Corte di Cassazione, Sezioni Unite civile Sentenza 20 gennaio 2017, n. 1545
L’amministratore unico o il consigliere d’amministrazione di una societa’ per azioni sono legati da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non e’ compreso in quelli previsti dall’articolo 409 c.p.c., n. 3. Ne deriva che i compensi spettanti ai predetti soggetti per le funzioni svolte in ambito societario sono pignorabili senza i limiti previsti dall’articolo 545 c.p.c., comma 4.
Integrale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f.
Dott. DI AMATO Sergio – Presidente di Sezione
Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sezione
Dott. SPIRITO Angelo – rel. Presidente di Sezione
Dott. CURZIO Pietro – Presidente di Sezione
Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente di Sezione
Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente di Sezione
Dott. BERNABAI Renato – Consigliere
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 12055/2014 proposto da:
(OMISSIS) S.C., elettivamente domiciliata in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), per delega in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende, per delega a margine del controricorso;
– controricorrente –
contro
(OMISSIS), (OMISSIS) S.P.A.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1688/2013 del TRIBUNALE di ANCONA, depositata il 15/11/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/09/2016 dal Presidente Dott. ANGELO SPIRITO;
uditi gli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS);
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTO E DIRITTO
1. – Il quesito ed il fatto.
Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite consiste nello stabilire se il rapporto tra la societa’ per azioni ed il suo amministratore sia qualificabile come di lavoro parasubordinato od autonomo (ovvero estraneo a tale ambito) e, di conseguenza, stabilire se il limite di pignorabilita’ degli stipendi previsto dall’articolo 545 c.p.c., comma 4, sia applicabile ai compensi o agli emolumenti dell’amministratore stesso.
In particolare, all’esito dell’espropriazione presso terzi intentata dalla (OMISSIS) nei confronti del debitore (OMISSIS) e dei suoi debitori (OMISSIS) spa e (OMISSIS) spa, il giudice dell’esecuzione del Tribunale di Ancona assegno’ al procedente l’intera somma accantonata dai terzi a titolo di emolumenti per l’attivita’, qualificata di lavoro autonomo, di amministratore della prima societa’ e di componente del consiglio di amministrazione della seconda. Il debitore propose opposizione avverso l’ordinanza di assegnazione, contrastando, tra l’altro e per quel che ancora rileva, la qualificazione della propria attivita’, che sostenne doversi ricondurre nell’ambito d’applicazione dell’articolo 409 c.p.c., n. 3, con conseguente limitazione della pignorabilita’ ad un solo quinto del totale.
L’opposizione fu accolta dal Tribunale di Ancona che, pur rilevando il contrasto giurisprudenziale sul tema, qualifico’ l’attivita’ in questione come lavoro parasubordinato, la sussunse entro l’articolo 409 c.p.c., n. 3, e qualifico’ impignorabili oltre il limite del quinto i relativi compensi; inoltre, provvide a revocare l’ordinanza d’assegnazione impugnata e limito’ l’assegnazione ad un quinto di quanto i terzi pignorati avevano accantonato.
La creditrice (OMISSIS) ha proposto ricorso per la cassazione di quella sentenza (resa ai sensi dell’articolo 281 sexies c.p.c.) attraverso cinque motivi. Ha resistito con controricorso la (OMISSIS) spa, che ha anche depositato memoria. Il debitore intimato non s’e’ difeso. Con ordinanza interlocutoria n. 3738 del 4 dicembre 2015, la terza sezione civile di questa Corte ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. In particolare, ha posto in risalto che la questione in se’ (quella relativa alla limitata, o meno, pignorabilita’ dei crediti dei quali si discute) ha natura di massima di particolare importanza che, a sua volta, fonda sull’ineludibile soluzione del contrasto giurisprudenziale formatosi intorno al presupposto logico giuridico costituito dalla natura para-subordinata o meno del rapporto del quale si discute.
Il Primo Presidente ha, dunque, assegnato la causa al giudizio di queste Sezioni Unite.
2 – I motivi di ricorso.
Il primo motivo di ricorso (“violazione e falsa applicazione degli articoli 158 e 618 c.p.c., e articolo 186 bis disp. att. c.p.c.”, in rel. all’articolo 360 c.p.c., n. 4) sostiene che il giudice dell’esecuzione era privo del potere di trattare la fase di merito, essendo il suo potere limitato (in forza della novella di cui alla L. n. 52 del 2006,) ai soli provvedimenti indilazionabili. Peraltro – si aggiunge – l’articolo 186 bis disp. att. c.p.c., ha espressamente disposto che il giudizio di merito ex articolo 618 c.p.c., sia trattato da magistrato diverso da quello che ha conosciuto degli atti avverso i quali e’ proposta opposizione.
Il secondo motivo (“violazione e falsa applicazione articoli 618 e 183 c.p.c., articoli 24 e 111 Cost., in rel. all’articolo 360 c.p.c., n. 4”) sostiene che il giudice dell’esecuzione avrebbe precluso il pieno esercizio del diritto alla prova, avendo omesso di concedere alcun termine istruttorio, cosi’ da consentire all’opponente di fornire adeguata prova del carattere concretamente para-subordinato della propria attivita’ nelle societa’ in questione ed all’opposta di fornire la prova contraria.
Il terzo motivo (“violazione e falsa applicazione articolo 115 c.p.c., per omesso accertamento della parasubordinazione in concreto” in rel. all’articolo 360 c.p.c., n. 5) lamenta che il giudice abbia omesso di accertare in concreto il grado di eventuale subordinazione, soprattutto nella considerazione che il debitore svolgeva la medesima attivita’ contemporaneamente presso diversi enti.
Il quarto motivo (“violazione e falsa applicazione articolo 409 c.p.c., n. 3, e articolo 2380 bis c.c., in relazione alla qualifica parasubordinata dell’attivita’ dell’amministratore di societa’ per azioni” in re. all’articolo 360 c.p.c., n. 3), dato atto del contrasto di giurisprudenza in tema di identificabilita’ dell’attivita’ parasubordinata in quella dell’amministratore di societa’ per azioni, sostiene che occorre aderire a quello che l’esclude, in considerazione della mancanza delle caratteristiche della continuita’ e della coordinazione.
Il quinto motivo (“violazione e falsa applicazione dell’articolo 545 c.p.c., in relazione alle ipotesi di attivita’ di parasubordinazione” in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 3) deduce che, anche a voler aderire all’orientamento che qualifica come parasubordinato il rapporto intercorrente tra amministratore e societa’ per azioni, l’ambito d’operativita’ dell’articolo 545 c.p.c., commi 3 e 4, non potrebbe comunque estendersi a tali rapporti parasubordinati, dovendo limitarsene l’applicazione ai soli stipendi e salari derivanti dai rapporti di lavoro subordinato.
2.1 – La risposta ai motivi primo, secondo e quinto.
Al fine di concentrare la trattazione intorno al tema fondamentale sottoposto alla soluzione delle S.U., conviene immediatamente sgombrare il campo dai motivi primo, secondo e quinto, che sono tutti infondati.
Quanto al primo, basta ricordare e ribadire il consolidato principio secondo cui la violazione dell’obbligo di astensione, previsto dall’articolo 186 bis disp. att. c.p.c., per il giudice dell’esecuzione che abbia conosciuto degli atti avverso i quali e’ proposta opposizione, e’ deducibile solo con lo strumento della ricusazione, ai sensi dell’articolo 52 c.p.c., e non in sede di impugnazione come motivo di nullita’ della sentenza emessa dal giudice che avrebbe dovuto astenersi (cfr. Cass. n. 22854/14).
Quanto al secondo, occorre osservare che nella specie sono stati concessi termini a difesa, in grado di tutelare adeguatamente i diritti delle parti.
Quanto al quinto, infine, va ribadita l’estensione del regime di limitata pignorabilita’ di cui all’articolo 545 c.p.c., alle ipotesi di parasubordinazione, come gia’ affermato da Cass. n. 685/12, secondo la quale, appunto, le modifiche apportate dalle L. 12 marzo 2004, n. 311, e L. 14 maggio 2005, n. 80 (di conversione del Decreto Legge 14 marzo 2005, n. 35) al Decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1950, n. 180 (“Approvazione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni”) hanno comportato la totale estensione al settore del lavoro privato delle disposizioni originariamente dettate per il lavoro pubblico, sicche’ i crediti derivanti dai rapporti di cui all’articolo 409 c.p.c., n. 3, sono pignorabili nei limiti di un quinto, previsto dall’articolo 545 c.p.c.. Restano, dunque, da delibare i motivi terzo e quarto, che involgono la natura parasubordinata o meno del rapporto tra societa’ per azioni e loro amministratori, ai fini della applicabilita’ o meno, ai compensi di questi ultimi, dei limiti o benefici d’impignorabilita’ previsti per gli stipendi dall’articolo 545 c.p.c..
3 – La soluzione del quesito: premessa.
Il Decreto del Presidente della Repubblica n. 180 del 1950, contenente l’approvazione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni, modificato dalla L. n. 311 del 2004, e dalla L. n. 80 del 2005, di conversione del Decreto Legge n. 35 del 2005, all’articolo 2, cosi’ recita:
“Gli stipendi, i salari e le retribuzioni equivalenti, nonche’ le pensioni, le indennita’ che tengono luogo di pensione e gli altri assegni di quiescenza corrisposti dallo stato e dagli altri enti, aziende ed imprese indicati nell’articolo 1, sono soggetti a sequestro ed a pignoramento nei seguenti limiti: 1)….; 2) fino alla concorrenza di un quinto valutato al netto di ritenute, per debiti verso lo stato e verso gli altri enti, aziende ed imprese da cui il debitore dipende, derivanti dal rapporto d’impiego o di lavoro”.
L’articolo 52, comma 3, dello stesso decreto, introdotto dalla citata legge di modifica n. 80 del 2005, prevede poi che i compensi corrisposti a soggetti titolari dei rapporti di lavoro di cui all’articolo 409 c.p.c., n. 3, sono sequestrabili e pignorabili nei limiti di cui all’articolo 545 c.p.c..
L’articolo 545 c.p.c., statuisce che: “Le somme dovute da privati a titolo di stipendio, di salario.., possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato… ed in eguale misura per ogni altro credito”.
Le modifiche apportate dalle L. n. 311 del 2004, e L. n. 80 del 2005, al Decreto del Presidente della Repubblica n. 180 del 1950, hanno comportato la totale estensione al settore del lavoro privato delle disposizioni originariamente dettate solo per il lavoro pubblico (in tal senso, cfr. Cass. n. 4465/11). In conseguenza di tale equiparazione la gia’ citata Cass. n. 685/12 ha affermato che anche ai rapporti di lavoro privato riconducibili all’articolo 409 c.p.c., n. 3, debbano trovare applicazione i limiti di pignorabilita’ di cui all’articolo 545 c.p.c., comma 4; limiti pacificamente non estendibili anche ai corrispettivi per i contratti di lavoro autonomo o d’opera professionali.
Da qui la rilevanza della questione della riconducibilita’ dei compensi percepiti dagli amministratori ad emolumenti che trovino origine in un rapporto di lavoro parasubordinato, di lavoro autonomo o di opera professionale oppure ad un rapporto di altra natura e la conseguente necessita’ di risolvere il contrasto di giurisprudenza formatosi intorno alla natura del rapporto che si instaura tra la societa’ per azioni ed il proprio amministratore.
3.1 – La natura del rapporto che lega la societa’ per azioni ed il suo amministratore. La dottrina.
Giova premettere rapidissimi cenni circa le posizioni dottrinarie sul tema, visto che la giurisprudenza ne ha in qualche modo risentito gli echi, diversificandosi in ragione delle diverse teorie di volta in volta accolte, oppure tentando il connubio tra esse.
In estrema sintesi, sono identificabili due diversi orientamenti: 1) la teoria cd. contrattualistica, che individua la presenza di un vero e proprio contratto che legherebbe due soggetti distinti, l’amministratore da un lato, la societa’ dall’altro, ciascuno autonomo centro di interessi, spesso anche contrapposti; 2) la teoria cd. organica, secondo cui, al contrario, mancherebbe ogni dualita’, configurandosi solo un’immedesimazione dell’organo nella persona giuridica che rappresenta, senza possibilita’ di un regolamento negoziale interno, fonte di reciproci diritti e obblighi.
E’ ovvio che la prima apre la strada alla configurabilita’ di un rapporto parasubordinato tra i due soggetti distinti costituiti dalla societa’ ed il suo amministratore, mentre la seconda conduce ad escluderlo in forza dell’indistinguibilita’ dei due.
Piu’ in dettaglio, poi, possono essere individuate nell’ambito della teoria cd. contrattualistica (la quale, come s’e’ visto, fa derivare il conferimento del potere rappresentativo all’amministratore non dalla legge o dallo statuto, bensi’ dal regolamento negoziale, con la conseguente negazione dell’immedesimazione organica): a) la tesi di coloro i quali hanno ravvisato un negozio sui generis, tipico di amministrazione, non riconducibile ad alcuna tipologia nota, ma assimilabile di volta in volta a questo o quel contratto (di mandato, d’opera, di lavoro subordinato, ecc.), senza tuttavia identificarsi in alcuno, salvo far riferimento alle rispettive, compatibili discipline; b) l’antica teoria che assimila la figura dell’amministratore a quella del mandatario, della quale ha ormai fatto giustizia il riformato testo dell’articolo 2392 c.c., nel quale e’ stato eliminato il richiamo alla “diligenza del mandatario” di cui all’articolo 1710 c.c.; c) la teoria piu’ isolata che vede nell’amministratore un lavoratore subordinato della societa’ (diversa da quella che ammette la possibilita’ di cumulare il rapporto di amministrazione con quello di lavoratore subordinato), in base alla quale il rapporto di amministrazione sarebbe esso stesso da ricondurre ad un rapporto di lavoro subordinato, con l’assemblea che ne ha il potere di nomina e revoca (quindi, di costituire ed estinguere il rapporto) nonche’ quello direttivo e di controllo (esercitato unitamente al collegio sindacale) e l’amministratore, dal suo canto, con i suoi doveri di fedelta’ e di collaborazione che si manifestano principalmente nell’obbligo di non concorrenza, di cui all’articolo 2390 c.c., e nel diritto al compenso; d) la teoria che riconduce l’amministratore alla figura del prestatore d’opera professionale finalizzata a far conseguire un profitto alla societa’, con assunzione di responsabilita’ ed impiego di tempo ed energie lavorative; e) la teoria, infine, che riconduce il rapporto d’amministrazione alla fattispecie della parasubordinazione (che, come vedremo in seguito, e’ stata accolta da una pronunzia delle S.U. del 1994), configurando un rapporto negoziale autonomo tra amministratore e societa’, dal contenuto fissato dalla legge e dallo statuto, superando definitivamente l’idea di un’immedesimazione organica assoluta che avrebbe impedito il dualismo e la contrapposizione di interessi e costringendo il rapporto di amministrazione nell’area dei rapporti intrasoggettivi.
A fronte di quella finora sinteticamente descritta v’e’, invece, la cd. teoria organica, per la quale gli amministratori rappresentano un organo necessario per l’operativita’ della societa’, secondo una precisa scelta del legislatore che ne ha regolato la struttura in modo tale da escludere che il loro rapporto possa operare secondo le regole della rappresentanza ordinaria. La configurazione non contrattuale del rapporto societa’ – amministratori incide poi sulla ricostruzione della fonte dei loro poteri: gli amministratori risulterebbero titolari dei poteri gestori in via originaria, in quanto organi necessari per il funzionamento e la realizzazione del contratto sociale, analogamente ai poteri dell’assemblea dei soci, con cui vi sarebbe una semplice convivenza, senza alcuna possibilita’ di sovrapposizione o limitazione. I poteri degli amministratori derivando direttamente dalla legge sono dunque autonomi, non avocabili, ne’ disponibili, ne’ limitabili ad opera dell’assemblea dei soci a cui spetta solo di designare il titolare di prerogative gestorie gia’ determinate. Ulteriore corollario del rapporto organico e’ quello della immedesimazione organica dell’amministratore nella societa’ stessa, e quindi l’inesistenza di due contrapposti ed autonomi centri di interesse tra i quali instaurare non solo un rapporto contrattuale ma un qualsiasi rapporto intersoggettivo, data l’impossibilita’ di una diversificazione di posizioni contrapposte e l’inesistenza di separazione tra funzione gestoria e funzione esecutiva sottoponibile a verifica, controllo o disciplina.
La natura di organo riconosciuta all’amministratore diviene dunque il principale ostacolo giuridico alla configurabilita’ di qualsivoglia rapporto di natura patrimoniale tra la persona fisica e la societa’, a causa della mancanza di due distinti centri di interessi e di volonta’, non solo nella fase genetica del rapporto, ma anche e soprattutto nella fase del suo svolgimento.
3.2 – Lo stato della giurisprudenza. La sentenza a S.U. del 1994 ed i suoi precedenti.
Il contrasto giurisprudenziale sul tema (che, come s’e’ detto, e’ stato riscontrato sia dalla sentenza oggi impugnata, sia dall’ordinanza interlocutoria di rimessione alle S.U.) e’ diretta conseguenza della variegata elaborazione dottrinale finora descritta e si puo’ definire endemico alla giurisprudenza di legittimita’.
Le molteplici pronunzie susseguitesi sin dagli anni ‘80 del secolo scorso (tutte rese per fini diversi da quelli che oggi ci riguardano e, soprattutto, per risolvere problemi di competenza e di rito) evidenziano un primo orientamento che escludeva potersi individuare nell’ambito del rapporto di amministrazione un rapporto tra due distinti centri di interesse tra i quali avviene lo scambio di prestazioni, siccome l’ordinamento della societa’ per azioni e’ regolato in modo da attribuire all’amministratore-rappresentante le caratteristiche strutturali di organo, con esclusione dei connotati del rapporto inter-soggettivo della rappresentanza ordinaria.
Tutte queste pronunce erano favorevoli all’applicazione del rito ordinario, stante l’impossibilita’ di diversificare l’attivita’ del prestatore di lavoro e l’attivita’ del destinatario della prestazione per l’assenza dei due contrapposti centri di interesse e la conseguente necessita’ di escludere il rapporto di parasubordinazione, data la mancanza del rapporto di dipendenza sul piano economico e, quindi, di quella situazione di debolezza contrattuale che caratterizza tali rapporti e ne giustifica l’equiparazione alla subordinazione ai fini della tutela processuale.
Un diverso orientamento riconduceva invece le controversie in questione all’articolo 409 c.p.c., n. 3, ritenendo che il rapporto tra amministratore e societa’ per azioni presentasse i caratteri della continuita’ e del coordinamento con l’attivita’ svolta dall’impresa societaria, richiesti da tale norma per affermare la competenza per materia del giudice del lavoro.
Il tentativo di dare soluzione al contrasto e’ stato compiuto da queste S.U. con la sentenza n. 10680 del 1994, la quale, ancora una volta per risolvere una questione di rito e competenza (si trattava di stabilire innanzi a quale giudice dovesse essere sottoposta l’azione proposta dall’amministratore contro la societa’ da lui amministrata per il rimborso di spese da lui effettuate in adempimento del mandato), prese netta posizione a favore della qualificazione del rapporto di amministrazione in termini di rapporto di lavoro parasubordinato, ai sensi dell’articolo 409 c.p.c., n. 3.
Il principio enunciato dalla sentenza e’ il seguente: La controversia nella quale l’amministratore di una societa’ per azioni, o ente assimilato, chieda la condanna della societa’ stessa al pagamento di una somma dovuta per effetto dell’attivita’ di esercizio delle funzioni gestorie, e’ soggetta al rito del lavoro ai sensi dell’articolo 409 c.p.c., n. 3, atteso che, se verso i terzi estranei all’organizzazione societaria e’ configurabile, tra amministrazione e societa’, un rapporto di immedesimazione organica, all’interno dell’organizzazione ben sono configurabili rapporti di credito nascenti da un’attivita’ come quella resa dall’amministratore, continua, coordinata e prevalentemente personale, non rilevando in contrario il contenuto parzialmente imprenditoriale dell’attivita’ gestoria e l’eventuale mancanza di una posizione di debolezza contrattuale dell’amministratore nei confronti della societa’.
L’enunciato si articola in quattro essenziali proposizioni: a) l’esistenza di un rapporto organico, in virtu’ del quale l’amministratore impersona la societa’ all’esterno, non esclude la configurabilita’, nei rapporti interni, di un vincolo di natura obbligatoria tra l’amministratore stesso e l’ente da lui gestito, ne’ la conseguente distinzione, in quest’ambito, di due centri d’interesse contrapposti facenti rispettivamente capo alle parti di tale ultimo rapporto; b) l’attivita’ che l’amministratore e’ tenuto a prestare in favore della societa’ presenta i caratteri della personalita’, della continuazione e della coordinazione, e quindi rientra nella previsione dell’articolo 409 c.p.c., n. 3; c) la circostanza che tale attivita’ sia finalizzata al conseguimento dello scopo sociale, ed abbia percio’ contenuto imprenditoriale, non impedisce di ritenerla parasubordinata, non foss’altro che un analogo contenuto e’ ravvisabile anche nell’attivita’ dell’institore, il quale certamente opera in posizione di lavoratore subordinato; d) la difficolta’ d’ipotizzare una situazione di debolezza contrattuale dell’amministratore nei confronti della societa’ non vale ad escludere il carattere parasubordinato del relativo rapporto, perche’ l’indicata situazione di debolezza non costituisce un presupposto di applicabilita’ della disciplina processuale delle controversie in materia di lavoro.
3.3 – La giurisprudenza successiva alla sentenza a S.U. del 1994.
Si diceva in precedenza del “tentativo” operato da queste S.U. nel 1994 di dare un definitivo assetto al tema, siccome quella sentenza ha avuto sicuramente il pregio di fondare l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, senza tuttavia spegnere i contrasti che nei piu’ di venti anni a seguire hanno caratterizzato le decisioni in argomento. Contrasti che, per un verso, sono stati fomentati dalla sempre piu’ diversificata dottrina e che, per altro verso, sono la necessaria conseguenza del mutato quadro normativo, non solo in materia societaria.
A fronte, dunque, di numerosissime sentenze che hanno, per finalita’ varie, ribadito la natura parasubordinata del rapporto in questione, se ne individuano altre che, invece, sono tornate ad affermare la tesi del rapporto di lavoro autonomo, pur con generico riferimento all’immedesimazione organica. Altre ancora – come vedremo – hanno affermato la natura autonoma e tipica del rapporto societario.
In quest’ordine di idee, s’e’ affermata la legittimita’ della previsione statutaria di gratuita’ delle funzioni di amministratore di societa’ (Cass. n. 2861/02), s’e’ esclusa l’applicabilita’ al rapporto del disposto dell’articolo 36 Cost., con conseguente affermazione di disponibilita’ e rinunciabilita’ del compenso (Cass. n. 19714/12), oppure s’e’ affermato che, in caso di revoca senza giusta causa, la liquidazione dei relativi danni debba avvenire secondo i criteri generali degli articoli 1223 e 2697 c.c., e non equiparando la vicenda alla risoluzione di un contratto di lavoro subordinato (Cass. n. 23557/08).
Neppure da trascurare e’ il filone giurisprudenziale il quale, in maniera incontrastata, esclude da molti decenni che il privilegio ex articolo 2751 bis c.c., n. 2, assista il credito del compenso in favore dell’amministratore o liquidatore di societa’. Teoria fondata sulla constatazione che l’attivita’ svolta da quei soggetti non presenta gli elementi del perseguimento di un risultato con conseguente sopportazione del rischio ed, a differenza di quella del prestatore d’opera, non e’ determinata dai contraenti preventivamente, ne’ e’ determinabile aprioristicamente (tra le varie e piu’ recenti, cfr. Cass. n. 22046/14, n. 4769/14, n. 11652/07, n. 13805/04).
Si dira’ in seguito della recente ed innovativa tesi giurisprudenziale del “rapporto societario”, riferita al disposto del Decreto Legislativo n. 168 del 2003, articolo 3, comma 2, lettera a), che detta criteri per l’individuazione della competenza per materia del tribunale delle imprese.
3.4 – Critiche alla teoria del rapporto parasubordinato.
Il mutato assetto normativo sviluppatosi in questo lungo lasso di tempo, la nuova configurazione dell’intero sistema societario derivante dalle novelle legislative, il diverso approccio alla materia che non tenga conto di problematiche attinenti solo alla competenza ed al rito, impongono alle S.U. un radicale ripensamento rispetto alla propria decisione del 1994 ed alle conseguenze che ne sono derivate e ne derivano trasversalmente in vasti campi dell’ordinamento.
Ponendo a raffronto i quattro enunciati sui quali fonda quella sentenza (cfr. supra par. 3.2) ed il disposto dell’articolo 409 c.p.c., n. 3, (che fa riferimento ad “una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato”) occorre rilevare che quello sub a) deve essere senz’altro concordato (seppure con i limiti dei quali si dira’ in seguito), nella considerazione che l’immedesimazione organica puo’ aver rilievo nei rapporti con i terzi, ma nei rapporti interni effettivamente sussiste una relazione obbligatoria tra soggetti affatto distinti tra loro. Difficilmente, invece, puo’ essere prestata adesione agli altri enunciati contenuti in sentenza. Soprattutto all’affermata esistenza del fondamentale requisito del coordinamento, che in essa rimane mera asserzione, ne’ sviluppata, ne’ dimostrata.
Le perplessita’ sul punto, che furono avanzate dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito gia’ all’indomani della pubblicazione della sentenza in commento, risultano oggi quanto mai rafforzate alla luce delle novelle susseguitesi in campo societario dal 2003 in poi.
E’ opinione unanime, condivisa da dottrina e giurisprudenza, che il coordinamento presupposto dalla disposizione di cui all’articolo 409 c.p.c., n. 3, deve essere inteso in senso verticale, ossia deve rappresentarsi come una situazione per cui il prestatore d’opera parasubordinata e’ soggetto ad un coordinamento che fa capo ad altri, in un rapporto che deve presentare connotati simili a quelli del rapporto gerarchico propriamente subordinato. E’ per questo, ossia al fine di favorire la parte normalmente piu’ debole, che il rapporto parasubordinato e’ assoggettato dal legislatore alla medesima disciplina processuale prevista per quello subordinato. In altri termini, l’attivita’ coordinata e’ sinonimo di attivita’ in qualche misura eterodiretta o, comunque, soggetta ad ingerenze o direttive altrui.
Requisito, questo, che – piu’ che mai nell’attuale quadro normativo – non e’ affatto individuabile rispetto all’attivita’ dell’amministratore societario, neanche se si volesse ritenere (come sembra, per fugaci accenni, ritenere la sentenza del 1994) che questi sia soggetto al coordinamento dell’assemblea dei soci.
Al contrario, la riforma del diritto societario rende l’amministratore il vero egemone dell’ente sociale. A lui spetta in via esclusiva la gestione dell’impresa, con il solo limite di quegli atti che non rientrano nell’oggetto sociale (articolo 2380 bis c.c.); il suo potere di rappresentanza e’ generale e concerne anche gli atti estranei all’oggetto sociale (articolo 2384 c.c., comma 1); se e’ amministratore unico ha sia il potere di gestione, sia quello di rappresentanza; in eccezione ai principi generali, e’ stabilito che le limitazioni ai suoi poteri (sia di rappresentanza, sia di gestione) che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti (non quelle legali) non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, fatta salva la cd. exceptio doli (articolo 2384, comma 2, c.c.).
Quanto, poi, al rapporto tra assemblea ed amministratore, la novella consente di escludere affatto l’ipotizzabilita’ di un coordinamento imposto dalla prima al secondo.
Questo rapporto emerge da due disposizioni: il gia’ citato articolo 2380 bis c.c., che, come s’e’ visto, attribuisce la gestione dell’impresa in via esclusiva all’amministratore, e l’articolo 2364 c.c., n. 5, per il quale l’assemblea ordinaria delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea, nonche’ sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori.
Dal raffronto si deduce che la competenza gestoria dell’assemblea ha carattere delimitato e specifico: ossia, sussiste solo per gli atti espressamente attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea, mentre quella degli amministratori ha carattere generale e sussiste per tutti gli atti d’impresa che non sono riservati all’assemblea e che si pongono in rapporto di mezzo a fine rispetto al conseguimento dell’oggetto sociale. Quest’ultima cessa, per lasciare il campo a quella dell’assemblea, solo quando si tratta di iniziative che comportino una sostanziale modifica, diretta o indiretta, dell’oggetto sociale.
Inoltre, non e’ possibile riservare statutariamente all’assemblea la decisione di compiere l’atto ma puo’ essere solo prevista una mera autorizzazione a compiere l’atto, nel senso che la decisione del compimento dell’atto rimane pur sempre riservata all’amministratore, il quale puo’ decidere di non compiere l’atto, benche’ l’assemblea l’abbia autorizzato a farlo. In ogni caso, l’autorizzazione al compimento degli atti deve essere oggi prevista dallo statuto.
In conclusione, se per “coordinamento” (quale presupposto indispensabile perche’ ai sensi dell’articolo 409 c.p.c., n. 3, possa individuarsi un’attivita’ parasu-bordinata) deve intendersi l’eterodirezione dell’attivita’ stessa, si puo’ categoricamente escludere che la funzione dell’amministratore societario ne sia soggetto.
Per altro verso, non puo’ farsi a meno di rilevare che la soggezione al coordinamento e’ riflesso di una situazione di debolezza contrattuale che costituisce il senso stesso della summenzionata disposizione, dal momento che e’ proprio la presupposta inferiorita’ di una parte rispetto all’altra a giustificare l’equiparazione del lavoratore parasubordinato a quello subordinato. La sentenza del 1994 liquida l’argomento ritenendo che “quest’elemento e’ di incerta definizione e, quel che piu’ conta, e’ di contenuto sociologico, ossia valido quale ausilio interpretativo in quanto idoneo a ricostruire la ratio legis, ma non e’ assumibile quale presupposto di applicabilita’ di una norma”.
Ritengono, piuttosto, oggi le S.U. che, se quest’elemento e’ idoneo a ricostruire la ratio legis, nella vicenda che ci occupa l’accertata assenza di una situazione di debolezza contrattuale conforta la tesi dell’inconfigurablita’ dell’amministratore societario quale lavoratore parasubordinato.
3.5 – La tesi del rapporto societario.
Tutto cio’ premesso, e’ indispensabile rappresentare che la giurisprudenza di legittimita’ e’ recentemente pervenuta alla profonda rivisitazione del tema ed al superamento degli ambiti tra i quali finora s’era mossa, sostenendo che il rapporto fra l’amministratore e la societa’ debba essere ricondotto nell’ambito dei “rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario” cui fa riferimento il Decreto Legislativo n. 168 del 2003, articolo 3, comma 2, lettera a), per l’individuazione della competenza per materia del tribunale delle imprese.
In questo condivisibile ordine d’idee, tutta la giurisprudenza (che ha trovato la sua basilare affermazione proprio nella pronuncia delle S.U. n. 10680 del 1994) non e’ piu’ compatibile con il citato intervento legislativo che, appunto, ha attribuito al tribunale delle imprese la competenza relativa alle controversie in materia di rapporti societari, nella loro complessita’, che coinvolgano amministratori e societa’, rendendo ormai irrilevante la distinzione fra l’attivita’ a rilevanza esterna degli amministratori e il rapporto di natura obbligatoria di questi ultimi con la societa’.
Nell’esegesi dell’ultima disposizione normativa in commento, e’ stato correttamente osservato (in particolare da Cass. n. 14369/15) che tra i “rapporti societari” ai quali essa fa riferimento deve necessariamente comprendersi il rapporto tra societa’ ed amministratori, data l’essenzialita’ del rapporto di rappresentanza in capo a questi ultimi come rapporto che, essendo funzionale, secondo la figura della c.d. immedesimazione organica, alla vita della societa’, consente alla stessa di agire. In altri termini, tale rapporto e’ rapporto “di societa’” perche’ serve ad assicurare l’agire della societa’, non assimilabile, in quest’ordine di idee, ne’ ad un contratto d’opera (in questo senso, cfr. gia’ Cass. 22046/14), ne’ tanto meno ad un rapporto di tipo subordinato o parasubordinato.
Cosi’ ragionando, ossia facendo riferimento alla natura del rapporto come di tipo “societario”, la citata Cass. n. 14369/15 ha ricompreso nella competenza del tribunale delle imprese la controversia avente ad oggetto l’impugnazione di delibera di revoca di un intero consiglio di amministrazione per giusta causa, mentre Cass. n. 2759/16 ha ammesso il ricorso ad arbitri anche nelle controversie tra amministratori e societa’ attinenti al profilo interno dell’attivita’ gestoria ed ai diritti che ne derivano (quale, ad esempio, il diritto al compenso), ove tale possibilita’ sia prevista dagli statuti societari. Giova, infine, ricordare che gia’ il Decreto Legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, articolo 130, introducendo l’articolo 144 ter disp. att. c.p.c., aveva escluso che tra le controversie previste dall’articolo 409 c.p.c., fossero comprese quelle di cui all’articolo 50 bis c.p.c., comma 1, n. 5, seconda parte, (tra cui l’azione di responsabilita’ promossa dalla societa’ nei confronti dei suoi amministratori), controversie per le quali il tribunale giudica in composizione collegiale. L’articolo 50 bis c.p.c., e’ stato poi modificato dalla L. n. 262 del 2005, articolo 15, (Tutela del risparmio e disciplina dei mercati finanziari).
4 – Un’opportuna precisazione.
E’ indispensabile precisare che tutto quanto finora affermato concerne la figura dell’amministratore societario nelle sue funzioni tipiche di gestione e rappresentanza dell’ente, ossia come soggetto che, immedesimandosi nella societa’, le consente di agire e raggiungere i propri fini imprenditoriali. Non e’ escluso, pero’, che s’instauri, tra la societa’ e la persona fisica che la rappresenta e la gestisce, un autonomo, parallelo e diverso rapporto che assuma, secondo l’accertamento esclusivo del giudice del merito, le caratteristiche di un rapporto subordinato, parasubordinato o d’opera.
E’ il caso ben delineato dalla risalente Cass. n. 1796/96, la quale, affermata la compatibilita’ giuridica tra le funzioni del lavoratore dipendente e quelle di amministratore di una societa’, precisa che la sussistenza di un simile rapporto deve essere verificata in concreto; essendo indispensabile, da una parte, accertare l’oggettivo svolgimento di attivita’ estranee alle funzioni inerenti al rapporto organico, dall’altra, la ricorrenza della subordinazione, sia pure nelle forme peculiari compatibili con la prestazione lavorativa dirigenziale. Nella specie, si trattava di un soggetto che originariamente era stato assunto dalla societa’ con la qualifica di dirigente e, solo successivamente, era stato investito della carica di componente nel consiglio di amministrazione, da lui in alcune occasioni presieduto. Il menzionato precedente di legittimita’ ha cosi’ respinto il ricorso avverso la sentenza che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento del dirigente in assenza di prova, da parte della societa’, della cessazione del rapporto subordinato e della sua sostituzione con un rapporto diverso che attribuiva all’ex lavoratore il potere di assumere decisioni imprenditoriali travalicanti la sfera di attribuzioni di un dirigente, stante l’ammissibilita’ della coesistenza del rapporto di lavoro subordinato con le diverse e non interferenti funzioni amministrative.
5 – Conclusioni sulla vicenda in esame.
Come osservato in precedenza (soprattutto sub 3), la soluzione del quesito (limiti alla pignorabilita’ dei compensi dell’amministratore unico) ha preteso la soluzione del contrasto giurisprudenziale in tema di rapporto tra societa’ ed amministratore.
Occorre precisare che, nella specie, il giudice dell’esecuzione, all’esito dell’espropriazione presso terzi intentata dalla (OMISSIS) nei confronti del debitore e dei suoi debitori (OMISSIS) spa e (OMISSIS) s.p.a., aveva assegnato alla Banca procedente l’intera somma accantonata dai terzi a titolo di emolumenti per l’attivita’, ritenuta di lavoro autonomo, svolta dal (OMISSIS) in qualita’ di amministratore unico della prima societa’ e di componente del consiglio di amministrazione della seconda.
Come ha gia’ notato l’ordinanza interlocutoria, la ricorrente banca non ha proposto alcuna doglianza specifica sulla piena equiparazione, ai fini della gravata decisione, dei compensi ed emolumenti spettanti all’amministratore unico della societa’ per azioni (carica pacificamente ricoperta dal debitore in seno all’organizzazione della controricorrente (OMISSIS) spa) e di quelli spettanti allo stesso debitore quale semplice componente di un consiglio di amministrazione (carica altrettanto pacificamente ricoperta dal debitore in seno alla (OMISSIS)). Tuttavia, le argomentazioni che precedono, rivolte alla figura dell’amministratore unico di societa’ per azioni, a maggior ragione valgono per il componente del consiglio di amministrazione. Sicche’, puo’ essere enunciato il seguente principio:
L’amministratore unico o il consigliere d’amministrazione di una societa’ per azioni sono legati da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non e’ compreso in quelli previsti dall’articolo 409 c.p.c., n. 3. Ne deriva che i compensi spettanti ai predetti soggetti per le funzioni svolte in ambito societario sono pignorabili senza i limiti previsti dall’articolo 545 c.p.c., comma 4.
Tornando alla fattispecie in esame, la sentenza impugnata ha, dunque, errato nell’affermare la limitata pignorabilita’ dei crediti in questione, sicche’ devono essere accolti i motivi terzo e quarto del ricorso e la sentenza deve essere cassata in relazione a questi stessi motivi.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa puo’ essere decisa nel merito, ai sensi dell’articolo 384 c.p.c.. Sicche’, va respinta l’opposizione proposta ex articolo 617 c.p.c., dal debitore Giovanni (OMISSIS) avverso l’ordinanza di assegnazione emessa dal giudice dell’esecuzione del tribunale di Ancona in data 8 gennaio 2013 nella procedura esecutiva n. 9337/12 RGE, sezione distaccata di Osimo, e, per l’effetto va confermata la predetta ordinanza.
La complessita’ giuridica della questione e lo stesso mutamento giurisprudenziale consigliano l’intera compensazione tra le parti delle spese dei giudizi di merito e di quello di cassazione.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta i motivi primo, secondo e quinto del ricorso, accoglie il terzo ed il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, rigetta l’opposizione proposta ex articolo 617 c.p.c., dal debitore (OMISSIS) avverso l’ordinanza di assegnazione emessa dal giudice dell’esecuzione del tribunale di Ancona in data 8 gennaio 2013 nella procedura esecutiva n. 9337/12 RGE, sezione distaccata di Osimo, e, per l’effetto, conferma la predetta ordinanza. Compensa interamente tra le parti le spese dei giudizi di merito e di cassazione.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.