in tema di revocatoria fallimentare dei pagamenti effettuati alla banca da parte del correntista, le rimesse annotate sui conti anticipi non hanno natura solutoria e non sono revocabili, costituendo tali conti una mera evidenza contabile dei finanziamenti per anticipazioni su crediti concessi dalla banca al cliente, ove vengono annotati in “dare” le anticipazioni erogate al correntista ed in “avere” l’esito positivo della riscossione del credito, sottostante agli effetti commerciali presentati dal cliente. Il rapporto tra banca e cliente viene invece rappresentato esclusivamente dal saldo del conto corrente ordinario, ove affluiscono tutte le somme portate dai titoli, dalle ricevute bancarie o dalle carte commerciali presentate per l’incasso, che saranno oggetto di revocatoria nei limiti in cui abbiano contribuito a ridurre lo scoperto del conto medesimo.
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Corte d’Appello Palermo, Sezione 3 civile Sentenza 16 gennaio 2019, n. 86
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di Palermo – Sezione Terza Civile – riunita in camera di consiglio e composta dai sigg.ri magistrati:
Dott. Michele Perriera – Presidente
Dott. Gioacchino Mitra – Consigliere
Dott. Giuseppe De Gregorio – Consigliere
dei quali il terzo relatore ed estensore, ha emesso la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n. 476/2015 del R.G. di questa Corte di Appello, vertente in questo grado
tra
(…), (…), rappresentati e difesi dall’avv. ME.LU.
Appellanti
contro
(…) S.P.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. VI.AN.
Appellata – appellante incidentale
Oggetto: Contratti bancari (opposizione a d.i.)
RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Con sentenza n. 758/2014 del 16/07/2014, il Tribunale di Trapani ha disatteso l’opposizione al decreto ingiuntivo n. n. 490/2012 emesso dal medesimo Tribunale, su istanza di (…) S.p.A., per l’importo complessivo di Euro 58.142,44, oltre interessi e spese. Avverso tale sentenza hanno proposto gravame gli opponenti (…) e (…), con atto di citazione del 05/06/2014, contestando la decisione di prime cure per diversi motivi.
(…) S.p.A., costituendosi, ha contestato le avverse censure alla sentenza, proponendo a sua volta appello incidentale della statuizione nella parte in cui, riformando il decreto ingiuntivo, aveva disposto la condanna al pagamento degli interessi solo nella misura legale e con decorrenza dalla data di notifica dell’atto di citazione in opposizione.
Disattesa l’istanza ex art. 351 c.p.c. avanzata dagli appellanti, senza incombenti istruttori, all’udienza del 12/10/2018 le parti hanno concluso riportandosi ai rispettivi atti, e la causa è stata posta in decisione, con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito degli atti difensivi conclusionali.
Così compendiati i principali fatti di causa, va osservato che con l’atto di citazione introduttivo del giudizio a cognizione piena (…) e (…), premesso di essere fideiussori della società (…) S.r.l., avevano narrato che detta società “intratteneva presso la (…), oggi (…) SPA, i rapporti di conto corrente n. (…) e n. (…)…..”. Col decreto, poi opposto, n. 490/2012 del Tribunale di Trapani, richiesto dalla banca, era stato ingiunto loro il pagamento dei rispettivi saldi (oltre accessori e spese), ammontanti a Euro 58.111,31 per il conto (…), e a Euro 31,13 per il conto (…).
Con la impugnata statuizione, il giudice di prime cure ha revocato il decreto ingiuntivo, condannando però odierni appellanti al pagamento di Euro 52.707,82, per il conto n. (…), ed Euro 31,13 con riguardo al conto anticipi n. (…), oltre interessi legali.
Tale statuizione è oggetto innanzitutto del gravame principale proposto dai due fidejussori, i quali (senza effettivamente, come cioè rilevato dalla banca appellata, riproporre le doglianze in punto di difetto di forma dei contratti), lamentano una serie di nullità negoziali, ovvero violazione delle pattuizioni previste, riproponendo – ancorché con utilizzo di lessico differente da quello utilizzato in prime cure, e con allegazioni diversamente proposte, senza però complessivamente travalicare i limiti di cui all’art. 345 c.p.c., invocato anche qui dalla banca – le argomentazioni del primo giudizio, seppur nei termini che si vanno a sintetizzare.
Premesso che la banca appellata ha assolto l’onere probatorio a suo carico, producendo i testi negoziali relativi ad entrambi i contratti (recanti la data del 01.4.2004), nonché gli estratti conto integrali, col primo motivo di gravame gli appellanti ribadiscono la contestazione in ordine all’applicazione al rapporto di tassi di interesse usurari, a loro dire non correttamente rilevati in ragione del criterio di calcolo del TEG impiegato dal consulente contabile chiamato alla ricostruzione del rapporto, con risultanze riprese nella sentenza appellata; segnatamente (e qui riprendendo quanto allegato alle pagg. 13, 14, 15 e 16 della citazione in opposizione) (..) e (…) lamentano l’utilizzo della formula della (…), e in particolare la mancata inclusione della “commissione di massimo scoperto” nelle voci di calcolo del “tasso effettivo globale”; contestano inoltre il mancato vaglio ai fini dell’usura del cd. anatocismo nascosto, derivante dall’appostazione delle voci contabilizzate nel conto anticipi, con già applicazione dei relativi specifici interessi, nel conto ordinario, e quindi con ulteriore applicazione degli interessi per questo previsti, appunto così verificandosi anatocismo.
Con il secondo motivo, poi, ripropongono le censure in punto di commissione di massimo scoperto, afferenti difetto di causa, indeterminatezza, mancanza del consenso.
Col terzo motivo, ribadiscono le censure in ordine al cd. anatocismo nascosto, sempre con riguardo al rapporto conto anticipi – conto ordinario.
Questi tre motivi, che involgono questioni strettamente connesse tra loro, possono essere esaminati congiuntamente, e si rilevano privi di fondamento.
Principiando la disamina dalla questione afferente la validità della clausola afferente la cd. “commissione di massimo scoperto”, secondo gli appellanti indeterminata, e ancora prima “priva di causa”, e priva di consenso, vale innanzitutto ricordare che essa è da intendere quale emolumento accessorio che gli istituti di credito applicano quando mettono a disposizione dei clienti una somma di denaro, sotto forma di concessione di fido o di apertura di credito, ogniqualvolta il cliente, utilizzando tale somma, realizzi una “scopertura” o “extrafido”.
Devesi evidenziare (e di questo vi è ampia traccia nella sentenza appellata) che dibattuta tra la dottrina specialistica e la giurisprudenza è stata la natura giuridica da riconoscersi alla “commissione”, almeno sino agli interventi normativi che hanno provveduto a disciplinarla, a cominciare dall’art. 2bis D.L. 29 novembre 2008, n. 185 convertito dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2. Una prima tesi propendeva per la natura di accessorio da aggiungersi agli interessi e agli stessi assimilabile, sul presupposto che la stessa venisse conteggiata, nella prassi bancaria, in una misura percentuale dell’esposizione debitoria massima raggiunta, e quindi sulle somme effettivamente utilizzate, nel periodo considerato, e che ha solitamente pattuizione trimestrale, al pari degli interessi.
Una seconda tesi, privilegiata dalla giurisprudenza maggioritaria, ha invece riconosciuto alla commissione di massimo scoperto funzione “remunerativa” dell’obbligo della Banca di tenere a disposizione del cliente una somma di denaro per un determinato periodo di tempo, indipendentemente dal suo effettivo utilizzo e ciò “anche alla luce della circolare della (…) del primo ottobre 1996 e delle successive rilevazioni del c.d. tasso soglia, in cui è stato puntualizzato che la commissione di massimo scoperto non deve essere computata, ai fini della rilevazione dell’interesse globale di cui alla L. 7 marzo 1996, n. 108” (Cass. n. 11772 del 2002).
Siffatta ultimo indirizzo è stato ribadito dalla Suprema Corte con la sentenza n. 870 del 18 gennaio 2006 – richiamata anche dal giudice di prime cure -, che ha definitivamente chiarito che la c.s.m. altro non è se non la “remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione dei fondi a favore del correntista indipendentemente dall’effettivo prelevamento della somma”. E la stessa commissione non può ritenersi nulla perché la relativa clausola è priva di causa giacché “la commissione di massimo scoperto pur essendo collegata agli interessi opera su un piano diverso – avendo quale funzione quella di costituire la controprestazione per il rischio crescente che la banca si assume in proporzione dell’ammontare dell’utilizzo dei fondi – ed è legittima qualora adeguatamente pubblicizzata nel rispetto della previsione dell’art. 116 T.U. Bancario” (Trib. Palermo 6 ottobre 2006 n. 3885).
Ora, ancorché tale disposto legislativo non si applichi al caso di specie, trattandosi di emolumento accessorio, quest’ultimo deve comunque essere determinato e convenzionalmente pattuito tra le parti, sicché la sua indeterminatezza, che demanda al solo istituto di credito la fissazione unilaterale della misura da applicare e i criteri di applicazione, rende nulla la relativa clausola.
Difatti, nel contratto dovrà essere espressamente specificato che si tratta di una commissione applicata sul finanziamento concesso, o su quello utilizzato, e dovrà esserne indicata la misura, la modalità e la periodicità di calcolo.
In altri termini, è evidente che anche per la commissione di massimo scoperto vale la questione della determinatezza o determinabilità dell’oggetto, per cui in assenza di univoci criteri di determinazione del suo importo, la relativa pattuizione va ritenuta nulla, con diritto del correntista alla ripetizione di quanto indebitamente versato.
E analogamente ad ogni altra pattuizione contrattuale accessoria detta commissione, deve essere determinata o, almeno determinabile al momento in cui il contratto è stato concluso.
Tornando, sulla base di tali considerazioni, al caso specie, a rendere efficace la relativa clausola è la circostanza della specifica indicazione contenuta nelle condizioni di contratto, che pure in corso di esecuzione del rapporto (cfr. estratti conto prodotti) ha avuto ulteriore specificazione. In particolare, viene indicato inizialmente il tasso dello 0,125% fino a 30.000,00 e dello 0,2500, e viene pure indicato in che termini poteva trovare applicazione. A tali dati negoziali si aggiunge la circostanza che in sede di esecuzione del contratto, come rilevato dal CTU, la commissione è stata applicata “solamente in presenza del fido concesso”, e non sono stati rilevati errori di calcolo rispetto le pattuizioni previste. In altri termini, l’esperto ha potuto riscontrare la conformità delle modalità di calcolo della commissione alle previsioni negoziali, debitamente pattuite e determinate.
Quanto alla rilevanza della “commissione” ai fini del rispetto dei tassi soglia di cui alla normativa antiusura, qui le censure degli appellanti si soffermano sul criterio applicato dal CTU, che si è riferito alle “istruzioni per la determinazione dei tassi effettivi globali medi definite dalla (…)”, secondo gli appellanti invece non utilizzabili – quantomeno nella formulazione del 2006 – siccome non ricomprendenti tra gli oneri proprio la commissione di massimo scoperto, inserita solo nelle “Istruzioni” del 2009, cioè dopo la novella di cui si è detto in precedenza.
Ebbene, vale osservare innanzitutto che se è vero che le istruzioni della (…) non sono fonti di rango primario, si tratta di norme tecniche che trovano il loro fondamento nell’art. 2 della L. n. 108 del 7 marzo 1996, che espressamente demanda alla (…) funzioni consultive in materia di rilevazione di interessi medi praticati, sì che l’osservanza di dette istruzioni è pienamente conforme al dettato normativo. E oltre a ciò, vale evidenziare che la giurisprudenza del Supremo Collegio ha di recente chiarito che “con riferimento ai rapporti svoltisi, in tutto o in parte, nel periodo anteriore alla entrata in vigore della disposizione di cui all’articolo 2-bis del D.L. n. 185 del 2008, inserito dalla legge di conversione 2/2009, ai fini della verifica del superamento del tasso soglia della usura presunta come determinato in base alle disposizioni della L. n. 108 del 1996, va effettuata la separata comparazione del tasso effettivo globale d’interesse praticato in concreto e della commissione di massimo scoperto (Cms) eventualmente applicata – intesa quale commissione calcolata in misura percentuale sullo scoperto massimo verificatosi nel periodo di riferimento – rispettivamente con il tasso soglia e con la Cms-soglia calcolata aumentando della metà la percentuale della Cms media rientrante nella soglia, con il margine degli interessi eventualmente residuo, pari alla differenza tra l’importo degli stessi rientrante nella soglia di legge e quello degli interessi in concreto praticati” (Cassazione civile sez. un. 20/06/2018 n. 16303).
Nel caso di specie, dalla relazione di CTU emerge che l’esperto ha seguito tutti tali criteri (cfr. relazione scritta, coerente e lineare, logicamente sviluppata, pienamente esaustiva rispetto ai quesiti proposti dall’istruttore del giudizio di opposizione, di guisa che non è stato necessario procedere al rinnovo degli accertamenti).
Precisamente, in adesione al quesito, ha ricostruito “i rapporti bancari …considerando i trimestri in cui il tasso d’interesse praticato comprensivo di “commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, connesse all’erogazione del credito”, inclusa la commissione di massimo scoperto, abbia superato le soglie consentite dalla legge in materia di usura” (pag. 8 dell’elaborato), precisando altresì che ha ripreso i criteri delle Istruzioni della (…) (per il periodo antenovella del 2009) procedendo a confronto tra l’ammontare percentuale della CMS praticata e l’entità massima della CMS applicabile (cd. CMS soglia), desunta aumentando del 50% l’entità della CMS media pubblicata nelle tabelle: cioè applicando quel medesimo criterio indicato nella statuizione delle Sezioni Unite del Supremo collegio dianzi richiamata. Per il periodo successivo, lo stesso esperto ha fatto riferimento alle istruzioni della (…) modificate nel 2009, a seguito dell’entrata in vigore dell’articolo 2bis del D.L. n. 185 del 2008, precisando che nel calcolo del TEG sono stati inclusi gli oneri per la messa a disposizione dei fondi.
Ancora con riguardo alla verifica del rispetto dei cd. tassi – soglia, come detto gli appellanti hanno evocato la tesi del cd. anatocismo nascosto, che si sarebbe verificato per effetto della annotazione nel conto ordinario delle poste provenienti dal conto – anticipi, su cui già risultano addebitati i relativi specifici interessi, provocando un surrettizio incremento dei tassi di interesse applicati per effetto del collegamento, solo fattuale, tra il conto ordinario e il conto anticipi.
Deve sul punto premettersi che col termine “conto anticipi” si fa solitamente riferimento allo strumento contabile bancario destinato alla annotazione delle operazioni poste in essere con anticipo fatture o simili (contratti di anticipo fatture appunto, con disciplina mutuata dall’art. 1858 c.c. sullo sconto bancario); e ha la funzione di regolare, in un conto apposito e accessorio rispetto al conto cd. principale (conto corrente) le poste a credito e a debito scaturenti dalla negoziazione delle fatture.
Nel caso di specie, tale struttura si rinviene nell’allegato al testo negoziale del conto n. (…), esattamente laddove viene specificata la ‘forma tecnica’ in conto finanziamento (cfr. all. 7 della produzione versata col ricorso per ingiunzione).
Ebbene, rilevato che gli estratti conto attestano il periodico giroconto sul conto ordinario delle competenze maturate sul conto anticipi, i cui saldi evidenziano solo movimenti in conto capitale, vale osservare – come riscontrato pure dal ctu – che tale periodico giroconto sul conto ordinario, delle competenze maturate sul conto anticipi, è coerente con le previsioni contrattuali, appunto funzionali a creare strumento per la negoziazione anticipata con la banca delle fatture, trattenendo l’interesse inteso come costo dell’operazione. E se è vero che ciò potrebbe apparentemente produrre effetti analoghi a quelli della capitalizzazione degli interessi, vale osservare che l’interesse annotato nel conto (…) attiene appunto allo “sconto” della fattura, e con la complessiva operazione che, per scelta del contraente, veniva poi riversata nel conto ordinario, nel cui ambito va poi effettuata la verifica della disciplina dettata dalla L. n. 108 del 1996, con riguardo al complessivo montante degli interessi in questo appostati (tanto che il CTU, come peraltro accertato nella sentenza di prime cure su aspetto non oggetto di gravame, ha riscontrato usura evidentemente sopravvenuta in alcuni trimestri).
A supporto di tale opzione ermeneutica, oltre al dato della individuazione di differente saldo dei due rapporti, può essere utile richiamare, ancorché afferente il diverso ambito delle revocatorie fallimentari, la motivazione di Cassazione civile sez. I, 16/03/2018 n. 6575:
in tema di revocatoria fallimentare dei pagamenti effettuati alla banca da parte del correntista, le rimesse annotate sui conti anticipi non hanno natura solutoria e non sono revocabili, costituendo tali conti una mera evidenza contabile dei finanziamenti per anticipazioni su crediti concessi dalla banca al cliente, ove vengono annotati in “dare” le anticipazioni erogate al correntista ed in “avere” l’esito positivo della riscossione del credito, sottostante agli effetti commerciali presentati dal cliente. Il rapporto tra banca e cliente viene invece rappresentato esclusivamente dal saldo del conto corrente ordinario, ove affluiscono tutte le somme portate dai titoli, dalle ricevute bancarie o dalle carte commerciali presentate per l’incasso, che saranno oggetto di revocatoria nei limiti in cui abbiano contribuito a ridurre lo scoperto del conto medesimo.
Disattesi così i primi tre motivi di gravame, non diverso esito scaturisce dall’esame del quarto motivo, col quale gli appellanti richiamano le doglianze in punto di validità ed efficacia del contratto di fidejussione: censure, queste, che tuttavia non possono neppure essere compiutamente esaminate, per la estrema genericità delle allegazioni. Sul punto, riscrivono gli appellanti, pedissequamente, quanto già esposto alle pagine nn. 16 e 17 della citazione di primo grado, senza alcun richiamo alle diverse considerazioni poste nella sentenza impugnata a proposito della posizione dei fidejussori.
Perciò, il motivo – come peraltro rilevabile di ufficio – è inammissibile.
Secondo il costante orientamento della Suprema Corte (cfr. in ultimo Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12280 del 15/06/2016), infatti, “in materia di appello, affinché un capo di sentenza possa ritenersi validamente impugnato, non è sufficiente che nel gravame sia manifestata una volontà in tal senso, occorrendo, al contrario, l’esposizione di una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico – giuridico”.
Nel caso in esame, invece, manca del tutto il riferimento alla motivazione resa dal Tribunale (o anche alla sua carenza, nel senso evocato dall’appellante), essendosi limitata parte appellante a riproporre le argomentazioni spese in prime cure.
Per tutte tali considerazioni, il gravame principale, infondato, deve essere disatteso, con conferma della statuizione impugnata (risultando assorbito il motivo afferente le spese di lite, stante la soccombenza degli opponenti qui appellanti).
Da accogliere, invece, l’appello incidentale proposto da (…) s.p.a., relativo agli interessi da applicare sulle somme oggetto (comunque: cioè, quella minore accertata in prime cure rispetto l’importo complessivamente ingiunto) di condanna: con la statuizione, infatti, è stata disposta condanna al pagamento di interessi legali, e non convenzionali (per il conto n. (…)), senza che sul punto vi fosse doglianza specifica degli opponenti.
Peraltro, il tasso convenzionale risulta dal testo negoziale, dimostrato è l’inoltro, dopo il recesso dal contratto e la revoca dell’affidamento, di apposita missiva di costituzione in mora, di guisa che la statuizione di condanna va riformata, accordandosi, per il contratto n. 153, gli interessi corrispettivi, e per entrambi i rapporti con decorrenza dalla lettera di costituzione in mora del 07.9.2012.
Le spese di lite del presente grado seguono infine la soccombenza, e vanno liquidate come indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte di Appello di Palermo, Sezione III civile, ogni diversa e contraria istanza, domanda ed eccezione disattese, definitivamente pronunciando nel contraddittorio delle parti, così provvede:
rigetta l’appello proposto da (…) e (…) con atto di citazione del 03/06/2014 avverso la sentenza n. 758/2014 del 16/07/2014 del Tribunale di Trapani; in accoglimento dell’appello incidentale proposto da (…) S.P.A. e in parziale riforma della detta sentenza:
condanna (…) e (…), quali fideiussori della società (…) s.r.l., al pagamento in solido, in favore di (…) S.P.A., della somma di Euro 52.707,82, con riferimento al conto corrente n. (…), oltre interessi convenzionali dal 07.9.2012 sino al completo soddisfo, e della somma di Euro 31,13 in relazione al conto anticipi n. (…), oltre interessi al tasso legale dal 07.9.2012 sino al completo soddisfo; conferma nel resto l’impugnata sentenza.
Condanna (…) e (…), in solido, al pagamento delle spese di lite in favore di (…) S.P.A., e le liquida in complessivi Euro 6.247,00, di cui Euro 147,00 per anticipazioni, oltre rimborso forfetario, IVA e CP come per legge.
Si da atto della sussistenza dei presupposti (ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), per il versamento, a carico degli appellanti, di ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
Così deciso in Palermo il 7 gennaio 2019.
Depositata in Cancelleria il 16 gennaio 2019.