sollevata dalle sezioni unite, il secondo censura l’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, «nella parte in cui non consente di proporre al G.O. senza incorrere in decadenza, dopo il 15/9/2000, l’azione relativa ai fatti connessi al rapporto di impiego anteriori al 30/6/1998», e solo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.
3.- In considerazione della parziale identità di oggetto e dei parametri evocati, nonché delle argomentazioni addotte a sostegno della loro violazione, i giudizi vanno riuniti per essere decisi congiuntamente.
4.- In via preliminare deve essere dichiarata la inammissibilità della costituzione delle parti private M.C. P. e G. R. nel giudizio iscritto al registro ordinanze n. 107 del 2016.
Essa, infatti, è intervenuta in data 9 novembre 2017, oltre il termine perentorio stabilito dall’art. 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, ossia venti giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza nella Gazzetta Ufficiale (tra le molte, sentenze n. 102 del 2016, n. 220 e n. 128 del 2014; ordinanza allegata alla sentenza n. 173 del 2016), avvenuta, nel caso di specie, il 1° giugno 2016.
5.- La questione di legittimità costituzionale sollevata dalle sezioni unite della Corte di cassazione è inammissibile.
6.- Il rimettente, in punto di motivazione sulla rilevanza, ricorda che è principio consolidato nella propria giurisprudenza che il sindacato esercitato dalla Corte di cassazione sulle decisioni rese dal Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 362, primo comma, del codice di procedura civile e dell’art. 110 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), è consentito solo ove si richieda l’accertamento dell’eventuale sconfinamento dai limiti esterni della giurisdizione, per il riscontro di vizi che riguardano l’essenza della funzione giurisdizionale e non il modo del suo esercizio, restando, invece, escluso ogni sindacato sui limiti interni, cui attengono gli errores in iudicando o in procedendo.
Secondo questo orientamento, pertanto, i motivi deducibili in questa sede riguarderebbero solo le ipotesi in cui si prospetti la violazione dell’ambito della giurisdizione in generale – per essere stata esercitata nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, oppure, al contrario negata sull’erroneo presupposto che la domanda non possa formare oggetto in modo assoluto di funzione giurisdizionale (cosiddetto rifiuto di giurisdizione) – o l’aver pronunciato su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, oppure l’aver negato la propria giurisdizione nell’erroneo convincimento che appartenga ad altro giudice (cosiddetto diniego di giurisdizione).
Il rimettente, tuttavia, aggiunge che (negli ultimi anni) si è andato affermando nella sua giurisprudenza una interpretazione “evolutiva” e “dinamica” del concetto di giurisdizione, che gli consentirebbe di sindacare non solo le norme che individuano «i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale», ma anche quelle che stabiliscono «le forme di tutela» attraverso cui la giurisdizione si estrinseca.
Questo concetto lato di giurisdizione sarebbe stato utilizzato per cassare una sentenza del Consiglio di Stato che aveva interpretato le norme di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione europea, per come acclarato da una pronuncia della Corte di giustizia successivamente intervenuta.
Il caso di specie sarebbe analogo a quest’ultimo, con la particolarità che, trattandosi di norme convenzionali, solo sollevando la questione di costituzionalità si eviterebbe che la sentenza gravata esplichi effetti contrastanti con le norme sovranazionali cui lo Stato italiano è tenuto a dare applicazione.
Ad avviso del rimettente, la situazione in esame rientrerebbe, inoltre, in uno di quei casi estremi in cui il giudice amministrativo adotta una decisione «anomala o abnorme», omettendo l’esercizio del potere giurisdizionale per errores in iudicando o in procedendo che danno luogo al superamento dei limiti esterni e diventano sindacabili per motivi inerenti alla giurisdizione.
7.- Il Policlinico dell’Università degli studi di Napoli Federico II (d’ora in avanti: l’Università di Napoli) e l’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS) hanno eccepito, invece, il difetto di rilevanza della questione sollevata, perché il ricorso per motivi inerenti alla giurisdizione celerebbe, in realtà, un inammissibile ricorso per violazione di legge, non sindacabile dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 111, settimo ed ottavo comma, Cost.: i ricorrenti non avrebbero inteso ottenere dalle sezioni unite una statuizione sulla giurisdizione quanto, piuttosto, un ulteriore grado di giudizio, censurando un asserito error in iudicando.
L’estensione del concetto di limite esterno in chiave “dinamica” e di effettività della tutela giurisdizionale operata dal rimettente non sarebbe condivisibile, anche alla luce del costante orientamento della stessa Corte di cassazione, secondo cui l’evoluzione del concetto di giurisdizione non giustifica il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 111, ottavo comma, Cost., quando, come nella specie, non si verta in ipotesi di aprioristico diniego di giurisdizione, ma la tutela si assuma negata dal giudice speciale in conseguenza di errori di giudizio commessi in relazione allo specifico caso sottoposto al suo esame.
Secondo l’INPS, poi, non sarebbe comunque configurabile, nel caso di specie, una decisione «anomala o abnorme».
8.- Questa Corte è dunque chiamata a verificare, su specifica eccezione delle parti costituite nel giudizio incidentale, l’affermazione delle sezioni unite (come organo regolatore della giurisdizione e non nell’esercizio della funzione nomofilattica) circa la sussistenza di un motivo di ricorso inerente alla giurisdizione, quale presupposto della legittima instaurazione del giudizio a quo.
9.- La verifica deve essere operata tenendo presente che nella specie non si tratta di un’ordinaria questione di giurisdizione, avente ad oggetto la natura della situazione giuridica soggettiva azionata, ma l’interpretazione ed applicazione di norme costituzionali, e in particolare del comma ottavo dell’art. 111 Cost.
La questione rientra, dunque, nella competenza naturale di questa Corte, quale interprete ultimo delle norme costituzionali e – nella specie – di quelle che regolano i confini e l’assetto complessivo dei plessi giurisdizionali.
10.- L’eccezione è fondata.
11.- La tesi che il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, previsto dall’ottavo comma dell’art. 111 Cost. avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, comprenda anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando non può qualificarsi come una interpretazione evolutiva, poiché non è compatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale.
Quest’ultima attinge il suo significato e il suo valore dalla contrapposizione con il precedente comma settimo, che prevede il generale ricorso in cassazione per violazione di legge contro le sentenze degli altri giudici, contrapposizione evidenziata dalla specificazione che il ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti è ammesso per i «soli» motivi inerenti alla giurisdizione.
Ne consegue che deve ritenersi inammissibile ogni interpretazione di tali motivi che, sconfinando dal loro ambito tradizionale, comporti una più o meno completa assimilazione dei due tipi di ricorso.
In una prospettiva di sistema, poi, la ricostruzione operata dal rimettente, parificando i due rimedi, mette in discussione la scelta di fondo dei Costituenti dell’assetto pluralistico delle giurisdizioni.
12.- La corretta interpretazione dell’art. 111, ottavo comma, Cost. e il suo ruolo determinante, ai fini della posizione costituzionale del giudice amministrativo e di quello contabile nel concerto delle giurisdizioni, sono stati messi chiaramente in luce da questa Corte.
Con la sentenza n. 204 del 2004 si è infatti rilevato che l’unità funzionale non implica unità organica delle giurisdizioni, e che i Costituenti hanno ritenuto di dover tener fermo l’assetto precostituzionale, assetto che vedeva attribuita al giudice amministrativo la cognizione degli interessi legittimi e, nei casi di giurisdizione esclusiva, dei diritti soggettivi ad essi inestricabilmente connessi.
Nella stessa sentenza si è osservato come dai lavori dell’Assemblea Costituente emerga chiaramente che ciò comporta l’esclusione della «soggezione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti al controllo di legittimità della Corte di cassazione» e la sua limitazione «al solo “eccesso di potere giudiziario”, coerentemente alla “unità non organica, ma funzionale di giurisdizione, che non esclude, anzi implica, una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé” (così Mortati, seduta pomeridiana del 27 novembre 1947)».
Con la sentenza n. 77 del 2007, poi, occupandosi della translatio iudicii, questa Corte ha aggiunto che «perfino il supremo organo regolatore della giurisdizione, la Corte di cassazione, con la sua pronuncia può soltanto, a norma dell’art. 111, comma ottavo, Cost., vincolare il Consiglio di Stato e la Corte dei conti a ritenersi legittimati a decidere la controversia, ma certamente non può vincolarli sotto alcun profilo quanto al contenuto (di merito o di rito) di tale decisione».
13.- Di tutto ciò è consapevole anche la giurisprudenza maggioritaria delle stesse sezioni unite, la quale continua ad affermare che «Il cattivo esercizio della propria giurisdizione da parte del giudice, che provveda perché investito di essa e, dunque, ritenendo esistente la propria giurisdizione e, tuttavia, nell’esercitarla, applichi regole di giudizio che lo portino a negare tutela alla situazione giuridica azionata, si risolve soltanto nell’ipotetica commissione di un errore all’interno di essa»; e che, «poiché la distinzione fra la giurisdizione ordinaria e le giurisdizioni speciali ha come implicazione necessaria che ciascuna giurisdizione si eserciti con l’attribuzione all’organo di vertice interno al plesso giurisdizionale del controllo e della statuizione finale sulla correttezza in iure ed in facto di tutte le valutazioni che sono necessarie per decidere sulla controversia, salvo quelle che implichino negazione astratta della tutela giurisdizionale davanti alla giurisdizione speciale ed a qualsiasi giurisdizione (rifiuto) oppure alla negazione della giurisdizione accompagnino l’indicazione di altra giurisdizione (diniego), non è possibile prospettare che, fuori di tali due casi, il modo in cui tale controllo viene esercitato dall’organo di vertice della giurisdizione speciale, se anche si sia risolto in concreto nel negare erroneamente tutele alla situazione giuridica azionata, sia suscettibile di controllo da parte delle Sezioni Unite» (Corte di cassazione, sezioni unite, 6 giugno 2017, n. 13976; nello stesso senso, tra le più recenti, sezioni unite, 19 settembre 2017, n. 21617; 29 marzo 2017, n. 8117).
14.- L’opposto filone giurisprudenziale, del resto, argomenta la sua tesi sulla base di considerazioni che sono o prive di fondamento o estranee ad una questione qualificabile come propriamente di giurisdizione, e cioè richiamando princìpi fondamentali quali la primazia del diritto comunitario, l’effettività della tutela, il giusto processo e l’unità funzionale della giurisdizione.
Privo di fondamento è il riferimento a quest’ultimo principio, attese le opposte conclusioni – già evidenziate – cui è giunta questa Corte circa la non coincidenza fra unità funzionale e unità organica.
Quanto all’effettività della tutela e al giusto processo, non c’è dubbio che essi vadano garantiti, ma a cura degli organi giurisdizionali a ciò deputati dalla Costituzione e non in sede di controllo sulla giurisdizione.
Né l’allargamento del concetto di giurisdizione può essere giustificato dalla presunta eccessiva espansione delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, poiché esse, come è noto, sono state da questa Corte contenute nei limiti tracciati dalla Costituzione (sentenze n. 191 del 2006 e n. 204 del 2004); d’altro canto, «è la stessa Carta costituzionale a prevedere che siano sottratte al vaglio di legittimità della Corte di cassazione le pronunce che investono i diritti soggettivi nei confronti dei quali, nel rispetto della “particolarità” della materia nel senso sopra chiarito, il legislatore ordinario prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo» (sentenza n. 204 del 2004).
14.1.- L’intervento delle sezioni unite, in sede di controllo di giurisdizione, nemmeno può essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della CEDU, non essendo peraltro chiaro, nell’ordinanza di rimessione e nella stessa giurisprudenza ivi richiamata, se ciò valga sempre ovvero solo in presenza di una sentenza sopravvenuta della Corte di giustizia o della Corte di Strasburgo. In ogni caso, ancora una volta, viene ricondotto al controllo di giurisdizione un motivo di illegittimità (sia pure particolarmente qualificata), motivo sulla cui estraneità all’istituto in esame non è il caso di tornare.
Rimane il fatto che, specialmente nell’ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste, ma deve trovare la sua soluzione all’interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all’art. 395 cod. proc. civ., come auspicato da questa Corte con riferimento alle sentenze della Corte EDU (sentenza n. 123 del 2017).
15.- L’«eccesso di potere giudiziario», denunziabile con il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, come è sempre stato inteso, sia prima che dopo l’avvento della Costituzione, va riferito, dunque, alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici.
16.- Il concetto di controllo di giurisdizione, così delineato nei termini puntuali che ad esso sono propri, non ammette soluzioni intermedie, come quella pure proposta nell’ordinanza di rimessione, secondo cui la lettura estensiva dovrebbe essere limitata ai casi in cui si sia in presenza di sentenze “abnormi” o “anomale” ovvero di uno “stravolgimento”, a volte definito radicale, delle “norme di riferimento”.
Attribuire rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio è, sul piano teorico, incompatibile con la definizione degli ambiti di competenza e, sul piano fattuale, foriero di incertezze, in quanto affidato a valutazioni contingenti e soggettive.
17.- Alla stregua del così precisato ambito di controllo sui “limiti esterni” alla giurisdizione non è consentita la censura di sentenze con le quali il giudice amministrativo o contabile adotti una interpretazione di una norma processuale o sostanziale tale da impedire la piena conoscibilità del merito della domanda.
Ne consegue, nel caso di specie, l’inammissibilità della questione sollevata per difetto di rilevanza, in ragione della mancanza di legittimazione del giudice a quo.
18.- Anche la questione di legittimità costituzionale sollevata dal TAR Campania è inammissibile.
A differenza della Corte di cassazione, il Tribunale amministrativo non invoca un’ablazione (parziale) della disposizione censurata, ma una pronuncia additiva che attribuisca al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie relative al rapporto di pubblico impiego (anche) per fatti anteriori al 30 giugno 1998 proposte dopo il 15 settembre del 2000.
Il rimettente, tuttavia, nel motivare le ragioni della richiesta, si limita ad affermare che essa sarebbe in linea con la finalità di concentrazione avanti ad un unico giudice – finalità sottesa alla riforma recata dal d.lgs. n. 165 del 2001 – e con la esigenza di non coinvolgere troppo a lungo il giudice amministrativo in una giurisdizione ormai perduta.
La scarna motivazione nulla dice sul perché l’addizione invocata sia considerata costituzionalmente obbligata, specie ove si consideri che la giurisdizione che si vorrebbe attribuire al giudice ordinario riguarderebbe anche fatti relativi al rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione per il periodo anteriore all’entrata in vigore del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione della organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), quando, cioè, quel rapporto era ancora pienamente pubblicistico e quindi notoriamente contrassegnato anche e soprattutto da posizioni di interesse legittimo, che così verrebbero distratte dal giudice naturale, che è quello amministrativo (sentenza n. 140 del 2007).
19.- La questione di costituzionalità sollevata dal TAR Lazio non è fondata.
20.- L’assunto da cui muove il rimettente, secondo cui l’art. 69, comma 7, nel prevedere la decadenza dall’azione, si pone in contrasto con i parametri interposti, come acclarato dalle sentenze Mottola e Staibano, e, per questa via, con l’art. 117, primo comma, Cost., non è corretto.
20.1.- Come già rilevato da questa Corte, le sentenze della Corte EDU «hanno accertato, in primo luogo, la violazione del diritto dei ricorrenti all’equo processo, non essendo stato loro consentito, in concreto, di accedere a un tribunale, dal momento che il termine dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, prima interpretato dalla giurisprudenza come termine di proponibilità dell’azione davanti al giudice amministrativo con salvezza di azione davanti al giudice ordinario, è stato poi ritenuto termine di decadenza sostanziale. Secondo la Corte EDU, il mutamento di indirizzo giurisprudenziale (e non il termine previsto dalla norma, “finalizzato alla buona amministrazione della giustizia” e “in sé non eccessivamente breve”) ha impedito ai ricorrenti di ottenere tutela, nonostante avessero “adito i tribunali amministrativi in completa buona fede e sulla base di un’interpretazione plausibile delle norme sulla ripartizione delle competenze”» (sentenza n. 123 del 2017).
Sempre secondo la Corte di Strasburgo, in base a quest’ultima interpretazione – secondo cui l’art. 69, comma 7, non pone una decadenza dall’azione ma è un mero spartiacque temporale tra le giurisdizioni – i ricorrenti che avessero adito erroneamente il giudice amministrativo avrebbero potuto «riassumere» o proseguire il giudizio davanti al giudice ordinario; a seguito di un «mutamento giurisprudenziale», tuttavia, il Consiglio di Stato avrebbe impedito ai ricorrenti «di godere di questa importante tutela».
20.2.- Non è inopportuno rilevare, innanzitutto, come una più completa ricostruzione del panorama giurisprudenziale interno possa far dubitare che nel caso che ha dato origine alle sentenze Mottola e Staibano vi sia stata davvero la “sorpresa” della buona fede dei ricorrenti su cui esse poggiano.
Le pronunce in questione sembrano ignorare, infatti, che la giurisprudenza della Corte di cassazione, quanto meno dal 2001 (sezioni unite civili, 27 marzo 2001, n. 139; 4 giugno 2002, n. 8089; 30 gennaio 2003, n. 1511; 3 maggio 2005, n. 9101; 3 novembre 2005, n. 21289; 27 febbraio 2013, n. 4846; 30 settembre 2014, n. 20566), afferma che l’art. 69, comma 7, non pone una questione di riparto di giurisdizione ma di decadenza dall’azione, con la conseguenza che il giudice regolatore della giurisdizione ha sempre escluso la cognizione del giudice ordinario sulle controversie in esame.
Tale incompleta ricostruzione del quadro giurisprudenziale interno sarebbe dovuta, secondo l’Università di Napoli, che lamenta di non aver potuto prendere parte al processo convenzionale, ad una carente esposizione dei fatti ad opera dello Stato italiano, unica parte (oltre ai ricorrenti) nel giudizio davanti alla Corte EDU (il serio problema della mancata partecipazione dei terzi a tale giudizio è già stato messo in luce da questa Corte con la citata sentenza n. 123 del 2017).
20.3.- In ogni caso, quello che non è in discussione nelle sentenze della Corte EDU è la coerenza della norma censurata dai rimettenti con i parametri convenzionali, poiché essa, di per sé, fissa un termine ispirato ad una finalità legittima e (più che) ragionevole, il che, evidentemente, esclude anche la sua illegittimità costituzionale.
Del resto, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, sollevate sulla base di diversi parametri interni – nella sostanza coincidenti con quelli convenzionali invocati dal rimettente – sono state sempre rigettate da questa Corte (ordinanze n. 197 del 2006, n. 328 e n. 213 del 2005, n. 214 del 2004).
L’assunto da cui muove la Corte EDU – e cioè l’effetto sorpresa derivante dal mutamento giurisprudenziale nell’interpretazione della norma – potrebbe condurre, semmai, sussistendone i presupposti, all’applicazione dell’istituto della rimessione in termini per errore scusabile, attualmente disciplinato dall’art. 37 del d.lgs. n. 104 del 2010, ai sensi del quale «il giudice può disporre anche d’ufficio la rimessione in termini in presenza di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto o di gravi impedimenti di fatto».
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 dicembre 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giancarlo CORAGGIO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere