la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3, poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone; l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato di coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando – e aggravando – in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche dei social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica, che è quella di incentivare la frequentazione della bacheca da parte degli utenti, allargandone il numero a uno spettro di persone sempre più esteso, attratte dal relativo effetto socializzante.
La pronuncia in oggetto affronta il tema della risarcibilità dei danni derivanti dalla lesione dell’onore e della reputazione, tema che può essere approfondito leggendo il seguente articolo: Diffamazione a mezzo stampa, profili risarcitori di natura civilistica.
Corte d’Appello Napoli, Sezione 8 civile Sentenza 16 gennaio 2019, n. 343
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE D’APPELLO DI NAPOLI
La Corte d’appello di Napoli VIII sezione civile oggetto riunita in Camera di Consiglio in persona dei magistrati:
– dr. Umberto Di Mauro – Presidente – dr. ssa Aurelia D’Ambrosio – Consigliere – dr. Massimiliano Sacchi – Consigliere Relatore
ha pronunziato la seguente:
SENTENZA
nel processo civile d’appello iscritto al n. 4123/2016 del ruolo generale degli affari contenziosi, avverso l’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c., pronunziata dal Tribunale di Benevento in data 11.07.2016, rimesso in decisione all’udienza del 23 novembre 2018 e pendente
TRA
A. R., rappresentato e difeso, come da procura in calce all’atto di appello, dall’Avv. P. P.;
Appellante
A. B., rappresentato e difeso, come da procura in calce alla comparsa di costituzione, dall’Avv. A. V.;
Appellato
Oggetto: risarcimento danni da diffamazione.
Conclusioni: come da verbale di udienza del 23.11.2018 ed atti di causa.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato in data 2.4.2015, ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c., A. B. adiva il Tribunale di Benevento, per sentire accertare la responsabilità di A. R. in relazione alla pubblicazione, su profilo Facebook del resistente, di notizie e commenti dal contenuto diffamatorio, relativi alla persona di esso ricorrente, e per la conseguente condanna dello stesso al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, da esso sofferti, da quantificarsi nella misura di euro 52.000,00 o in quella diversa somma, maggiore o minore, che fosse stata accertata.
A fondamento della domanda, premesso che svolgeva da circa 10 anni la professione di amministratore di condominio, allegava di avere, nel corso di un’assemblea di condomini, appreso che, sul noto social network facebook, circolavano da giorni gravi accuse rivolte alla sua persona e di avere, poi, constatato, che, effettivamente, il R., ad esso inizialmente sconosciuto e che successivamente apprendeva essere condomino di uno dei condomini da esso amministrato, pubblicava, sul suo profilo facebook, un album fotografico intitolato “truffatore seriale”, contenente le pagine di una denuncia querela sporta da alcuni condomini nei suoi confronti, avente come sottotitolo la seguente frase: “visto che la magistratura temporeggia, state attenti a questo truffatore seriale”.
Deduceva, inoltre, il ricorrente che “.. dalla visione di dette immagini, si evince che il Sig. R. a seguito di della pubblicazione ha finanche intavolato con diverse persone “amici e non” sul social network facebook, una serie di conversazioni e di commenti dal contenuto chiaramente e nettamente offensivo oltre che diffamatorio della persona del Dott. B.
La diffusione di detto album sul noto social network, oltre ai molteplici commenti palesemente diffamatoria del R., hanno comportato, inevitabilmente, la divulgazione della notizia in modo smisurato ed abnorme, arrecando gravi e notevoli danni, irreparabili, al nome, al decoro, all’onore, all’immagine della persona del Dott. B.”.
Instauratosi il contraddittorio, si costituiva il resistente, contestando la fondatezza dell’avversa domanda.
Con l’impugnata ordinanza, il Tribunale, rigettava, siccome non provate, le domande di risarcimento dei danni patrimoniale, biologico, e per la fine della propria relazione coniugale, dal B. causalmente ricondotta alla vicenda oggetto di causa, proposte dal ricorrente.
Accertato il carattere diffamatorio delle contestate pubblicazioni, in accoglimento della domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, consistente nella sofferenza morale, nonché nel pregiudizio all’onore ed alla reputazione, condannava il R. a pagare, in favore del B., l’importo, equitativamente determinato, di euro 10.000,00, oltre interessi legali dalla pronuncia, nonché il 50% delle spese processuali, disponendone la compensazione per la metà.
Con atto di citazione ritualmente notificato in data 9.9.2016, A. R. impugnava l’indicata ordinanza, censurandola, per i motivi di seguito analiticamente esposti, nella parte in cui con essa era stata accolta la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, ex adverso proposta, e concludendo perché, in riforma della gravata pronuncia, siffatta domanda fosse interamente rigettata.
Si costituiva in giudizio A. B., eccependo l’inammissibilità e, nel merito, l’infondatezza del proposto gravame.
Quindi, sulle conclusioni come rassegnate dalle parti, la causa, all’udienza del 23.11.2018, veniva trattenuta in decisione, con la concessione dei termini ridotti di giorni 30 per le comparse conclusionali e 20 per repliche.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità dell’appello, sollevata dalla difesa dell’appellato, sul presupposto che l’impugnazione sia stata genericamente formulata e non rispetti, inoltre, il disposto di cui all’art. 342 c.p.c., nel testo introdotto dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con (…) dalla l. n. 134 del 2012, avendo l’appellante omessoci indicare l’errore commesso dal giudice di prime cure nella ricostruzione dei fatti e la conseguente ingiustizia dell’ordinanza impugnata.
L’eccezione è infondata.
In diritto giova premettere che, come affermato dalle sezioni unite della Corte di Cassazione (cfr. sentenza 16/11/2017, n. 27199), gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla 1. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata.
Facendo applicazione del principio appena richiamato, l’appello de quo è da ritenersi, almeno parzialmente, ammissibile, poiché, fatta eccezione per l’ultimo motivo di impugnazione, l’appellante indicava, con sufficiente analiticità, le parti della sentenza di primo grado che intendeva contestare, le ragioni per le quali non condivideva le argomentazioni del Tribunale e gli elementi di prova che, a suo avviso, avrebbero giustificato la riforma della gravata pronuncia.
2. Venendo al merito, giova rilevare che, con il primo motivo di impugnazione, l’ordinanza era censurata, nella parte in cui riteneva integrata la fattispecie della diffamazione, sebbene le notizie riportate su facebook, relative alle condotte illecite poste in essere dal B., fossero vere, come comprovato dall’esito del procedimento penale instaurato dalla locale Procura della Repubblica.
Nella specie, quindi, ad avviso dell’appellante, avrebbe dovuto applicarsi, a beneficio del R., l’esimente dell’exceptio veritatis.
Ed ancora, l’ordinanza andava ritenuta contraddittoria, laddove aveva ritenuto diffamatorio il contenuto delle notizie divulgate, ancorché i fatti riferiti fossero ancora al vaglio dell’autorità giudiziaria penale e sebbene, nel caso in esame, ricorresse l’estremo della “.. veridicità, anche solo putativi, richiesta dal Magistrato di primo grado} quale possibile esimente della condotta del R.”.
Il motivo è infondato.
Deve in diritto premettersi che, come ritenuto da consolidata giurisprudenza di legittimità, “.. la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3, poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone; l’aggravante dell’uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua ratio nell’idoneità del mezzo utilizzato di coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando – e aggravando – in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche dei social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica, che è quella di incentivare la frequentazione della bacheca da parte degli utenti, allargandone il numero a uno spettro di persone sempre più esteso, attratte dal relativo effetto socializzante.
La circostanza che l’accesso al social network richieda all’utente una procedura di registrazione – peraltro gratuita, assai agevole e alla portata sostanzialmente di chiunque – non esclude la natura di “altro mezzo di pubblicità” richiesta dalla norma penale per l’integrazione dell’aggravante, che discende dalla potenzialità diffusiva dello strumento di comunicazione telematica utilizzato per veicolare il messaggio diffamatorio, e non dall’indiscriminata libertà di accesso al contenitore della notizia (come si verifica nel caso della stampa, che integra un’autonoma ipotesi di diffamazione aggravata), in puntuale conformità all’elaborazione giurisprudenziale di questa Corte che ha ritenuto la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 595 c.p., comma 3 nella diffusione della comunicazione diffamatoria col mezzo del fax (Sez. 5 n. 6081 del 9/12/2015, Rv. 266028) e della posta elettronica indirizzata a una pluralità di destinatari (Sez. 5 n. 29221 del 6/04/2011, Rv. 250459) (cfr. Cass., pen., sez. I, 02/12/2016, n. 50).
Ciò premesso, merita evidenziare che, nel caso di specie, come del resto condivisibilmente ritenuto dal primo Giudice, le notizie pubblicate attraverso facebook rivestivano, per il contenuto delle informazioni pubblicate ed il tenore delle espressioni adoperate, carattere innegabilmente lesivo della reputazione del B.. Infatti, mediante la riproduzione integrale del testo di una denuncia querela sporta a carico dell’odierno appellato da una parte dei condomini del fabbricato “XX” di Benevento, del quale all’epoca il B. era amministratore, veniva data diffusione, oltre che a dati sensibili, quali le esatte generalità, il codice fiscale, la residenza, dello stesso, anche al contenuto delle gravi accuse al medesimo rivolte, afferenti pretese condotte di distrazione di fondi condominiali, che sarebbero state perpetrate nel corso della sua gestione.
A ciò la pubblicazione aggiungeva commenti, palesemente denigratori, indirizzati nei confronti del B., etichettato, nella parte iniziale del messaggio, come un truffatore seriale, e come persona della quale diffidare.
Al cospetto di una comunicazione di siffatto contenuto, l’appellante ha, a propria discolpa, invocato l’intrinseca (o almeno putativa) verità delle notizie oggetto di diffusione.
L’assunto non merita di essere condiviso.
Ed invero, la sola presentazione della querela a carico del B., da parte di alcuni condomini di un fabbricato dal medesimo amministrato, non prova in alcun modo la verità oggettiva dei fatti in essa riportati, integrando la stessa, come appare evidente, una semplice prospettazione difensiva, che avrebbe dovuto necessariamente essere sottoposta, per poter sfociare in un giudizio di colpevolezza, al vaglio di un procedimento penale da svolgersi nel contraddittorio con l’imputato.
Ma, a ben vedere, nel caso in esame, l’appellante non ha, nel corso del processo di primo grado, offerto alcuna prova documentale in relazione all’esito del più volte richiamato procedimento penale, essendosi limitato a valorizzare la rilevanza probatoria di un avviso di conclusione delle indagini preliminari, che sarebbe stato adottato a carico del B. dalla Procura della Repubblica di Benevento, il quale, tuttavia, oltre a non rivestire la stessa valenza probatoria di una sentenza di condanna, non risulta nemmeno mai prodotto in atti.
Né, del resto, risulta provato l’assunto della verità anche solo putativa della notizia.
A conforto di esso, invero, il R. ha invocato, per un verso, l’esito del già menzionato procedimento penale e, per l’altro, documentazione – intesa a comprovare la sussistenza delle condotte illecite ascritte alla controparte – processualmente non univoca, avendo al riguardo il B. formulato in primo grado circostanziate contestazioni (cfr. le specifiche controdeduzioni svolte dal B. all’udienza svoltasi in data 13.7.15, dinanzi al Tribunale di Benevento, di cui all’allegato n. 44 della produzione di parte di primo grado dell’odierno appellato).
Né, invero, a diverse conclusioni potrebbe condurre la prova testimoniale articolata dall’appellante in primo grado e la cui ammissione veniva dallo stesso reiterata nell’atto di appello ed all’udienza di precisazione delle conclusioni.
Sul punto è sufficiente, infatti, evidenziare come i capitoli di prova in questione siano intesi a provare circostanze irrilevanti (vale a dire che il fatto, oggetto di querela, fosse noto all’ambiente del condominio ed oggetto di svariate assemblee tenute dai condomini, nonché al corrente dello stesso B. già da epoca anteriore alla pubblicazione su facebook, la pretesa inattività di una delle ditte cui il B. affidava l’esecuzione di lavori condominiali, la vicenda inerente un alterco avvenuto nel corso di un assemblea tenutasi in data anteriore ai fatti di causa), o implicanti valutazioni (come nei capi vertenti sulla regolare tenuta della contabilità condominiale prima della gestione B. e sulle irregolarità a quest’ultimo ricollegabili) o risultino genericamente formulati (come i capitoli vertenti su pretese emissioni di assegni da parte del B. in favore del coniuge o sull’esistenza di debiti del condominio verso la società erogatrice del gas, causalmente imputabili alla condotta dell’amministratore).
Peraltro, non può omettersi di evidenziare come, anche a voler per ipotesi valorizzare la verosimiglianza dei fatti oggetto della querela, la sussistenza della fattispecie diffamatoria non verrebbe meno.
Al riguardo si rivelano, infatti, decisivi, da un lato, l’impiego, nei messaggi pubblicati su facebook, di espressioni volutamente denigratorie della persona dell’odierno appellato, che violano palesemente il parametro della continenza e, dall’altro, l’assenza dell’interesse pubblico alla diffusione della notizia, trattandosi di una vicenda che non coinvolge un personaggio pubblico, ma che, in quanto interna ad un condominio, può suscitare l’attenzione dei soli condomini che vi risiedono.
Con il secondo motivo di appello, il R. ha dedotto l’assenza di prove, che consentissero con certezza di ricondurre ad esso la titolarità del profilo facebook, sul quale avvenivano le pubblicazioni dal contenuto diffamatorio.
Il motivo è infondato, in quanto lo stesso R., nella memoria difensiva depositata nel giudizio di primo grado, non aveva negato la paternità degli scritti diffamatori, ne la titolarità del profilo facebook. Inoltre, dalla documentazione prodotta in primo grado dal ricorrente, odierno appellato, emerge, con sufficiente certezza, che provengano dal R. le dichiarazioni (cd. post) dal contenuto diffamatorio indirizzate nei confronti del B. (si vedano i post pubblicati su facebook dal R. il 3.11.2014 alle 21.17 ed alle 21.54, allegati alla produzione del B.).
Dal tenore della discussione sorta in via telematica, in relazione alla pubblicazione effettuata dal R., si ricava, altresì, come quest’ultimo fosse pienamente consapevole della portata diffamatoria degli scritti, avendo tale aspetto costituito oggetto di un significativo scambio di opinioni con altro utente di facebook, che suggeriva finanche all’odierno appellante di rimuovere dal profilo il contenuto della querela (cfr. allegato 25 alla produzione di primo grado del B., contenente la riproduzione della discussione registrata su facebook nei giorni 3 e 4 novembre).
Con un ultimo motivo di appello, il R. ha contestato la sussistenza dei danni lamentati dal B..
Il motivo risulta inammissibile, perché, con riguardo al solo danno riconosciuto dal Tribunale, consistente in quello non patrimoniale per lesione della reputazione, alcuna specifica doglianza è stata formulata dall’appellante.
Nulla, infatti, quest’ultimo ha dedotto per superare l’affermazione del primo Giudice, secondo cui la gravità delle accuse rivolte e la potenzialità diffusiva praticamente infinita, conseguente alla pubblicazione su facebook, consentivano di ritenere come sussistente il lamentato pregiudizio all’onore ad alla reputazione, nonché la sofferenza interiore cagionata dall’altrui condotta.
Viceversa, il motivo di appello risulta, in maniera superflua, rivolto a contestare la sussistenza di ulteriori voci di danno, quali quelle relative alla crisi del vincolo coniugale ed al malore avvertito dal B. in conseguenza di un alterco avuto con un condomino nel corso di un assemblea di condominio risalente al 25 ottobre 2014, che già il Tribunale aveva ritenuto di non riconoscere. Alla stregua delle esposte considerazioni, l’appello deve, pertanto, essere rigettato e l’impugnata ordinanza interamente confermata.
3. Le spese di lite del giudizio di secondo grado seguono la soccombenza dell’appellante e si liquidano, come in dispositivo, a norma del D.M. 55/14, come aggiornato con D.M. n. 37/18, tenuto conto del valore e complessità della causa (con conseguente applicazione dei compensi medi dello scaglione relativo alle controversie fino ad euro 26.000,00) e dell’attività svolta (con esclusione della fase istruttoria/trattazione, non tenutasi in questo grado di giudizio, e con riconoscimento, quanto alla fase decisoria, dei compensi minimi, alla luce del mancato deposito degli scritti difensivi finali da parte dell’appellato). Le spese processuali vanno infine distratte in favore dell’avv. A. V., dichiaratosi antistatario. Va poi disattesa la domanda di risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c., avanzata dall’appellato, non potendosi la condotta processuale del R. ritenere connotata da mala fede o colpa grave.
Deve da ultimo darsi atto che sussistono, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115/2002, i presupposti per il versamento, da parte dell’appellante, dell’importo pari al contributo unificato dovuto per l’impugnazione principale.
P.Q.M.
definitivamente pronunziando sull’appello come in epigrafe proposto e tra le parti ivi indicate, così provvede: a) rigetta l’appello e, per l’effetto, conferma integralmente l’impugnata ordinanza; b) condanna A. R. alla rifusione, in favore dell’appellato, delle spese processuali del giudizio di secondo grado, che si liquidano in euro 2.867,00 per compenso, euro 430,05 per rimborso spese generali, oltre IVA e CPA come per legge, con distrazione in favore dell’avv. A. V.; c) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento, da parte di A.R., di un ulteriore importo del titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione principale.
Così deciso in Napoli, il 16 gennaio 2019.
Depositata in Cancelleria il 16 gennaio 2019.