gli art. 1667 e 1668 c.c. (sulla responsabilità per difformità e vizi dell’opera) si applicano al contratto di subappalto con le seguenti differenze:
a) con riguardo all’opera eseguita dall’appaltatore, l’accettazione senza riserva dell’appaltatore resta condizionata dal fatto che il committente accetti a sua volta l’opera senza riserve;
b) l’appaltatore non può agire in responsabilità contro il subappaltatore prima ancora che il committente gli abbia denunciato la esistenza di vizi e difformità.
Ciò perché prima di tale momento, l’appaltatore è privo dell’interesse ad agire, atteso che il committente potrebbe accettare l’opera nonostante i vizi palesi, oppure non denunciare mai i vizi occulti, oppure denunciarli tardivamente, per cui di nulla potrebbe dolersi l’appaltatore perché nessun danno – non essendo il destinatario dell’opera – sarebbe a lui derivato dalla esistenza di difformità o vizi dell’opera realizzata dal subappaltatore.
Per ulteriori approfondimenti in merito al contratto di appalto, con particolare rifeferimento alla natura agli effetti ed all’esecuzione si consiglia il seguente articolo: L’appalto privato aspetti generali.
Tribunale Pescara, civile Sentenza 24 gennaio 2019, n. 112
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI PESCARA
OBBLIGAZIONI E CONTRATTI CIVILE
in composizione monocratica in persona del Giudice dott. Federico Ria ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella controversia civile in primo grado, iscritta al n. 660/15 R.A.C.C., vertente
TRA
Ma.Fe., Ri.Do., rappresentati e difesi con l’avv. Ca.Co. ed el.te dom.ti presso lo studio dello stesso, sito in Pescara, al corso (…), giusta procura speciale in atti
ATTORI
FR.LU., cod. fisc. (…) P. IVA (…) rappresentata e difesa dall’avv. An.Mo. ed el.te dom.ta presso lo studio dello stesso, sito in Pescara, alla via (…), giusta procura speciale in atti
CONVENUTO
E
Tg., cod. fisc. (…), rappresentata e difesa dall’avv. A.Gi., presso il quale è elettivamente domiciliato in Pescara alla Via (…), giusta mandato in calce alla copia notifica dell’atto di chiamata in causa,giusta procura speciale in atti.
CHIAMATO IN CAUSA
Oggetto: inadempimento appalto e altro; conclusioni: come da relativo verbale d’udienza, da ritenersi materialmente allegato alla presente sentenza.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con atto di citazione del 05/02/2015 gli attori citavano dinanzi al Tribunale di Pescara la ditta Fr.Lu. di Lu.Fr. per ivi sentire accogliere le seguenti conclusioni: “nel merito, accertare e dichiarare la responsabilità della ditta Fr.Lu., di Lu.Fr., in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, in ordine alla causazione dei vizi e difetti riscontrati sull’edificio in oggetto, così come accertati in sede di ATP ex art. 696 bis c.p.c., nonché accertare e dichiarare la responsabilità della ditta Fr.Lu., di Lu.Fr., in persona del suo legale rappresentante pro – tempore, con riguardo alla causazione dei gravi pregiudizi arrecati agli istanti ed ai loro familiari conviventi a seguito della mancata e/o ritardata riconsegna dei lavori, nei termini contrattualmente previsti, della mancata sistemazione dei vizi e difetti imputabili alla ditta appaltatrice, della mancata e/o ritardata consegna in favore al D. L. delle certificazioni sui provini di calcestruzzo, necessari al collaudo dell’opera ed alla chiusura dei lavori, dell’indebita ritenzione della documentazione relativa alla sicurezza del cantiere; e, per l’effetto di quanto tutto sopra, condannare la ditta Fr.Lu., di Lu.Fr., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, al pagamento della complessiva somma di Euro 46.609,13, oltre interessi e rivalutazione (di cui Euro 15.273,74 a titolo di risarcimento danni come da ATP, al netto delle somme riconosciute in favore della ditta Fr.Lu.; Euro 20.000,00 a titolo di danno esistenziale e conseguenze pregiudizievoli tutte subite; Euro 1.522,56 per spese legali ATP n. 2450/2012 RG; Euro 2.403,20 per spese legali di ATP n. 6023/2013 RG; Euro 7.409,63 per spese di CTU e CTP inerente ATP n. 6023/2013 RG) ovvero nella maggiore o minore somma ritenuta di giustizia, per ciò che attiene il danno esistenziale e conseguenze pregiudizievoli tutte subite, ovvero da liquidarsi secondo equità. Con vittoria di spese e competenze del presente giudizio….”.
Con il detto atto di citazione, i sig.ri Ma.Fe. e Ri.Do. deducono quanto segue:
1 – i sig.ri Fe.Ma. e Do.Ri. sono proprietari di un villino unifamiliare sito in Loreto Aprutino alla via (…), di recente costruzione;
2 – gli attori avevano appaltato la realizzazione del fabbricato di cui sopra alla ditta Fr.Lu. con sede in Loreto Aprutino (PE), stipulando un contratto d’appalto datato 28/03/2009 col quale era pattuita la data del 20/10/2009 quale termine di riconsegna dei lavori;
3 – gli attori avevano stipulato con la ditta Fr.Lu. un contratto in data 18/02/2010, col quale ordinavano variazioni dell’opera e prorogavano il termine di riconsegna dei lavori al 31/05/2010;
4 – la data di ultimazione dei lavori pattuita è un termine essenziale;
5 – gli attori avevano pagato alla ditta Fr.Lu. la somma complessiva di Euro 228.000,00;
6 – verso la fine del mese di maggio 2012 gli attori, attraverso il direttore dei lavori ing. Gi.Pa., avevano contestato alla ditta Fr.Lu. vizi e difformità nei lavori eseguiti; la medesima ditta aveva riconosciuto l’esistenza dei vizi e si era impegnata a rimuoverli;
7 – con lettere datate 03/08/2011, 31/08/2011, 25/10/2011 e 24/03/2012 gli attori avevano contestato alla ditta Fr.Lu. i vizi dei lavori eseguiti, il ritardo nell’esecuzione e l’errata contabilizzazione;
8 – gli attori avevano fatto ultimare i lavori da altri soggetti.
Si è costituita nel presente giudizio la ditta Fr.Lu., depositando fascicolo con comparsa di costituzione e risposta datata 29 aprile 2015, con la quale resiste alle domande degli attori e svolge una domanda riconvenzionale nei confronti dei medesimi attori e chiede di chiamare in causa il terzo la ditta Tg.. Con la comparsa di costituzione e risposta, avanzava le seguenti domande:
“l’illustrissimo Tribunale adito voglia:
– in via preliminare: fissare, ai sensi dell’art. 269 c.p.c., altra udienza per consentire alla comparente ditta Fr.Lu. la chiamata in causa del terzo ditta Tg., con sede legale in Via (…), località Congiunti, comune di Collecorvino (PE), P.Iva (…);
– in via principale: rigettare nei confronti della comparente ditta Fr.Lu. la domanda attorea perché inammissibile e improcedibile e priva di ogni fondamento sia in fatto sia in diritto;
– in via principale: accogliendo la svolta domanda riconvenzionale accertare e dichiarare che la ditta Fr.Lu. è ancora creditrice nei con-fronti degli attori Ma.Fe. e Ri.Do., per i lavori ricevuti in appalto da questi, della somma di Euro 22.978,19 oltre iva come per legge;
per l’effetto di tale accertamento, condannare i sig.ri Ma.Fe. e Ri.Do. a pagare alla ditta Fr.Lu. la somma di Euro 22.978,19 oltre iva come per legge oltre interessi e rivalutazione a far data dal mese di maggio 2011; disporre la compensazione dei rispettivi crediti e debiti; in via subordinata, nell’ipotesi di accoglimento della domanda attorea: dichiarare il terzo ditta Tg., tenuto a garantire e manlevare la ditta Fr.Lu. in relazione degli effetti dei vizi e difetti delle opere realizzate dalla stessa ditta Tg.; per l’effetto, condannare quest’ultimo a rimborsare alla ditta Fr.Lu. quanto questa dovrà pagare agli attori, sino alla concorrenza di Euro 14.012,36 oltre iva come per legge oltre interessi e rivalutazione; in ogni caso, condannare i sig.ri Ma.Fe. e Ri.Do. e la ditta Tg. a rimborsare alla ditta Fr.Lu. le spese, i compensi, le spese generali, oltre IVA e CPA come per legge”.
La ditta Tg. si costituiva depositando il 12/01/2016 la comparsa di costituzione datata 8/01/2016, con la quale chiede l’accoglimento delle seguenti conclusioni:
“1.- – dichiarare inammissibile, improcedibile e comunque infondata ogni domanda proposta nei confronti della Ditta Tr.Gi., con particolare riferimento alla domanda di manleva proposta in via di regresso dalla Ditta Fr.;
2. – con rivalsa di spese e competenze del giudizio da distrarsi in favore del sottoscritto procuratore antistatario”.
La difesa della ditta Tg. si fonda sull’assunto che “i lavori subappaltati alla Ditta Tr. sono stati da questa realizzati in esecuzione di precise ed inderogabili disposizioni tecnico – progettuali impartite dalla Ditta Fr.Lu., il che esclude ogni responsabilità in capo alla ditta subappaltatrice”.
Acquisite le ammesse, da parte del precedente assegnatario, prove orali all’udienza di discussione del 13.12.2018, la causa veniva trattenuta in decisione ex art. 281 quinquies secondo comma c.p.c.
In punto poi di qualificazione della domanda principale, occorre premettere in punto di mero diritto quanto segue.
Il giudice di merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sita cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, si come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Cassazione civile, sez. VI, 02/04/2012, n. 5265 e 13945/12). Spetta al giudicante dare una qualificazione giuridica della domanda proposta dalla parte attrice, secondo il brocardo latino da mihi factum dabo tibi ius. Infatti, in tema d’interpretazione della domanda, il giudice di merito è tenuto a valutare il contenuto sostanziale della pretesa, alla luce dei fatti dedotti in giudizio e a prescindere dalle formule adottate. Ne consegue che è necessario, a questo fine, tener conto anche delle domande che risultino implicitamente proposte o necessariamente presupposte, in modo da ricostruire il contenuto e l’ampiezza della pretesa secondo criteri logici che permettano di rilevare l’effettiva volontà della parte in relazione alle finalità concretamente perseguite dalla stessa (Tribunale Catanzaro, sez. II, 02/02/2012).
Il giudice di merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto a uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, così come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia in relazione alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell’effettivo suo contenuto sostanziale. In particolare, il giudice non può prescindere dal considerare che anche un’istanza non espressa può ritenersi implicitamente formulata se in rapporto di connessione con il “petitum” e la “causa petendi” (Tribunale Roma, sez. IX, 10/09/2010, n. 18149).
Secondo il combinato disposto di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c., appare non vincolante per il giudice la indicazione nominalistica dell’intrapresa azione ed il suo referente normativo, dovendo ricordare come anche il principio iura novit curia imponga al giudicante una prioritaria qualificazione dell’azione in ragione dei fatti dedotti ed una conseguente applicazione degli strumenti legislativi che ritiene più opportuni per il caso di specie, pur sempre rimanendo nel circoscritto ambito operativo delineato dalle condizioni dell’azione (Tribunale Castrovillari, 30/06/2012).
Premessa metodologica in punto di acquisizioni tecniche.
Il giudice del merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, ai rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento; non è quindi necessario che egli si soffermi sulle contrarie deduzioni dei consulenti di fiducia che, anche se non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili con le argomentazioni accolte; le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in tal caso in mere allegazioni difensive, che non possono configurare il vizio di motivazione previsto dall’art. 360, n. 5, c.p.c. (Cassazione civile, sez. III, 30/04/2009, n. 10123).
All’esito dell’espletata ctu, le cui conclusioni, immuni da vizi logici e profili di censurabilità devono essere ampiamente condivise anche a confutazione dei rilievi tecnici di parte, è rimasto accertato come all’intervento commissionato dagli istanti alla ditta appaltatrice fossero imputabili i numerosi e gravi difetti elencati dal perito al punto 10.1. della relazione in atti; vizi e difetti tutti già oggetto di specifica contestazione, sia pure differita nel tempo in concomitanza con il loro disvelamento, da parte dei committenti.
Al di là allora dei formali richiami codicistici operati dalla difesa delle parti attrici (ma si veda comunque almeno il contenuto della conclusionale della ditta chiamata che fa espresso riferimento alla norma di cui all’art. 1669 cc) appare del tutto evidente come la parte attrice agisca nei confronti della parte convenuta, nella sua qualità di parte appaltatrice dei lavori commissionati dalla stessa per la realizzazione dell’immobile in questione, assumendo la sussistenza di gravi vizi e difetti ai sensi e per gli effetti dell’art. 1669 c.c.
In punto di diritto occorre preliminarmente evidenziare quanto segue.
L’art. 1669 c.c. disciplina, oltre la rovina o il pericolo di rovina dell’opera per vizio del suolo o per difetto della costruzione, anche la distinta ipotesi che l’opera stessa presenti gravi difetti, consistenti in quelle alterazioni che, in modo apprezzabile, riducono il godimento del bene nella sua globalità, pregiudicandone la normale utilizzazione in relazione alla sua funzione economica e pratica e secondo la sua intrinseca natura.
I gravi difetti che danno luogo a responsabilità del costruttore nei confronti dell’acquirente ex art. 1669 c.c. sono ravvisabili non solo nell’ipotesi di rovina o di pericolo di rovina dell’immobile, ma anche in presenza di fatti che, senza influire sulla stabilità, pregiudichino in modo grave la funzione cui l’immobile è destinato e dunque, come nella fattispecie al vaglio, la godibilità e la fruibilità dello stesso sotto l’aspetto abitativo, come quando la realizzazione è avvenuta con materiali inidonei e/o non a regola d’arte e anche incidenti su elementi secondari e accessori dell’opera (quali impermeabilizzazione, rivestimenti, infissi, pavimentazione, impianti) purché tali da compromettere la sua funzionalità e l’abitabilità ed eliminabili solo con lavori di manutenzione (Tribunale Monza, 19/03/2013 e Cassazione civile, sez. II, 17/04/2013, n. 9370 a da ultimo Trib. Teramo 12.2.2015 n. 216) e Cass. VIA n. 24188/14).
Più in particolare poi, tra i gravi difetti di costruzione per i quali è operante a carico dell’appaltatore la garanzia prevista dall’art. 1669 c.c. rientrano ad esempio le infiltrazioni d’acqua determinate da carenze della impermeabilizzazione perché incidono sulla funzionalità dell’opera menomandone il godimento (Tribunale Modena, sez. I, 22/05/2012, n. 864 e Tribunale Arezzo, 20/01/2015, n. 54).
Come si evince allora dal mero vaglio delle risultanze di ctu, ben possono i numerosi e gravi vizi riscontrati consentire l’inquadramento della presente fattispecie nell’ambito di quella disposizione.
L’art. 1669 c.c. poi, benché collocato tra le norme disciplinanti il contratto di appalto è diretto alla tutela della esigenza di carattere generale della conservazione e funzionalità degli edifici e degli altri immobili destinati per loro natura a lunga durata. L’azione di responsabilità prevista da detta norma, pertanto, ha natura extracontrattuale e, trascendendo il rapporto negoziale (appalto o vendita) in base al quale l’immobile è pervenuto nella sfera di un soggetto diverso dal costruttore, può essere esercitata nei confronti di questo ultimo, quando abbia veste di venditore, anche da parte degli acquirenti i quali, in tema di gravi difetti dell’opera, possono fruire dei termini decennale di prescrizione ed annuale di decadenza (Cassazione civile, sez. II, 27/11/2012, n. 21089 Cassazione civile, sez. II, 16/04/2014, n. 8893).
Nell’ipotesi in cui sia convenuto in giudizio ex art. 1669 c.c. il venditore di immobile, il giudice di merito non può limitarsi a verificare se l’opera sia stata direttamente realizzata dal convenuto medesimo, ma deve anche accertare se la costruzione sia ugualmente a lui riferibile per avere egli almeno mantenuto il potere di direttiva ovvero di controllo sull’operato di altri soggetti (Cassazione civile, sez. II, 08/05/2013, n. 10893), secondo tuttavia i principi che si andranno ad esporre oltre in maniera più approfondita.
La disposizione dell’art. 1669 c.c. configura una responsabilità extracontrattuale di ordine pubblico, sancita per finalità di interesse generale, che trascende i confini dei rapporti negoziali tra le parti. Pertanto l’azione di responsabilità precisata dalla suddetta norma può essere esercitata non solo dal committente contro l’appaltatore, ma anche dell’acquirente contro il venditore che abbia costruito l’immobile sotto la propria responsabilità, senza che abbia rilievo la specifica identificazione del rapporto giuridico in relazione al quale la costruzione è stata effettuate (Cass. 28.4.2004 n. 8140). Ne consegue che l’applicazione dell’art. 1669 c.c. nei confronti del venditore è giustificata allorché la posizione da lui assunta nei confronti degli acquirenti abbia evidenziato l’assunzione da parte del soggetto di una diretta responsabilità nella costruzione dell’opera. In altri termini, la disciplina ex art. 1669 c.c. si applica non solo nei confronti dell’appaltatore ma anche nei riguardi del progettista, del direttore dei lavori e dello stesso committente che si sia avvalso di detti ausiliari e la relativa responsabilità esula dai limiti del rapporto contrattuale corso tra le parti, per assumere la configurazione propria della responsabilità da fatto illecito: infatti le attività dell’appaltatore come quella del progettista e del direttore di lavori pur essendo i contratti ai quali si ricollegano di diversa natura – possono concorrere tutte alla produzione del danno.
In tema di contratto di appalto, il vincolo di responsabilità solidale fra l’appaltatore ed il progettista e direttore dei lavori, i cui rispettivi inadempimenti abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno risentito dal committente, trova fondamento nel principio di cui all’art. 2055 c.c., il quale, anche se dettato in tema di responsabilità extracontrattuale, si estende all’ipotesi in cui taluno degli autori del danno debba rispondere a titolo di responsabilità contrattuale (Cassazione civile, sez. II, 27/08/2012, n. 14650 e Tribunale Roma, sez. X, 16/10/2012, n. 19359).
Quando l’opera appaltata presenta gravi difetti dipendenti da errata progettazione il progettista è responsabile, con l’appaltatore, verso il committente, ai sensi dell’art. 1669 c.c., a nulla rilevando in contrario la natura e la diversità dei contratti cui si ricollega la responsabilità, rendendosi sia l’appaltatore che il progettista, con le rispettive azioni od omissioni – costituenti autonomi e distinti illeciti o violazioni di norme giuridiche diverse, concorrenti in modo efficiente a produrre uno degli eventi dannosi tipici indicati nel medesimo art. 1669 c.c. – entrambi autori dell’unico illecito extracontrattuale, e perciò rispondendo, a detto titolo, del danno cagionato. Trattandosi di responsabilità extracontrattuale, specificamente regolata anche in ordine alla decadenza ed alla prescrizione, non spiega alcun rilievo la disciplina dettata dagli art. 2226, 2330 c.c. e si rivela ininfluente la natura dell’obbligazione – se di risultato o di mezzi – che il professionista assume verso il cliente committente dell’opera data in appalto (Cassazione civile, sez. II, 21/05/2012, n. 8016).
Ancora in punto di diritto.
La responsabilità extracontrattuale prevista dall’art. 1669 c.c. è una responsabilità presunta iuris tantum, sicché, quando l’opera manifesta gravi difetti strutturali, i responsabili possono liberarsene solo provandone l’ascrivibilità al caso fortuito o all’opera di terzi (Cassazione civile, sez. III, 17/01/2013, n. 1026).
Il danneggiato usufruisce poi di quel più ampio termine prescrizionale (10 anni, come il termine prescrizionale dell’azione contrattuale), ma gli sono imposti oneri decadenziali (analogamente all’azione contrattuale di vendita, appalto e contratto d’opera e sia pure più ampi di questi) non previsti invece nell’ipotesi dell’ordinaria azione extracontrattuale, soggetta tuttavia questa a termine prescrizionale più breve (5 anni).
Va peraltro per inciso chiarito come l’eventuale inapplicabilità di quella disposizione che introduce quella più gravosa responsabilità extracontrattuale, ad esempio per sopravvenuta maturazione dei brevi termini di decadenza e prescrizione, non esclude che riprenda completo vigore la norma generale di cui all’art. 2043 c.c. e che pertanto in capo al danneggiato resti la possibilità di perseguire gli asseriti danneggianti (non venditore, salvo specifico concorso, ma costruttore, professionisti e concorrenti vari) in forza di tale disposizione, entro il termine prescrizionale di cinque anni (ma senza decadenze) ed in base al meno favorevole regime probatorio per il danneggiato predisposto da tale disposizione.
Va infatti richiamato l’insegnamento della Suprema Corte, secondo cui in tema di responsabilità dell’appaltatore per gravi difetti dell’opera, sono ammissibili, rispetto al medesimo evento, sia l’azione prevista dall’art. 1669 cod. civ., che l’azione contemplata dall’art. 2043 cod. civ., norma generale sulla responsabilità per fatto illecito. L’azione ex art. 1669 cod. civ. si pone in rapporto di specialità rispetto alla seconda, risultando questa esperibile quando in concreto la prima non lo sia, perciò anche nel caso di danno manifestatosi e prodottosi oltre il decennio dal compimento dell’opera (Cass. civ., Sez. I, 12/04/2006, n. 8520).
L’art. 1669 c.c., nonostante la sua collocazione nell’ambito della disciplina del contratto d’appalto, dà luogo ad un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale, la quale, pur presupponendo un rapporto contrattuale, ne supera i confini e si configura come obbligazione derivante dalla legge per finalità e ragioni di carattere generale, costituite dall’interesse pubblico – trascendente quello individuale del committente – alla stabilità e solidità degli immobili destinati ad avere lunga durata, a preservazione dell’incolumità e sicurezza dei cittadini; e, sotto tale profilo la norma si pone in rapporto di specialità con quella generale di cui all’art. 2043 c.c., che trova applicazione solo ove non risulti applicabile quella speciale, ed attribuisce legittimazione ad agire contro l’appaltatore ed eventuali soggetti corresponsabili non solo al committente ed ai suoi aventi causa (ivi compreso l’acquirente dell’immobile), ma anche a qualunque terzo che lamenti essere stato danneggiato in conseguenza dei gravi difetti della costruzione, della sua rovina o del pericolo della rovina di essa (Cass. civ., Sez. III, 28/01/2005, n. 1748).
Secondo il riferito insegnamento “la natura di norma speciale dell’art. 1669 c.c. rispetto all’art. 2043 c.c. (…) presuppone l’astratta applicabilità delle due norme, onde, una volta che la norma speciale non possa essere in concreto applicata, permane l’applicabilità della norma generale”, in virtù di una tesi coerente con le ragioni della qualificazione della responsabilità ex art. 1669 c.c. come extracontrattuale, consistenti nell’esigenza di “offrire ai danneggiati dalla rovina o dai gravi difetti di un edificio una più ampia tutela” (Cass. n. 3338 del 1999). Infatti, come è stato bene osservato in dottrina, da detta configurazione si desume che l’art. 1669 c.c. non è norma di favore diretta a limitare la responsabilità del costruttore, ma mira a garantire una più efficace tutela del committente, dei suoi aventi causa e dei terzi in generale. Il legislatore ha con essa stabilito un più rigoroso regime di responsabilità rispetto a quello previsto dall’art. 2043 c.c., caratterizzato dalla presunzione juris tantum di responsabilità dell’appaltatore, che è stata tuttavia limitata nel tempo, in virtù di un bilanciamento tra le contrapposte esigenze di rafforzare la tutela di un interesse generale e di evitare che detta presunzione si protragga per un tempo irragionevolmente lungo.
Pertanto, se la ratio dell’art. 1669 c.c. è quella di introdurre una più incisiva tutela, è coerente con la medesima l’applicabilità dell’art. 2043 c.c., nel caso in cui non sussistano le condizioni previste dalla prima norma, essendo in generale ammissibile la coesistenza di due azioni diversificate quanto al regime probatorio e potendo la parte agire non avvalendosi delle facilitazioni probatorie stabilite per una di esse. Una diversa soluzione va respinta, in quanto comporta una indebita restrizione dell’area di tutela stabilità dalla norma fondamentale in materia di responsabilità extracontrattuale e, in palese contrasto con l’armonia del sistema e con le ragioni alla base della previsione della disciplina speciale, conduce all’irragionevole risultato di creare “un regime di responsabilità più favorevole per i costruttori di edifici, perché esclude ogni forma di responsabilità in situazioni che potrebbero ricadere nell’ambito – in linea di principio illimitato – dell’art. 2043 c.c., come nel caso di danno prodottosi oltre il decennio dal “compimento” dell’opera” (così, espressamente, Cass. n. 338 del 1999; analogamente, di recente, Cass. n. 1748 del 2005, riportati in Cass. 8520/2006 – già cit. – in motivazione).
L’art. 1669 c.c. è da ricondurre nell’alveo della responsabilità extracontrattuale, al fine di consentire a coloro che sono stati danneggiati da gravi difetti (rovina) dell’edificio, una tutela non minore, ma anzi, come vuole il legislatore, rafforzata rispetto a quella che sarebbe loro offerta dall’art. 2043 c.c. Se così non fosse, i danneggiati si troverebbero paradossalmente preclusa la strada risarcitoria generica proprio da una norma che è stata invece dettata per ampliare gli spazi di tutela (Cassazione civile, sez. II, 13/01/2014, n. 467).
Nei confronti del venditore o dell’appaltatore peraltro la parte acquirente o committente conserva anche la possibilità di agire in via contrattuale.
A monte di tale affermazione sta peraltro il rilievo in ordine alla tempestività delle rispettive denunce e delle domande.
Ancora in relazione a tale ultimo aspetto ed in punto di mero diritto.
In tema di responsabilità dell’appaltatore per rovina e difetti di cose immobili ai sensi dell’art. 1669 c.c. (ma la stessa valutazione può compiersi anche in relazione agli oneri decadenziali prescritti per la vendita o per l’appalto), l’identificazione degli elementi conoscitivi necessari e sufficienti perché possa individuarsi la scoperta del vizio ai fini del computo del termine decadenziale della denuncia e poi, da essa, del termine di prescrizione del diritto del committente al risarcimento, deve effettuarsi sia con riguardo alla gravità dei difetti dell’edificio che con riguardo al collegamento causale dei dissesti all’attività progettuale e costruttiva espletata. Pertanto, non potendosi onerare il danneggiato della proposizione di azioni generiche a carattere esplorativo, la conoscenza completa idonea a provocare la decorrenza del doppio termine (decadenziale e prescrizionale) dovrà ritenersi acquisita, in assenza di anteriori esaustivi elementi, solo all’atto dell’acquisizione delle disposte relazioni peritali. Quanto precede, peraltro, non significa che il ricorso a un accertamento tecnico possa giovare al danneggiato quale escamotage onde essere rimesso in termini, quando avesse avuto già conoscenza della entità e delle cause del vizio, ma solo che compete al giudice del merito accertare se la conoscenza dei vizi e della loro consistenza fosse stata tale da consentire una loro consapevole denuncia prima e una non azzardata iniziativa giudiziale poi, anche in epoca precedente, pur senza l’ulteriore supporto del parere di un perito (Cassazione civile, sez. II, 27/11/2012, n. 21089).
Lo scopo dell’imposizione di un termine di decadenza per la denunzia e di prescrizione della essa per l’esercizio dell’azione, soprattutto per opere costruttive complesse e che, come quella del caso in esame, abbiano visto la partecipazione di più soggetti con compiti esecutivi compositi, è quello di non onerare il danneggiato della proposizione di azioni generiche a carattere esplorativo (così ex multis: Cass. Sez. 2 n. 1613/1998) e logicamente presuppone una conoscenza sufficientemente completa del vizio e della responsabilità per lo stesso (Cassazione civile, sez. II, 16/02/2015, n. 3040).
La denuncia, per far decorrere i termini de quibus deve avere quindi le caratteristiche di ragionevole certezza dell’evento e della catena eziologica che lo colleghi all’agente non essendo sufficiente fare riferimento a manifestazioni di scarsa rilevanza ed a semplici sospetti (Tribunale Savona, 11/03/2014).
L’identificazione degli elementi conoscitivi necessari e sufficienti onde possa individuarsi la “scoperta” del vizio ai fini del computo dei termini deve effettuarsi con riguardo quindi tanto alla gravità dei vizi quanto al collegamento causale di essi con l’attività espletata, si che, non potendosi onerare il danneggiato di proporre senza la dovuta prudenza azioni generiche a carattere esplorativo o comunque suscettibili di rivelarsi infondate, la conoscenza completa, idonea a determinare il decorso del termine, dovrà ritenersi conseguita, in assenza di convincenti elementi contrari anteriori, solo all’atto dell’acquisizione d’idonei accertamenti tecnici; per il che, nell’ipotesi di gravi vizi la cui entità e le cui cause, a maggior ragione ove già oggetto di contestazioni tra le parti, abbiano, anche per ciò, rese necessarie indagini tecniche, è consequenziale ritenere che una denunzia di gravi vizi possa implicare un’idonea ammissione di valida scoperta degli stessi tale da costituire il dies a quo per la decorrenza del termine ed, a maggior ragione, tale da far supporre una conoscenza dei difetti di tanto antecedente da implicare la decadenza, solo quando, in ragione degli effettuati accertamenti, risulti dimostrata la piena comprensione dei fenomeni e la chiara individuazione ed imputazione delle loro cause, per l’un effetto, alla data della denunzia e, per l’altro, a data ad essa convenientemente anteriore (Cassazione civile, sez. II, 17/12/2013, n. 28202)
E’ evidente allora come prima del deposito della relazione in atp, l’istante si fosse soltanto limitato a “notiziare” della situazione dello stabile la controparte senza peraltro formulare, al di là di meri ed atecnici sospetti, alcuna specifica e concreta ipotesi in punto di ascrivibilità di quei difetti, oltretutto appresi nella loro complessiva gravità solo all’esito del deposito di quell’elaborato, all’intervento commissionato, anche tenuto conto che i vizi ancora “in itenere” da scoprire erano stai peraltro concretamente realizzati dalla ditta sub-appaltante.
Ciò premesso in punto di diritto, occorre allora affermare come, tenendo conto del momento del deposito della relazione peritale, la parte abbia tempestivamente agito poi entro l’anno da tale termine nei confronti della parte convenuta.
Formula in prima battuta l’istante l’azione quanti minoris.
Non sussiste allora incompatibilità tra gli artt. 1667 e 1669 c.c., potendo il committente di un immobile che presenti “gravi difetti” invocare, oltre al rimedio risarcitorio del danno (contemplato soltanto dall’art. 1669 c.c.), anche quelli previsti dall’art. 1668 c.c. (eliminazione dei vizi, riduzione del prezzo, risoluzione del contratto) con riguardo ai vizi di cui all’art. 1667 c.c., purché non sia incorso nella decadenza stabilita dal comma 2 di quest’ultimo, dovendosi ritenere che, pur nella diversità della natura giuridica delle responsabilità rispettivamente disciplinate dalle anzidette norme (l’art. 1669 c.c., quella extracontrattuale, l’art. 1667 c.c., quella contrattuale), le relative fattispecie si configurino l’una (l’art. 1669 c.c.) come sottospecie dell’altra (art. 1667 c.c.), perché i “gravi difetti” dell’opera si traducono inevitabilmente in “vizi” della medesima, sicché la presenza di elementi costitutivi della prima implica necessariamente la sussistenza di quelli della seconda, continuando ad applicarsi la norma generale anche in presenza dei presupposti di operatività di quella speciale, così da determinare una concorrenza delle due garanzie, quale risultato conforme alla “ratio” di rafforzamento della tutela del committente sottesa allo stesso art. 1669 c.c. (Cassazione civile, sez. I, 19/01/2016, n. 815).
Nella fattispecie la vaglio, come visto, l’istante agisce nei confronti della parte convenuta ex art. 1669 c.c. nella sua qualità di committente, onde in applicazione dei principi sin qui esposti può ritenersi che, pur eventualmente decaduto dalla proposizione della azione quanti minoris (per il mancato rispetto del termine ex art. 1667 secondo comma cc) allo stesso risultato “economico” si debba pervenirsi anche solo accogliendo la domanda risarcitoria ex art. 1669 cit. (e si noti come nella sua applicazione residuale, come detto, tale responsabilità andrebbe comunque applicata pur in presenza dell’essersi maturata qualsiasi decadenza e con il solo termine prescrizionale di 5 anni secondo la regola generale di cui all’art. 20143 cc).
Il costo dell’eliminazione dei difetti è infatti comunque parte del generico ed onnicomprensivo danno risarcibile ex art. 1669 cit., (Cassazione civile, sez. II, 27/02/2014, n. 4744)
Il committente, esercitando l’actio quanti minoris, ha diritto di chiedere una diminuzione del prezzo pattuito in una percentuale pari a quella rappresentante la menomazione che il valore effettivo della cosa consegnata subisce a causa dei vizi, in modo tale da essere posto nella situazione economica equivalente a quella in cui si sarebbe trovato se la cosa fosse stata immune da vizi (Cassazione civile, sez. II, 21/05/2008, n. 12852).
All’esito della disposta ctu è rimasto accertato come mediante l’impiego di una spesa pari a 32.107,43 Euro, l’immobile sarebbe rimesso nella situazione equivalente rispetto a quella in cui si sarebbe trovato qualora la cosa fosse stata immune da vizi.
Dunque a titolo di riduzione del prezzo, e comunque a titolo risarcitorio, va in prima battuta riconosciuto in favore dell’istante il diritto a conseguire la somma di Euro 32.107,43.
Rientrando poi nell’alveo puramente risarcitorio, si rileva come l’istante invochi la richiesta di condanna della controparte al pagamento degli esborsi sostenuti in via giudiziale e stragiudiziale per il riscontro dei suddetti vizi nonché il risarcimento del cd danno non patrimoniale.
Il rimborso delle spese di assistenza stragiudiziale ha natura di danno emergente, consistente nel costo sostenuto per l’attività svolta da un tecnico in genere in detta fase pre – contenziosa. L’utilità di tale esborso, ai fini della possibilità di porlo a carico del danneggiante, deve essere valutata ex ante, cioè in vista di quello che poteva ragionevolmente presumersi essere l’esito futuro del giudizio. Da ciò consegue il rilievo che l’attività stragiudiziale, anche se svolta da un avvocato, è comunque qualcosa d’intrinsecamente diverso rispetto alle spese processuali vere e proprie. Ne deriva che, se la liquidazione deve avvenire necessariamente secondo le tariffe professionali, essa resta soggetta ai normali oneri di domanda, allegazione e prova secondo l’ordinaria scansione processuale, al pari delle altre voci di danno emergente. Il che comporta che la corrispondente spesa sostenuta non è configurabile come danno emergente e non può, pertanto, essere riversata sul danneggiante quando sia, ad esempio, superflua ai fini di una più pronta definizione del contenzioso, non avendo avuto in concreto utilità per evitare il giudizio o per assicurare una tutela più rapida risolvendo problemi tecnici di qualche complessità (Cass. n. 9548 del 2017). Le spese in esame, pertanto, non sfuggono ai generali presupposti di risarcibilità di cui agli art. 1223 e 1227 c.c. Ciò vuol dire che, da un lato, esse devono essere una conseguenza immediata e diretta del sinistro (sicché, ad esempio, non sarebbe risarcibile la spesa sostenuta per ricorrere all’ausilio di un legale che ponesse rimedio agli errori commessi da altro precedente); dall’altro, non devono essere ascrivibili a colpa del danneggiato, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c. E le spese stragiudiziali costituiscono un danno ascrivibile a colpa del danneggiato quando, con l’uso dell’ordinaria diligenza, potevano essere evitare o sostenute in misura inferiore (sicché, ad esempio, non sarebbe risarcibile una spesa del tutto esorbitante rispetto al tipo di prestazione richiesta e ai valori medi di mercato).
Tanto premesso, non resta che rilevare come parte attrice insti per la condanna della controparte al pagamento degli esborsi sostenuti per assistenza stragiudiziale e giudiziale in atp, per una somma corrispondente alle spese sostenute (come da fattura) per la redazione di consulenza di parte stragiudiziale, per spese di ctu in atp nonché per le spese legali maturate nell’ambito del procedimento di atp per un totale di 11.362,39 Euro.
In ordine al c.d. danno esistenziale ritiene lo scrivente di dover aderire a quell’indirizzo interpretativo, recentemente avallato in sede di SS.UU., in virtù del quale, in presenza di una lesione all’integrità psico – fisica, il danno alla vita di relazione costituisce una componente del danno biologico perché si risolve nell’impossibilità o nella difficoltà di reintegrarsi nei rapporti sociali per gli effetti di tale lesione e di mantenerli ad un livello normale, cosicché quest’ultimo non è suscettibile di autonoma valutazione rispetto al danno biologico, ancorché costituisca un fattore di cui il giudice deve tener conto per accertare in concreto la misura di tale danno ed adattarlo alle peculiarità del caso (Cass. III n. 10123/09, 9514/07, 9510/07 e 23918/06).
All’indirizzo sin qui esposto, cui, come detto, lo scrivente ritiene con convinzione di dover aderire, parrebbe contrapporsi altro recente indirizzo che, almeno nell’esposizione dei principi, sembrerebbe prospettare, all’interno del danno non patrimoniale, una differenziazione tra danno morale soggettivo, danno biologico, come lesione all’integrità psico – fisica ed accertabile in sede medico – legale, e danno appunto esistenziale, quale pregiudizio che determina una modifica peggiorativa della personalità, da cui consegue uno sconvolgimento delle abitudini di vita, con alterazione del modo di rapportarsi agli altri nell’ambito della comune vita di relazione, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare. In tale ambito si sono mosse di recente la IIA sezione della Corte di Cassazione con la decisione n. 9861/07, la stessa IIIA sezione con le decisioni n. 2546/07, in realtà questa solo per rilevare, con quella spiegata “diversità ontologica”, la tardività, per novità della domanda, di una richiesta di liquidazione del danno esistenziale formulata oltre i termini preclusivi, e n. 2546/07 per una del tutto particolare ipotesi di danno sessuale, la sezione Lavoro con le decisioni n. 5221/07 e 22551/06 e numerose decisioni in sede di AGA in materia di pubblico impiego e comportamenti violativi dell’art. 2043 c.c. da parte della PA (TAR Piemonte I n. 2623/07 e TAR Lombardia IVA n. 1949/07).
La sensazione allora che ricava lo scrivente dalla lettura delle suddette ultime decisione è che al riconoscimento di una autonoma figura di danno esistenziale, al di là delle affermazioni in linea di principio fondate su una differenziazione dal biologico e quindi su una prospettabile cumulabilità con lo stesso, in quelle decisioni si pervenga nel momento in cui, accertata l’idoneità della condotta almeno colposa altrui a determinare uno sconvolgimento delle abitudini di vita, con compromissione di ogni ambito relazionale, si prescinde completamente per le caratteristiche specifiche della fattispecie da una incidenza sulla integrità psico-fisica del danneggiato. Non a caso infatti quelle affermazioni risultano adottate in fattispecie, come i rapporti lavorativi, i rapporti con la PA, le ipotesi di ingiuria e diffamazione e nell’ambito del risarcimento del danno c.d. “parentale”, ove la condotta colposa altrui, pur non incidendo sull’integrità psico – fisica del danneggiato e che quindi non può essere riscontrabile a mezzo di valutazione medico – legale, è senza alcun dubbio idonea ad alterare il diritto a proseguire una vita normale. E proprio ripercorrendo l’incipit dell’indirizzo ancora propugnato dalle citate Cass. IQA n. 9514/07, 9510/07 e 23918/06, secondo cui, come visto, “in presenza di una lesione all’integrità psico – fisica il danno alla vita di relazione costituisce una componente del danno biologico”, sembrerebbe trovarsi conferma all’affermazione che laddove non si verifichi quella lesione, ma comunque si riscontri un’alterazione delle normali condizioni di vita, possa e debba trovare spazio una forma di risarcimento al danno esistenziale, anche se certamente meno pregnante rispetto al biologico, che, come detto, dove si riscontra, lo contiene proprio.
Nella fattispecie al vaglio allora non deduce né tantomeno comprova la parte istante che dal dedotto inadempimento siano derivate lesioni alla propria integrità psico-fisica e tuttavia, a giudizio dello scrivente, negare il diritto al ristoro di un danno che effettivamente, come si vedrà, si è verificato nella vita della stessa e nel suo dinamico divenire, appare affermazione che susciterebbe almeno perplessità.
Le recenti sentenze di San Martino della Cassazione hanno provveduto alla completa e totale revisione del danno non patrimoniale, pronunciandosi, altresì sul danno non patrimoniale riconducibile all’inadempimento contrattuale.
Sia pur per sommi capi, appare opportuno riportare le conclusioni raggiunte dalla Corte.
La Corte, preliminarmente, nel corpo della propria motivazione, afferma la bipolarità del sistema risarcitorio, articolantesi nelle due poste di danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e non patrimoniale (art. 2059 c.c.), così ribadendo quanto già affermato, con altrettante decisioni storiche emanate nell’anno 2003.
Precisa, inoltre, che mentre la prima voce rimane tradizionalmente atipica, in quanto volta ad attribuire meritevolezza ad ogni interesse giuridicamente rilevante, come, peraltro già precisato e non più posto in discussione, da altra storica decisione, la n. 500 del 1999; la seconda deve qualificarsi, al contrario, come tipica.
Tre, infatti, sono le ipotesi nelle quali, ad avviso della Corte, il danno non patrimoniale può trovare ingresso nell’ordinamento: a) in ipotesi di fatto costituente reato, atteso il tradizionale collegamento della norma di cui all’art. 2059 c.c. con quella di cui all’art. 185 c.p.; b) in caso di riconoscimento espresso da parte del legislatore di un danno non patrimoniale; c) in presenza di lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.
In tale ultima ipotesi, peraltro, la selezione del danno viene ad essere svolta dal giudice, con valutazione che non può prescindere dalla individuazione della sussistenza degli elementi strutturali dell’art. 2043 c.c., condotta, danno e nesso causale.
Proprio nella consapevolezza del potere discrezionale del giudice nella individuazione di tali diritti, ed in particolare nella consapevolezza della capacità dilatatoria delle previsioni di cui all’art. 2 della Costituzione, la Corte, dopo aver censurato l’indiscriminato riconoscimento di tutela concesso sia dai giudici di merito, sia dalle stesse sezioni semplici, connesso al riconoscimento di un non riconoscibile e non tutelabile diritto alla felicità, precisa quali siano i confini entro i quali il giudice, nell’esercizio del detto potere debba attenersi.
Si afferma, così, che il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, come tale in grado di cagionare un serio pregiudizio e che la lesione debba eccedere una soglia minima di offensività.
“Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.)”.
Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico.
Precisa, pertanto, che ogni pregiudizio di tipo esistenziale risulta risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno, mentre, non risulta possibile riconoscere tutela risarcitoria se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona.
In particolare, per quel che attiene ai danni, tradizionalmente individuati come bagatellari, la Corte afferma espressamente che “Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell’animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall’individuazione dell’interesse leso, e quindi del requisito dell’ingiustizia”.
In altri termini, poiché le Sezioni Unite hanno attribuito rilevanza ai soli danni aventi ad oggetto la lesione di un diritto costituzionalmente garantito, occorre individuare, all’interno della nostra Carta costituzionale,
copertura legale alla tutela di un pregiudizio e tanto appare necessario, ma anche sufficiente.
In un ambito, quale quello del danno non patrimoniale, in cui vige il principio di tipicità, si tratta dunque di individuare un criterio normativo mediante il quale accertare la sussistenza di un’ipotesi di ingiustizia costituzionalmente qualificata. Il dato normativo costituzionale offre una prima, anche se non esaustiva, indicazione, della centralità del diritto costituzionalmente protetto. Tra questi vi è la proprietà privata che ai sensi dell’art. 42 Cost. deve essere riconosciuta e garantita dalla legge, e che può essere limitata solo nell’interesse pubblico (nel senso che va riconosciuta la risarcibilità del danno non patrimoniale per la violazione del diritto di proprietà, rientrante nella categoria dei diritti fondamentali inerenti alla persona, Trib. Firenze 21.1.2011). La centralità del diritto di proprietà, quale valore dell’individuo solo volontariamente rinunciabile al di fuori di pubbliche necessità, è corroborata dal contenuto della Carta Europea dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7.12.2000, adottata il 12.12.2007 a Strasburgo, la quale, com’è noto, sulla base dell’art. 6 del Trattato istitutivo dell’Unione europea, così come modificato dall’art. 1 del Trattato di Lisbona, ha ormai “lo stesso valore giuridico dei trattati” e, dunque, si inserisce, nel disegno delle fonti del diritto, su un piano di equiordinazione con la Costituzione alla stessa stregua dei trattati. L’art. 17, inserito nel titolo II rubricato “Libertà”, prevede che “Ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità.
Nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa. L’uso dei beni può essere regolato dalla legge nei limiti imposti dall’interesse generale”. Dunque, nella Carta la proprietà oltre ad essere riconosciuta e garantita, viene vista nell’ottica del rispetto della libertà dell’individuo. L’assetto normativo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea induce a ritenere che debbono considerarsi inviolabili tutti i diritti della persona che attengono alla sua dignità (titolo I), alla sua libertà (titolo II), all’uguaglianza (titolo III), alla solidarietà (titolo IV) alla cittadinanza (titolo V) ed alla giustizia (titolo VI).
In tale prospettiva va poi valorizzato il rilievo costituzionale ex art. 2 cit. del rapporto individuo-abitazione, e dunque la sicura risarcibilità del danno de quo.
L’art. 2 Cost. comporta che l’interprete, nella ricerca degli spazi di tutela della persona, è legittimato a costruire tutte le posizioni soggettive idonee a dare garanzia, sul terreno dell’ordinamento, ad ogni proiezione della persona nella realtà sociale sicchè si è efficacemente riportato sotto l’ambito dell’art. 2 Cost. i più svariati interessi, dal diritto alla serenità familiare, a quello alla vita sessuale, al diritto del lavoratore alle mansioni appropriate, lasciando intendere che è interesse costituzionalmente protetto ogni interesse rivolto allo sviluppo della personalità, la cui lesione in un certo senso incide negativamente su quello sviluppo. Ed in questa ottica non si può negare che il vivere quotidianamente in una abitazione confortevole sia ritenuta una componente dello sviluppo della personalità secondo una valutazione sociale e tipica, la cui lesione non può essere considerata “effimera”.
Alla luce di tali considerazioni va ritenuta pienamente accoglibile la richiesta attorea di risarcimento del danno esistenziale.
Ritenuta pertanto ampiamente comprovata la lamentata lesione, visto l’art. 1226 c.c. appare equo determinare in una somma pari ad un decimo di quanto liquidato a titolo di diminuzione del prezzo per ogni anno vissuto dall’istante all’interno della abitazione in oggetto, dall’acquisto e sino alla data della domanda, non avendo oltretutto la convenuta neanche proceduto a porre in essere quegli interventi evidenziati dal ctu in atp. A tale titolo pertanto parte convenuta corrisponderà in favore dell’istante Euro 3.210,74 per quattro anni (dal 2012 a 2015) e quindi il complessivo importo di 12.842,97.
Non risultano infine sufficientemente comprovate altre voci di danno, tenuto conto soprattutto della mancata prova documentale in ordine alla essenzialità del termine di adempimento convenuto in contratto nonché della mancata prova che il rilascio della documentazione richiesta all’esito della cessazione del rapporto abbia effettivamente inciso sui tempi di realizzazione dell’intervento.
Sull’importo complessivo così determinato (56.312,79), salvo quanto si dirà oltre per la disponenda compensazione contabile, il convenuto corrisponderà altresì quanto dovuto per interessi e rivalutazione,
trattandosi di debito di valore, con decorrenza dalla verificazione dalla maturazione del credito e sino al soddisfo, secondo i criteri ex Cass. ss.uu. n. 1712/95.
Richiesta pagamento di corrispettivo formulato dalla ditta convenuta. Secondo quanto detto, ove il committente esperisca i rimedi riparatori previsti in caso di difetti dell’opera appaltata, egli deve conseguire la medesima utilità economica che avrebbe ottenuto se l’inadempimento dell’appaltatore non si fosse verificato, utilità la quale va posta in relazione, nei limiti del valore dell’opera o del servizio, al quantum necessario per l’eliminazione dei vizi e delle difformità oppure al quantum monetario per cui gli stessi vizi e difformità incidono sull’ammontare del corrispettivo in denaro pattuito (Cassazione civile, sez. II, 02/03/2015, n. 4161).
Qualora allora il committente, rilevata l’esistenza di vizi dell’opera, non ne pretenda l’eliminazione diretta da parte dell’esecutore del lavoro, chiedendo, invece, il risarcimento del danno per l’inesatto adempimento, il credito dell’appaltatore per il corrispettivo permane invariato (Cassazione civile, sez. II, 10/09/2013, n. 20707).
Appare allora necessario verificare se, come sostenuto dalla convenuta, i lavori aggiuntivi, rispetto a quelli formalmente convenuti nel contratto di appalto (preventivo iniziale della ditta accettato dalla committente), fossero stati effettivamente commissionati dalla committenza ovvero se, come tuttavia neanche esplicitamente sostenuto da quest’ultima quegli interventi (pacificamente realizzati e peraltro riscontrati come tali dallo stesso perito) fossero invece stati realizzati d’iniziativa della ditta appaltatrice.
In punto di diritto occorre allora evidenziare come il regime probatorio delle variazioni dell’opera appaltata muti a seconda che queste ultime siano dovute all’iniziativa dell’appaltatore o a quella del committente.
Nel primo caso infatti l’art. 1659 c.c. richiede che le modifiche siano autorizzate dal committente e che l’autorizzazione risulti da atto scritto “ad substantiam”; nel secondo invece l’art. 1661 c.c. consente, secondo i principi generali, all’appaltatore di provare con tutti i mezzi consentiti, ivi comprese le presunzioni, che le variazioni sono state richieste dal committente (Cass. II n. 7242/01 e 3040/95; App. Roma IIA n. 645/07).
In adempimento allora a tale onere probatorio, così delimitato, la parte convenuta ha comprovato che quelle variazioni fossero state ordinate dal committente. Sul punto in particolare vanno considerati elementi presuntivi forti a favore di tale allegazione, l’armoniosità degli interventi rispetto al complessivo intervento (si veda la ctu), la comoda riscontrabilità degli stessi e la circostanza che la committenza non ne abbia mai richiesto la rimozione.
All’esito dell’espletata ctu è risultato accertato che parte convenuta vanta un diritto al corrispettivo, a tale titolo, per l’importo di Euro 22.978,19.
Operata la mera compensazione contabile tra i rispettivi crediti e debiti, residua in favore di parte attrice l’importo di Euro 33.334,60, oltre come detto, interessi e rivalutazione senza esclusione del cumulo.
In tema di appalto infatti il diritto dell’appaltatore al corrispettivo ha natura di debito di valuta e non è soggetto a rivalutazione monetaria, a differenza della somma dovuta al committente per la eliminazione dei vizi e difformità dell’opera (a titolo di risarcimento del danno o riduzione dl prezzo) che va rivalutata costituendo un debito di valore (Tribunale Milano, sez. VII, 04/12/2014, n. 14494).
Con riferimento alla domanda di manleva, si evidenzia quanto segue.
Essendo il subappalto un contratto derivato o subcontratto (con tale contratto l’appaltatore conferisce a un terzo subappaltore l’incarico di eseguire in tutto o in parte i lavori che si è impegnato a eseguire sulla base del contratto principale), le vicende di detto contratto restano condizionate da quelle del contratto principale.
Conseguentemente gli art. 1667 e 1668 c.c. (sulla responsabilità per difformità e vizi dell’opera) si applicano al contratto di subappalto con le seguenti differenze:
a) con riguardo all’opera eseguita dall’appaltatore, l’accettazione senza riserva dell’appaltatore resta condizionata dal fatto che il committente accetti a sua volta l’opera senza riserve;
b) l’appaltatore non può agire in responsabilità contro il subappaltatore prima ancora che il committente gli abbia denunciato la esistenza di vizi e difformità.
Ciò perché prima di tale momento, l’appaltatore è privo dell’interesse ad agire, atteso che il committente potrebbe accettare l’opera nonostante i vizi palesi, oppure non denunciare mai i vizi occulti, oppure denunciarli tardivamente, per cui di nulla potrebbe dolersi l’appaltatore perché nessun danno – non essendo il destinatario dell’opera – sarebbe a lui derivato dalla esistenza di difformità o vizi dell’opera realizzata dal subappaltatore;
c) conseguentemente l’appaltatore può agire in giudizio nei confronti del subappaltatore non appena il committente gli abbia tempestivamente denunciato la esistenza di detti vizi e difformità, avendogli resa nota in tale modo la sua intenzione di far valere la relativa responsabilità. (Correttamente, pertanto, ha concluso la Suprema corte, il giudice a quo ha ritenuto inammissibile la domanda diretta alla condanna del subappaltatore alla manleva per eventuali azioni che sarebbero potute essere avviate dal committente, perché sarebbe una domanda non su un diritto asseritamente esistente, ma su un diritto prospettato ed eventuale) (Cassazione civile, sez. II, 12/05/2016, n. 9766).
All’esito dell’espletata ctu, è rimasto accertato come l’intervento subappaltato abbia inciso sul complessivo danno arrecato per 14.012,36 ed al pagamento di tale somma pertanto la chiamata in causa va condannata in favore della chiamante.
Anche peraltro il subappaltatore risponde sempre del risultato, anche quando abbia eseguito l’opera secondo le direttive dell’appaltatore, essendo egli comunque obbligato ad osservare le regole dell’arte ed a
segnalare al proprio committente gli errori delle prescrizioni da questo impartite che non si uniformino alle predette regole. Il principio è il logico corollario dell’ampia discrezionalità tecnica ed organizzativa di cui gode anche il subappaltatore, per cui egli risponde sempre del risultato, a meno che non provi di avere realizzato l’opera quale “nudus minister” del committente e nella fattispecie al vaglio non si riscontra alcuna acquisizione, né orale né tantomeno documentale, in tal senso.
Il parziale accoglimento della domanda principale in punto di quantum induce a ritenere parzialmente compensate tra le parti le spese di lite.
La nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali (art. 92, comma 2, c.p.c.), sottende – anche in relazione al principio di causalità – una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti ovvero anche l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri ovvero quando la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo (Cassazione civile, sez. III, 21/10/2009, n. 22381, n. 3438/16 s ss.uu. n. 16990/17).
Nel rapporto chiamante – chiamato le spese seguono invece la soccombenza, applicato il limite di valore corrispondente.
P.Q.M.
in parziale accoglimento della domanda, accertato che parte attrice vanta un diritto risarcitorio alla corresponsione della somma riportata nella parte motiva e parte convenuta vanta un controcredito a titolo di corrispettivo nella misura riportata nella parte motiva; operata la mera compensazione contabile, condanna parte convenuta al pagamento in favore di parte attrice in solido del complessivo importo di Euro 33.334,60, a titolo di risarcimento di ogni danno connesso alla vendita dell’immobile meglio indicato in atti, oltre accessori come da parte motiva e iva se dovuta;
condanna parte convenuta al pagamento delle spese processuali in favore di parti attrici in solido, che, dichiarate compensate per un terzo, liquida per l’intero di Euro 420,00 per esborsi e per compensi professionali in Euro 7.254,00, oltre spese generali al 15%, cassa e iva come per legge; in accoglimento della domanda di manleva, condanna parte chiamata a tenere indenne parte convenuta dagli esborsi che la stessa andrà a sostenere per l’effetto dell’esecuzione della presente decisione e comunque sino all’importo di per 14.012,36, oltre accessori come da parte motiva e iva se dovuta;
condanna parte chiamata al pagamento delle spese processuali in favore di parte chiamante, che liquida per compensi professionali in Euro 4.835,00, oltre spese generali al 15%, cassa e iva come per legge.
Così deciso in Pescara il 24 gennaio 2019.
Depositata in Cancelleria il 24 gennaio 2019.