i contratti di apertura di credito possono prevedere, quali unici “oneri” per il cliente, da un lato, una commissione omnicomprensiva (ma no superiore allo 0,5 per cento per trimestre), “calcolata in maniera proporzionata rispetto alla somma a disposizione del cliente e alla durata dell’affidamento”, dall’altro, un tasso di interesse debitore sulle somme utilizzate. Secondo quanto previsto dall’art. 3, comma 2, lett. il), del D.M. 30 giugno 2012, n. 644 (del CICR) la commissione di affidamento si applica “sull’intera somma messa a disposizione del cliente in base al contratto”, e per il periodo in cui la stessa somma è messa a disposizione del cliente.
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Tribunale Roma, Sezione 17 civile Sentenza 14 febbraio 2019, n. 3482
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI ROMA
SEZIONE XVII CIVILE
Il Giudice, in persona del dr. Tommaso MARTUCCI, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel procedimento civile di I grado iscritto al n. 78270/2015 del Ruolo Generale degli Affari Civili, posto in deliberazione all’udienza del 21/11/2018 e promosso da:
(…), (…) e (…) con sede legale in G. (P.), via (…), (P.IVA (…)), rappresentata e difesa dall’avv. Fr.La. ed elettivamente domiciliata in Roma, via (…), presso lo studio dell’avv. An.De.
ATTRICE
contro
(…) S.p.A. con Direzione Generale in Milano, Piazza (…) (C. F., Partita Iva e Reg. Imprese di Roma (…)), (…) e Capogruppo del Gruppo (…), Albo dei Gruppi Bancari n. (…), aderente al (…) e al (…), rappresentata e difesa dall’avvocato prof. (…) in forza di procura generale alle liti rilasciata dal Direttore Generale e legale rappresentante dott. (…), a rogito notaio C.V. di B. del (…), rep. (…)
CONVENUTA
MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Con atto di citazione notificato in data 26/11/2015 la s.n.c. (…), (…) ed (…), in persona del legale rappresentante pro tempore, conveniva in giudizio avanti all’intestato Tribunale la S.p.A. (…), in persona del legale rappresentante pro tempore, chiedendone la condanna alla ripetizione delle somme indebitamente percepite in esecuzione dei rapporti di mutuo e di conto corrente inter partes a titolo di interessi, anatocismo e commissione di massimo scoperto, previa declaratoria di nullità dei relativi contratti ai sensi dell’art. 1815 c.c., o, in subordine, previa sostituzione delle clausole di determinazione degli interessi ai sensi dell’art. 117 D.Lgs. n. 385 del 1993, vinte le spese di lite.
La parte attrice esponeva:
– di aver stipulato con la convenuta un contratto di mutuo in data (…) con rogito notaio (…), repertorio n. (…), raccolta n. (…), del valore di Euro 550.000,00, da estinguersi in quindici anni e con la previsione del tasso contrattuale del 6,30%, del tasso di interesse moratorio pari a quello corrispettivo maggiorato di due punti e dell’ISC/TAEG del 6,17%, a fronte del tasso soglia antiusura del 9,4%;
– che erano stati previsti costi di istruttoria, spese e la clausola penale in caso di estinzione anticipata del contratto a carico della mutuataria;
– di aver sempre pagato regolarmente le rate fino all’estinzione anticipata del contratto avvenuta il 2/2/2015;
– di aver stipulato con la controparte il contratto di conto corrente n. (…), rispetto al quale era stata rilevata l’usura oggettiva nei seguenti periodi: IV trimestre 2007, I e IV trimestre 2008, I, II, III, IV trimestre 2009, I, II, IV trimestre 2010, II, III, IV trimestre 2013, per l’importo complessivo di Euro 11.313,40, nonché l’usura soggettiva nei seguenti periodi: III, IV trimestre 2005; I, III, IV trimestre 2006; I, II, III trimestre 2007; II, III trimestre 2008; III trimestre 2010; I, II, III, IV trimestre 2011; I, II, III, IV trimestre 2012; I trimestre 2013; I, II, III trimestre 2014; I trimestre 2015, per la somma totale di Euro 29.206,39;
– che era stata applicata la capitalizzazione composta degli interessi debitori e la commissione di massimo scoperto, con conseguenti maggiori oneri a carico della correntista.
Tanto premesso, l’attrice concludeva come in epigrafe, invocando l’applicazione della disciplina antiusura di cui al combinato disposto degli artt. 644 c.p. e della L. n. 108 del 1996.
Con comparsa del 31/5/2016 si costituiva la S.p.A. (…), in persona del legale rappresentante pro tempore, chiedendo il rigetto delle avverse domande.
La convenuta deduceva che il contratto di mutuo inter partes era stato stipulato nel pieno rispetto della legge antiusura, contestando il criterio di calcolo del T.E.G. ai fini della determinazione della usurarietà utilizzato dalla controparte, eccependo che il tasso d’interesse moratorio e la penale per l’estinzione anticipata del contratto non dovevano essere compresi nel calcolo T.E.G., stante la eterogeneità tra gli interessi corrispettivi e moratori, con la conseguenza che questi ultimi dovevano essere analizzati singolarmente ai fini della verifica del rispetto della soglia d’usura; relativamente al rapporto di conto corrente, la banca evidenziava che erano stati legittimamente applicati gli interessi al tasso inferiore alla soglia antiusura, la commissione di massimo scoperto e la capitalizzazione degli interessi in conformità della Del.CICR del 9 febbraio 2000.
Esperiti gli incombenti preliminari ed intervenuto lo scambio delle memorie ex art. 183, co. VI, c.p.c., il giudice fissava per la precisazione delle conclusioni l’udienza del 21/11/2018, al cui esito, sulle conclusioni rassegnate, tratteneva la causa in decisione, concedendo alle parti i termini per le memorie conclusive.
Con la memoria di replica l’attrice chiedeva fissarsi l’udienza di discussione orale ex art. 275 c.p.c..
Va preliminarmente dichiarata inammissibile l’istanza attorea di fissazione dell’udienza di discussione in quanto tardivamente proposta con la memoria di replica.
Premesso che l’invocato art. 275 c.p.c. è applicabile alle cause di competenza del Tribunale in composizione collegiale, pertanto non viene in rilievo nel presente giudizio, demandato alla decisione del Tribunale in composizione monocratica; si rileva, inoltre, che la richiesta di fissazione dell’udienza di discussione orale avrebbe dovuto essere proposta all’udienza di precisazione delle conclusioni ai sensi dell’art. 281-quinquies, cpv. c.p.c., circostanza non verificatasi nella fattispecie, in cui l’attrice ha proposto tale istanza con la memoria di replica.
Nel merito, con particolare riferimento alla causa petendi, la s.n.c. (…), (…) ed (…) chiede la condanna della S.p.A. (…) alla ripetizione delle somme indebitamente percepite a titolo di interessi corrispettivi e moratori, penale di estinzione anticipata del contratto, anatocismo e commissione di massimo scoperto, in esecuzione dei rapporti di mutuo e di conto corrente inter partes, previo accertamento della nullità parziale ex art. 1815 c.c. dei contratti relativamente alle clausole concernenti i tassi di interesse, la loro capitalizzazione, le spese e le commissioni e, in subordine, previa sostituzione dei tassi di interesse pattuiti con quelli previsti dall’art. 117 D.Lgs. n. 385 del 1993.
Le domande sono infondate.
Risulta dagli atti che l’odierna attrice stipulava con la S.p.A. (…) in data (…) il contratto di mutuo ipotecario repertorio n. (…), raccolta n. (…), per la somma di Euro 550.000,00 e per la durata di 180 mesi dal 1/11/2008, da restituire in rate mensili posticipate, con la previsione del tasso d’interesse corrispettivo del 6,30%, dell’interesse moratorio pari al tasso d’interesse corrispettivo maggiorato del 2% annuo e con l’ISC del 6,517%.
Orbene, in relazione al rapporto di mutuo sopra indicato, gli attori hanno eccepito la nullità dei tassi di interesse pattuiti.
La doglianza è priva di pregio.
Ed invero, i tassi di interesse applicati dalla banca, singolarmente analizzati, sono inferiori al c.d. tasso soglia antiusura.
Le questioni giuridiche rilevanti nel caso di specie attengono all’applicabilità della disciplina in materia di usura al tasso d’interesse moratorio ed al criterio di determinazione del TEG.
Giova premettere che, in tema di contratto di mutuo, con norma di interpretazione autentica, l’art. 1, comma 1, D.L. n. 394 del 2000, conv. da L. n. 24 del 2001, ha stabilito che si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento e, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, l’art. 1 della L. n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori (cfr. Cass. civ. n. 5598 del 06/03/2017; Cass. civ. n. 5324 del 04/04/2003).
Rileva, tuttavia, il giudicante che il tasso di mora ha una funzione autonoma e distinta rispetto agli interessi corrispettivi, poiché mentre l’uno sanziona il ritardato pagamento, gli interessi corrispettivi costituiscono la effettiva remunerazione del denaro mutuato, pertanto, stante la diversa funzione ed il diverso momento di operatività, la verifica della usurarietà degli interessi moratori va effettuata in modo distinto ed autonomo da quella relativa agli interessi corrispettivi, con esclusione della loro sommatoria.
Si sono diffusi al riguardo due opposti orientamenti:
il primo (Trib. Cremona 9.1.2015; Trib. Milano 29.1.2015; Trib. Roma 7.5.2015; Trib. Rimini 6.2.2015; Trib. Vibo Valentia; Trib. Brescia 24.11.2014; Trib. Salerno 27.7.1998; Trib. Macerata 1.6.1999; Trib. Napoli 5.5.2000; Trib. Treviso 12.11.2015; Cass. Pen. 5689/2012) esclude l’applicabilità agli interessi di mora della normativa antiusura sulla base dei seguenti rilievi: gli artt. 1815, comma 2, c.c. e 644, comma 1, c.p. si riferiscono, rispettivamente, agli interessi “convenuti” e “in corrispettivo”, dunque valorizzano la fase fisiologica del rapporto (Trib. Verona 12.9.2015); le Istruzioni della (…) per il calcolo del tasso effettivo globale medio (TEGM) non contemplano gli interessi di mora (c.d. principio di omogeneità di confronto), posto che la L. n. 108 del 1996 esige la rilevazione comparata di “operazioni della stessa natura”; la mancanza di un tasso soglia ad hoc degli interessi moratori (cfr. Trib. Varese 26.4.2016 e Trib. Milano 28.4.2016); la diversa funzione degli interessi moratori – peraltro eventuali – aventi natura risarcitoria/sanzionatoria, rispetto agli interessi corrispettivi, aventi natura remunerativa (cfr. Trib. Treviso 12.11.2015, secondo cui gli interessi moratori non remunerano affatto il creditore dell’erogazione del credito, ma lo ristorano per il protrarsi della perdita della disponibilità di somme di denaro che egli non ha accettato, ma che subisce per effetto dell’inadempimento del debitore e per un periodo di tempo non prevedibile); il TAEG di cui alle Direttive 2008/48/CE e 2014/17/UE non contempla gli interessi moratori.
Il secondo indirizzo ermeneutico esclude il tasso di mora dall’ambito di operatività della L. n. 108 del 1996, valorizzando il D.L. n. 132 del 2014, convertito in L. n. 162 del 2014, che all’art. 17, comma 1, ha novellato l’art. 1284, ult. co., c.c., prevedendo che il saggio degli interessi (di mora), dal momento in cui è proposta la domanda giudiziale, ove non sia pattuito dalle parti, è pari a quello previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2002 in materia di transazioni commerciali e questo tasso, con riferimento a talune categorie di operazioni, quali i mutui, è spesso risultato superiore al tasso-soglia: ne consegue, secondo questo indirizzo giurisprudenziale, la liceità della pattuizione di un interesse di mora pari o anche superiore a quello di cui al D.Lgs. n. 231 del 2002, quindi superiore al tasso-soglia (Trib. Cremona 9.1.2015; Trib. Vibo Valentia 22.7.2015; Trib. Treviso 12.11.2015; Trib. Monza 3.3.2016; Trib. Varese 26.4.2016; Trib. Milano 28.4.2016).
Prevale, tuttavia, in dottrina ed in giurisprudenza l’orientamento secondo cui gli interessi moratori sono soggetti alle soglie d’usura (cfr. Cass. civ. nn. 4251/1992, 5286/2000, 14899/2000, 5324/2003, 350/2013, 602/2013, 603/2013 nonché Corte Cost. n. 29/2002, secondo cui è “plausibile l’assunto” che gli interessi di mora siano assoggettati al tasso-soglia): il principale argomento posto a sostegno di questo indirizzo è l’affermazione del “principio di omogeneità di trattamento degli interessi, pur nella diversità di funzione” e la circostanza che “il ritardo colpevole … non giustifica il permanere della validità di una obbligazione così onerosa e contraria alla legge” (così la Corte di cassazione nelle decisioni da ultimo citate).
Quest’ultimo orientamento, consolidatosi nella recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di contratto di mutuo, l’art. 1 della L. n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori (cfr. Cass. civ. n. 5598 del 06/03/2017; Cass. civ. 23192/2017), si fonda anche sui seguenti ulteriori argomenti:
a) la L. 28 febbraio 2001, n. 24, di interpretazione autentica della L. n. 108 del 1996, testualmente disciplina gli “interessi … promessi o convenuti, a qualunque titolo”, quindi anche gli interessi moratori (depone in tale direzione anche la Relazione governativa al D.L. n. 394 del 2000);
b) l’art. 644 c.p. statuisce il “limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari” senza distinzioni tra tipologie di interessi;
c) i rischi dell’utilizzazione strumentale degli interessi moratori, se sottratti alla disciplina antiusura;
d) l’irrazionalità di sanzionare i vantaggi usurari nella fase fisiologica del rapporto e non in quella patologica (mora)
Orbene, l’adito giudicante condivide l’ultimo degli orientamenti sopra citati ed i principi su cui si fonda: nondimeno, la rilevazione dell’usurarietà degli interessi moratori postula l’analisi dei relativi tassi autonomamente rispetto agli interessi corrispettivi, con esclusione di ogni ipotesi di sommatoria tra gli stessi.
Invero, nei contratti di mutuo, ai fini della verifica del rispetto della L. n. 108 del 1996, l’interesse di mora non va sommato a quello convenzionale, poiché, qualora il debitore divenga moroso, il tasso di interesse moratorio non si aggiunge agli interessi convenzionali, ma si sostituisce agli stessi: gli interessi convenzionali si applicano sul capitale a scadere, costituendo il corrispettivo del diritto del mutuatario di disporre della somma capitale in conformità al piano di rimborso graduale (artt. 821 e 1815 c.c.), mentre gli interessi di mora si applicano solamente sul debito scaduto (art. 1224 c.c.).
L’eventuale caduta in mora del rapporto non comporterebbe comunque la somma dei due tipi di interesse, venendo gli interessi di mora ad applicarsi unicamente al capitale non ancora restituito e alla parte degli interessi convenzionali già scaduti e non pagati qualora gli stessi fossero imputati a capitale.
Non vale in contrario richiamare la nota sentenza della Corte di cassazione n. 350 del 9/1/2013, che non contiene alcuna affermazione nel senso della necessità di cumulare il tasso moratorio al tasso corrispettivo, avendo invece semplicemente affermato che sono soggetti al tasso soglia anche gli interessi moratori; in tal senso si è espressa la più recente e maggioritaria giurisprudenza di merito.
In particolare, non è corretta la tesi secondo cui l’interesse di mora vada sommato a quello convenzionale e tale somma vada confrontata con il tasso soglia antiusura previsto per gli interessi convenzionali dalla L. n. 108 del 1996.
Infatti, qualora il debitore divenga moroso, il tasso di interesse di mora non si aggiunge agli interessi corrispettivi, ma si sostituisce agli stessi: gli interessi corrispettivi si applicano sul capitale a scadere, costituendo appunto il corrispettivo del diritto del mutuatario di godere la somma capitale in conformità al piano di rimborso graduale (art. 1815 cod. civ.), mentre gli interessi di mora si applicano solamente sul debito scaduto (art. 1224 cod. civ.).
La clausola contenuta nel contratto di mutuo che prevede nell’ipotesi di ritardato pagamento, l’applicazione del tasso moratorio sull’intero importo delle rate scadute non comporta affatto una sommatoria di tassi, in quanto la base di calcolo, alla quale si applica il solo interesse moratorio, rimane cristallizzata nell’importo della singola rata.
Tale previsione peraltro è legittimata dall’art. 120 D.Lgs. n. 385 del 1993, come modificato dal D.Lgs. n. 349 del 1999, e dalla Del.CICR del 9 febbraio 2000, il cui art. 3 così dispone:
“Nelle operazioni di finanziamento per le quali è previsto che il rimborso del prestito avvenga mediante il pagamento di rate con scadenze temporali predefinite, in caso di inadempimento del debitore l’importo complessivamente dovuto alla scadenza di ciascuna rata può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi a decorrere dalla data di scadenza e sino al momento del pagamento”.
L’applicazione degli interessi moratori sull’importo delle rate scadute non solo non può essere reputata illegittima (in quanto conforme all’art. 3 della Del.CICR del 9 febbraio 2000), ma nemmeno può influire sulla determinazione del tasso effettivo, essendo anatocismo ed usura fenomeni distinti ed autonomamente disciplinati. Al riguardo pare sufficiente osservare che i tassi medi che sono oggetto di rilevazione non comprendono interessi anatocistici e che sussiste una ovvia esigenza di uniformità fra dato in valutazione e parametro di riferimento.
L’eventuale caduta in mora del rapporto non comporterebbe, quindi, una somma dei due tipi di interesse, venendo gli interessi di mora ad applicarsi unicamente al capitale non ancora restituito e alla parte degli interessi corrispettivi già scaduti e non pagati qualora gli stessi fossero imputati a capitale.
Non rilevano, ai fini della verifica del superamento della soglia antiusura del tasso degli interessi moratori, le spese relative al contratto bancario, posto che l’interesse di mora non attiene alla remunerazione del capitale, bensì alla penalità per il ritardato adempimento del mutuatario, fatto imputabile a quest’ultimo e meramente eventuale, in una fase patologica del rapporto.
Osserva al riguardo la prevalente giurisprudenza di merito che è infondata la modalità di conteggio del “tasso effettivo di mora (T.E.MO.)”, posto che la previsione contrattuale di interessi moratori concerne la mera ipotesi, patologica ed eventuale, di un ritardo nel pagamento delle rate ed è, dunque, riferita a fattispecie che si discosta dal corso fisiologico del contratto, avendo tali oneri natura risarcitoria, diversamente dagli interessi corrispettivi, connessi all’erogazione del credito.
Tanto premesso, se da un lato si reputa corretto computare, unitamente agli interessi corrispettivi, i restanti costi ed oneri connessi all’erogazione del credito ai fini della determinazione del tasso corrispettivo applicato al rapporto (conteggio del TEG), dall’altro pare incoerente replicare tale modalità di calcolo con riferimento agli interessi di mora, attesa la ribadita diversa natura di questi ultimi” (cfr. Trib. Milano, n. 11854 del 22 ottobre 2015; App. Milano, 20 gennaio 2015).
Ed ancora, pur rilevando, ai fini del tasso soglia, anche il tasso d’interesse moratorio, per verificare il superamento i due tassi d’interesse non si sommano, in quanto succedono l’uno all’altro; in particolate, il moratorio succede al corrispettivo in caso di inadempimento o ritardo (cfr. Trib. Roma, ord. 3 giugno 2015).
Non è in contrasto con tali principi la recente ordinanza della Suprema Corte n. 23192/2017, di cui si riporta il contenuto motivazionale: “Considerato che:1. l’art. 1815, co. 2, c.c. stabilisce che “se sono dovuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi” e ai sensi dell’art. 1 D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, convertito in L. 28 febbraio 2001, n. 24, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento; il legislatore, infatti, ha voluto sanzionare l’usura perché realizza una sproporzione oggettiva tra la prestazione del creditore e la controprestazione del debitore;
2. il ricorso è manifestamente infondato; come ha già avuto modo di statuire la giurisprudenza di legittimità “è noto che in tema di contratto di mutuo, l’art. 1 della L. n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori (Cass. 4 aprile 2003, n. 5324).
Ha errato, allora, il tribunale nel ritenere in maniera apodittica che il tasso di soglia non fosse stato superato nella fattispecie concreta, solo perché non sarebbe consentito cumulare gli interessi corrispettivi a quelli moratori al fine di accertare il superamento del detto tasso” (Cass. ord. 5598/2017; con principio già affermato da Cass. 14899/2000)”.
Ebbene, tale pronuncia, oltre a ribadire il principio ormai consolidatosi in dottrina e in giurisprudenza, secondo cui gli interessi di mora sono soggetti alla disciplina antiusura, censura il ragionamento sotteso alla pronuncia del Tribunale nella parte in cui era stata apoditticamente esclusa l’usurarietà degli interessi per il solo fatto della non applicabilità della sommatoria dei relativi tassi, dovendosi ritenere che la Suprema Corte abbia evidenziato la necessità di verificare in concreto la usurarietà dei tassi d’interesse, ma ciò non implica che debba farsi luogo alla loro sommatoria ai fini della verifica del superamento del c.d. tasso soglia.
Corrobora l’orientamento sopra espresso il punto 4) dei “Chiarimenti in materia di applicazione della legge antiusura” del 2/7/2013, che costituisce un valido parametro interpretativo della disciplina antiusura, secondo cui i TEG medi rilevati dalla (…) includono, oltre al tasso nominale, tutti gli oneri connessi all’erogazione del credito.
Venendo al caso di specie, il tasso d’interesse corrispettivo, se correttamente analizzato con esclusione della sommatoria tra i tassi d’interesse corrispettivo e moratorio, risulta essere stato legittimamente pattuito nel rispetto del tasso soglia antiusura.
Con particolare riferimento al tasso moratorio, viene in rilievo la differente funzione assolta rispetto agli interessi corrispettivi da quelli moratori, gli uni costituendo il corrispettivo del diritto del beneficiario del credito di godere della somma capitale concessa in prestito, gli altri rappresentando la liquidazione anticipata e forfettaria del danno causato al concedente dall’inadempimento o dal ritardato adempimento del beneficiario.
Le due categorie di interessi si differenziano poi anche in punto di disciplina applicabile, in quanto gli interessi moratori, dissimilmente da quelli corrispettivi, sono dovuti dal giorno della mora e a prescindere dalla prova del danno subito, così come previsto dall’art. 1224, c.1 c.c., pertanto, pur non potendosi sottrarre gli interessi di mora alla disciplina sull’usura, si ritiene che il tasso moratorio non debba essere confrontato con il tasso soglia previsto per gli interessi corrispettivi.
Ed invero, le rilevazioni operate dalla (…), sulla scorta delle quali il Ministero dell’Economia determina trimestralmente, mediante appositi decreti, i tassi effettivi globali medi posti alla base di calcolo del “tasso soglia”, non includono gli interessi di mora, che riguardano operazioni con andamento anomalo, in quanto non sono dovuti dal momento dell’erogazione del credito, ma solo a seguito dell’inadempimento da parte del cliente.
Sarebbe pertanto iniquo, oltre che scientificamente inattendibile, un confronto di due dati disomogenei, ove il primo sia calcolato computando le voci di costo secondo una metodologia che esclude gli interessi di mora e il secondo sia calcolato computando voci di costo diverse, che includono degli interessi moratori.
La rilevazione dei tassi usurari richiede necessariamente l’utilizzazione di dati tra loro oggettivamente comparabili, sicché se detto raffronto non viene effettuato adoperando la medesima metodologia di calcolo, il dato che se ne ricava non che essere viziato (cfr. Cass. civ. n. 22270 del 3/11/2016).
Anche volendo ricostruire in via interpretativa un tasso soglia per gli interessi moratori, tale tasso dovrà necessariamente essere superiore al tasso soglia previsto per gli interessi corrispettivi in ragione della cennata differenza funzionale intercorrente tra le due tipologie di interessi.
Il parametro oggettivo disponibile per la ricostruzione in via interpretativa di un tasso soglia degli interessi moratori è dato dai risultati di un’indagine statistica effettuata dalla (…), che rilevò come mediamente il tasso degli interessi moratori convenzionalmente pattuito fosse maggiorato di 2,1 punti percentuali rispetto al tasso medio degli interessi corrispettivi.
Tale maggiorazione è menzionata anche nei decreti ministeriali (almeno a decorrere dal secondo trimestre dell’anno 2003), laddove è testualmente previsto che “i tassi effettivi globali … non sono comprensivi degli interessi di mora contrattualmente previsti per i casi di ritardato pagamento” e che “la maggiorazione stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento è mediamente pari a 2,1 punti percentuali”.
Dunque, ai fini del verificarsi dell’usura il tasso di mora dovrà essere raffrontato con un tasso soglia determinato attraverso la maggiorazione del TEGM del 2,1%, aumentato poi della metà (a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 8, co. V, lett. d) D.L. n. 70 del 2011, convertito, con modificazioni, con la L. n. 106 del 2011, il tasso soglia antiusura per gli interessi di mora è determinato maggiorando il TEGM del 2,1%, aumentato poi del 25% e di ulteriori quattro punti percentuali).
Il Tribunale non ignora la recente ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. civ. n. 27442 del 30/10/2018), che, dopo aver affermato il principio di diritto secondo cui anche agli interessi moratori si applica la disciplina sull’usura di cui all’art. 2 della L. n. 108 del 1996, ha ritenuto – sia pure incidentalmente – illegittima, in assenza di una qualsiasi norma di legge, la determinazione di un tasso di “mora-soglia” ottenuto incrementando il tasso soglia antiusura.
L’adito giudice non condivide tale conclusione, che appare in contrasto con le direttive delineate dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la quale, intervenendo ex professo sulla questione della verifica dell’usura in presenza della pattuizione di commissioni di massimo scoperto, ha affermato la necessità di utilizzare nel raffronto dati omogenei e, a tal fine, ha fatto ricorso ai criteri di calcolo indicati dalla (…) e richiamati negli stessi decreti ministeriali, ratificandone la legittimità (Cass. civ. sez. un. n. 16303 del 20/6/2018).
La Suprema Corte a sezioni unite, con la citata sentenza, di fronte all’alternativa se ritenere illegittimi e, quindi, disapplicare i decreti ministeriali di rilevazione del TEGM anteriori all’entrata in vigore dell’art. 2-bis del D.L. n. 185 del 2008, oppure interpretarli conformemente alla legge, alla luce dei consolidati principi di conservazione degli atti giuridici, ha ritenuto corretto il criterio – indicato dalla (…) e richiamato negli stessi decreti ministeriali – che rileva separatamente l’entità della commissione di massimo scoperto sulla base di un specifico tasso-soglia.
Seguendo il medesimo iter logico motivazionale sviluppato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, mutatis mutandis, in relazione alla verifica dell’usurarietà degli interessi moratori il criterio correttivo indicato dalla (…) e fatto proprio dai decreti ministeriali (almeno a far tempo dal secondo trimestre del 2003) risulta conforme alla norma di legge primaria, la quale impone di soddisfare le esigenze di omogeneità e simmetria.
A ritenere diversamente (ovvero negando rilevanza giuridica al citato criterio correttivo) i decreti ministeriali sarebbero illegittimi (perché imporrebbero il confronto tra dati eterogenei) e, quindi, dovrebbero essere disapplicati con conseguente venir meno di qualunque parametro idoneo a misurare la c.d. usura oggettiva.
La maggiorazione proposta dalla (…) è, dunque, pienamente legittima, poiché, oltre ad essere prevista dai decreti ministeriali, consente di rendere omogeneo il parametro di riferimento (il tasso soglia) al dato in verifica (gli interessi moratori), conformemente alla voluntas legis (cfr. Trib. Roma n. 22880 del 28/11/2018).
È priva di pregio la doglianza attorea relativa alla indeterminatezza del TAEG previsto dal contratto.
Giova premettere che la disciplina di riferimento è prevista dagli artt. 116 e 117 D.P.R. n. 385 del 1993, che impongono alle Banche di pubblicizzare in modo chiaro le condizioni economiche applicate nei rapporti con i clienti e l’art. 116, comma 3 T.(…) demanda il compito di individuare più specificamente gli obblighi informativi in capo agli istituti di credito al CICR, che, con Delib. del 4 marzo 2003, ha demandato alla (…) l’individuazione dei contratti per i quali gli istituti di credito devono riportare espressamente l’indicatore sintetico di costo ed indicarne il contenuto ed i parametri di calcolo.
La (…), dando esecuzione alla citata normativa, ha disciplinato l’ISC nel Titolo X delle proprie Istruzioni di vigilanza ed ha emanato le disposizioni sulla “Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari” il 29 luglio 2009, successivamente integrate il 9 febbraio 2011), secondo cui i finanziamenti (intesi come operazioni di mutuo, anticipazioni bancarie, aperture di credito in conto corrente, nonché i prestiti personali e i prestiti c.d. “finalizzati”) devono riportare nel foglio illustrativo e nel documento di sintesi l’ISC, calcolato secondo la formula prevista dalla (…) per il TAEG.
Ciò posto, si sono diffusi vari orientamenti sulle conseguenze della difformità tra l’ISC indicato in contratto e quello concretamente applicato:
secondo un primo orientamento l’indicazione nel contratto di un ISC inferiore rispetto al TAEG costituirebbe una violazione dell’art. 117, comma VI, del TUB, secondo cui sono da ritenersi nulle quelle clausole che prevedono per i clienti condizioni economiche più sfavorevoli di quelle pubblicizzate, con conseguente nullità della clausola relativa agli interessi e, conseguentemente, la necessità di applicare – in sostituzione del tasso dichiarato nullo – il tasso nominale dei buoni ordinari del tesoro ai sensi dell’art. 117, comma 7 TUB (cfr. Trib. Chieti, n. 230 del 23 aprile 2015).
Secondo un più recente e condivisibile indirizzo ermeneutico, invece, l’ISC non rappresenta una specifica condizione economica da applicare al contratto di finanziamento, svolgendo unicamente una funzione informativa finalizzata a porre il cliente nella posizione di conoscere il costo totale effettivo del finanziamento prima di accedervi.
L’erronea quantificazione dell’ISC, quindi, non potrebbe comportare una maggiore onerosità del finanziamento (non mettendo in discussione la determinazione delle singole clausole contrattuali che fissano i tassi di interesse e gli altri oneri a carico del mutuatario) e, conseguentemente, non renderebbe applicabile a tale situazione quanto disposto dall’art. 117, comma 6 TUB (cfr. Trib. Roma 19 aprile 2017).
Quest’ultimo orientamento è stato ribadito anche dal Tribunale di Milano, secondo cui non si rinviene nel diritto positivo la sanzione della nullità per la fattispecie in questione, essendo stata prevista una simile sanzione solo nel settore del credito al consumo, nella cui disciplina l’art. 125-bis, comma VI, del TUB dispone che, nel caso in cui il TAEG indicato nel contratto non sia stato determinato correttamente, le clausole che impongono al consumatore costi aggiuntivi (rispetto a quelli effettivamente computati nell’ISC) sono da considerarsi nulle.
Orbene, qualora il legislatore avesse voluto sanzionare con la nullità la difformità tra ISC e TAEG nell’ambito di operazioni diverse dal credito al consumo, lo avrebbe espressamente previsto, analogamente a quanto avvenuto con l’art. 125-bis, comma VI, TUB, pertanto l’erronea indicazione dell’ISC nel corpo del contratto, indicato in misura leggermente difforme da quella prevista dal documento di sintesi per mero refuso, non determina nessuna incertezza sul contenuto effettivo del contratto stipulato e del tasso di interesse effettivamente pattuito, pertanto la violazione dell’obbligo pubblicitario perpetrata dalla Banca mediante l’erronea quantificazione dell’ISC non è suscettibile di determinare alcuna invalidità del contratto di mutuo (né tantomeno della sola clausola relativa agli interessi), ma può configurarsi unicamente come illecito e, in quanto tale, essere fonte di responsabilità della Banca (cfr. Trib. Milano n. 10832 del 26/10/2017).
Ne consegue l’infondatezza delle azioni di accertamento della nullità parziale del mutuo, nonché delle pretese restitutorie e delle ulteriori domande attoree, connesse a quelle di accertamento.
È documentalmente provato, inoltre, che le parti hanno stipulato il contratto di conto corrente n. (…), con cui sono state pattuite, come emerge dal documento di sintesi del 5/1/2005, le seguenti condizioni economiche degli affidamenti in conto corrente: tasso creditore del 0,030%, tasso debitore nominale annuo del 13,250%, tasso debitore effettivo annuo del 13,923%, nonché gli stessi tassi debitori extra fido, con l’elencazione delle varie spese relative al rapporto, della commissione di massimo scoperto nei limiti del fido pari all’1% e oltre il fido dell’1,5%.
Risultano, inoltre, dagli atti il contratto di apertura di credito stipulato tra le parti il 29/12/2011 per l’importo di Euro 60.000,00, con la previsione del TAN del 7,85% e del TAEG del 10,22%, l’apertura di credito ridotta ad Euro 20.000,00 il 29/4/2015, con la pattuizione del TAN del 10,65%, del TAEG del 13,25%, del tasso debitore annuo nominale sulle somme utilizzate con sconfinamento del 15,125% e del tasso debitore annuo sulle somme utilizzate del 16,00469%.
Ebbene, i tassi di interesse pattuiti sono inferiori al tasso soglia antiusura previsto all’epoca della stipulazione dei vari contratti.
È parimenti priva di pregio l’eccepita nullità del contratto di conto corrente per la prevista capitalizzazione degli interessi, essendo stata pattuita con il contratto del 5/1/2005 la capitalizzazione trimestrale degli interessi creditori e debitori. Trattasi, quindi, di una clausola contrattuale conforme al disposto della Del.CICR del 9 febbraio 2000, che prevede la validità e l’efficacia delle clausole contrattuali che, in materia di interessi, prevedono l’identica periodicità della loro capitalizzazione con riferimento agli interessi attivi e passivi.
Non potrebbe ritenersi inefficace la Del.CICR del 9 febbraio 2000 per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 425/2000 dichiarativa della illegittimità costituzionale dell’art. 25, comma III, D.Lgs. n. 342 del 1999, che aveva introdotto il terzo comma dell’art. 120 D.Lgs. n. 385 del 1993, che disponeva:
“Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma 2, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilirà altresì le modalità e i tempi dell’adeguamento.
In difetto di adeguamento, le clausole divengono inefficaci e l’inefficacia può essere fatta valere solo dal cliente”, per sostenere che il meccanismo di adeguamento dei contratti di conto corrente alla disciplina dell’anatocismo sia ormai non più valido; al contrario, ritiene il giudicante che la Del.CICR del 9 febbraio 2000 è comunque valida ai sensi dell’art. 120, comma secondo D.Lgs. n. 385 del 1993 nel testo vigente quando venne emanata, secondo cui:
“Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori.”.
Ed invero, la citata sentenza della Corte Costituzionale n. 425/2000 ha dichiarato illegittimo l’art.120, co. III D.Lgs. n. 385 del 1993 solo nella parte in cui sanava retroattivamente la capitalizzazione degli interessi effettuata prima che entrasse in vigore la deliberazione del CICR del 9/2/2000, quindi non ha effetto invalidante di quest’ultima delibera, che prevede la regolamentazione della capitalizzazione degli interessi per l’avvenire.
È infondata, inoltre, la doglianza attorea relativa all’applicazione della commissione di massimo scoperto, essendo quest’ultima stata contrattualmente pattuita.
Invero, la commissione di massimo scoperto (CMS), intesa come remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione dei fondi a favore del correntista indipendentemente dall’effettivo prelevamento della somma, applicata fino all’entrata in vigore dell’art. 2-bis del D.L. n. 185 del 2008, introdotto con la legge di conversione n. 2 del 2009, è “in thesi” legittima, almeno fino al termine del periodo transitorio, fissato al 31 dicembre 2009, posto che i decreti ministeriali che hanno rilevato il tasso effettivo globale medio (TEGM) – dal 1997 al dicembre del 2009 – sulla base delle istruzioni diramate dalla (…), non ne hanno tenuto conto al fine di determinare il tasso soglia usurario (essendo ciò avvenuto solo dall’1 gennaio 2010); ne consegue che l’art. 2-bis del D.L. n. 185 del 2008, cit. non è norma di interpretazione autentica dell’art. 644, comma 3, c.p., ma disposizione con portata innovativa dell’ordinamento, intervenuta a modificare – per il futuro – la complessa disciplina, anche regolamentare (richiamata dall’art. 644, comma 4, c.p.), tesa a stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono presuntivamente sempre usurari. Ne deriva, inoltre, che, per i rapporti bancari esauritisi prima dell’1 gennaio 2010, allo scopo di valutare il superamento del tasso soglia nel periodo rilevante, non deve tenersi conto delle CMS applicate dalla banca, ma occorre procedere ad un apprezzamento nel medesimo contesto di elementi omogenei della rimunerazione bancaria, al fine di pervenire alla ricostruzione del tasso soglia usurario, come sopra specificato (cfr. Cass. civ. n. 12965 del 22/06/2016).
Con il citato intervento legislativo del 2009 si è dunque stabilito che:
1) è legittima la commissione di massimo scoperto, sub specie sia di commissione di massimo scoperto, sia di commissione di messa a disposizione dei fondi;
2) vanno introdotte alcune limitazioni a tutela della clientela per entrambe le ipotesi (sussistenza di un saldo a debito – su un conto affidato – per un periodo continuativo pari o superiore a trenta giorni);
3) sono nulle le (sole) clausole contrattuali stipulate in violazione delle suddette limitazioni;
4) la CMS (letteralmente le “commissioni comunque denominate che prevedono una remunerazione per la banca dipendente dall’effettiva durata di utilizzazione dei fondi da parte del cliente”) è rilevante, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, ai fini dell’applicazione tanto dell’art. 1815 cod. civ. che dell’art. 644 cod. pen..
Può pertanto dirsi che la norma, pure omettendo ogni definizione più puntuale della CMS, abbia effettuato una ricognizione dell’esistente con l’effetto sostanziale di sancire definitivamente la legittimità di siffatto onere e, per tale via, di sottrarla alle censure di legittimità sotto il profilo della mancanza di causa.
Successivamente, l’art. 6-bis del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201-Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici, convertito con modificazioni, dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214, (inserito in sede di conversione), ha introdotto nel T.(…) l’art. 117-bis rubricato “Remunerazione degli affidamenti e degli sconfinamenti” e, poi, a distanza ravvicinata, prima l’art. 27, co. 4, del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con modificazioni dalla L. 24 marzo 2012, n. 27, ha abrogato il primo e il terzo comma dell’art. 2-bis del D.L. n. 185 del 2009, poi l’art. 1, co. 1, del D.L. 24 marzo 2012, n. 29, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 maggio 2012, n. 62, ha novellato il citato art. 117-bis D.Lgs. n. 385 del 1993.
Infine, in attuazione di quanto disposto dall’art. 117-bis, co. 4, TUB, è stato approvato il D.M. 30 giugno 2012, n. 644 in attuazione dell’articolo 117-bis del D.Lgs. n. 385 del 1993, entrato in vigore il 1 luglio 2012. Nella formulazione dell’articolo 117-bis, attualmente vigente – nel testo a decorrere dal 22 maggio 2012 – al primo comma vengono tipizzate le commissioni di affidamento (CA) per l’apertura di credito in conto corrente, al secondo comma sono disciplinate le commissioni applicabili in caso di sconfinamento; il terzo comma prevede la nullità delle clausole che prevedono oneri diversi e non conformi a quelli indicati nei primi due.
Il quarto comma, infine, attribuisce al CICR la competenza ad adottare disposizioni, anche di trasparenza, applicative dell’articolo e ad estendere il raggio di azione della norma a contratti ulteriori rispetto ad aperture di credito e conti correnti “per i quali si pongano analoghe esigenze di tutela del cliente”.
Conseguentemente, nel vigore della nuova disciplina, i contratti di apertura di credito possono prevedere, quali unici “oneri” per il cliente, da un lato, una commissione omnicomprensiva (ma no superiore allo 0,5 per cento per trimestre), “calcolata in maniera proporzionata rispetto alla somma a disposizione del cliente e alla durata dell’affidamento”, dall’altro, un tasso di interesse debitore sulle somme utilizzate.
Secondo quanto previsto dall’art. 3, comma 2, lett. il), del D.M. 30 giugno 2012, n. 644 (del CICR) la commissione di affidamento si applica “sull’intera somma messa a disposizione del cliente in base al contratto”, e per il periodo in cui la stessa somma è messa a disposizione del cliente.
Ebbene, nella specie non è stato allegato in modo idoneo né comprovato che la commissione di massimo scoperto sia stata applicata da parte della convenuta in violazione delle disposizioni vigenti ratione temporis; ne consegue il rigetto delle domande attoree anche in relazione al contratto di conto corrente n. (…).
Le spese processuali, liquidate come in dispositivo di seguono la soccombenza.
P.Q.M.
visto l’art. 281-quinquies c.p.c.;
il Tribunale di Roma, definitivamente pronunziando sulle domande proposte con atto di citazione notificato in data 26/11/2015 dalla s.n.c. (…), (…) ed (…), in persona del legale rappresentante pro tempore, avverso la S.p.A. (…), in persona del legale rappresentante pro tempore, contrariis reiectis:
RIGETTA le domande proposte dalla s.n.c. (…), (…) ed (…) avverso la S.p.A. (…);
CONDANNA la s.n.c. (…), (…)(…) al pagamento in favore della controparte delle spese processuali, che liquida in Euro 7.000,00 per compenso professionale, oltre al 15% per spese generali ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma il 14 febbraio 2019.
Depositata in Cancelleria il 14 febbraio 2019.