l’ISC non rappresenta una specifica condizione economica da applicare al contratto di finanziamento, svolgendo unicamente una funzione informativa finalizzata a porre il cliente nella posizione di conoscere il costo totale effettivo del finanziamento prima di accedervi. L’erronea quantificazione dell’ISC, quindi, non potrebbe comportare una maggiore onerosità del finanziamento (non mettendo in discussione la determinazione delle singole clausole contrattuali che fissano i tassi di interesse e gli altri oneri a carico del mutuatario) e, conseguentemente, non renderebbe applicabile a tale situazione quanto disposto dall’art. 117, comma 6 TUB.
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Tribunale Roma, Sezione 17 civile Sentenza 13 febbraio 2019, n. 3356
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI ROMA
SEZIONE XVII CIVILE
Il Giudice, in persona del dr. Tommaso MARTUCCI, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel procedimento civile di I grado iscritto al n. 61348/2014 del Ruolo Generale degli Affari Civili, posto in deliberazione all’udienza del 22/11/2018 e promosso da:
(…) nato il (…) a R., (C.F. (…))
(…) nato il (…) a V. V., (C.F. (…))
Entrambi residenti in R., via (…), elettivamente domiciliato in Roma, via (…) c/o lo studio dell’abogado stabilito Carla Corbo, che agisce d’intesa con l’avv. Fa.Pi., che lo rappresenta e difende in virtù di procura depositata in data 4/12/2015
ATTORI
contro
(…) S.p.A. con Direzione Generale in Piazza Gae Aulenti 3 – Tower A – 20154 Milano, Capitale Sociale Euro 20.257.667.511,62 interamente versato – (…) e Capogruppo del Gruppo (…) – Albo dei Gruppi Bancari n. (…) – iscrizione al Registro delle Imprese di Milano – Monza – Brianza – Lodi, Codice Fiscale e P. IVA n. (…) – Aderente al (…), elettivamente domiciliata in Roma, via (…), presso lo studio dell’avv. Gi.Na.; rappresentata e difesa dagli avv.ti Al.To., Ch.Ro., Gi.Na. e Se.Fu., giusta delega in calce alla comparsa di costituzione e risposta e dall’avv. Ca.Se., giusta delega in calce alla comparsa di costituzione di nuovo difensore
CONVENUTA
MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Con atto di citazione notificato in data 10/12/2015 (…) e (…) convenivano in giudizio avanti all’intestato Tribunale la S.p.A. (…), in persona del legale rappresentante pro tempore, chiedendone la condanna alla ripetizione delle somme indebitamente percepite in esecuzione del rapporto di mutuo inter partes ed al risarcimento dei danni, previa declaratoria di nullità delle clausole contrattuali concernenti il tasso degli interessi e il piano di ammortamento a rate costanti, con conseguente applicazione dell’art. 1815 c.c. e con vittoria delle spese di lite.
La parte attrice esponeva di aver stipulato con la controparte un contratto mutuo ipotecario in data (…), rep. n. (…), racc. n. (…), garantito da ipoteca, per la somma di Euro 93.000,00, da restituirsi in 19 anni mediante il pagamento di 228 rate con scadenza ultima al 30/4/2022, con la previsione del tasso d’interesse corrispettivo del 6,20% e del tasso d’interesse moratorio del 6,95% e che, il successivo 17/4/2003, il notaio rogante l’aveva riconvocata presso il suo studio e le aveva consegnato un nuovo piano di ammortamento, che prevedeva l’estinzione del mutuo al 2023 mediante il pagamento di n. (…) rate mensili, piano di ammortamento non sottoscritto dalle parti.
Tanto premesso, gli attori deducevano di aver pagato indebitamente la somma di Euro 53.367,33, frutto di usura oggettiva, essendo il tasso soglia antiusura alla data della stipulazione del contratto pari al 7,185% e che, a fronte della richiesta di consegna di copia del piano di ammortamento, la banca aveva consegnato un terzo piano di ammortamento, che prevedeva l’estinzione del mutuo entro il 30/11/2018 mediante il pagamento di n. (…) rate.
La parte attrice riteneva nulle le clausole contrattuali relative ai tassi d’interesse, in quanto contrarie al combinato disposto dell’art. 644 c.p. e della L. n. 108 del 1996, ed al piano di ammortamento, quest’ultimo previsto in violazione degli artt. 1283 e 1284 c.c. e del principio di determinatezza delle condizioni economiche del contratto, concludendo come in epigrafe.
La S.p.A. (…), in persona del legale rappresentante pro tempore, costituitasi con comparsa del 19/5/2016, eccepiva preliminarmente l’improponibilità dell’avversa domanda di ripetizione di indebito per essere il rapporto controverso ancora in corso al momento della proposizione della domanda e, nel merito, concludeva per il rigetto delle domande attoree.
La convenuta, in particolare, contestava le avverse difese, ritenendo innanzitutto infondata la sommatoria dei tassi di interesse corrispettivo e moratori ai fini della verifica del rispetto del tasso soglia antiusura, nonché la mancanza di idonee allegazioni in merito alle pretese risarcitorie attoree.
Esperiti gli incombenti preliminari e concessi i termini ex art. 183, co. VI, c.p.c., con la memoria ex art. 183, co. VI, n. 1 c.p.c., gli attori, oltre a ribadire le difese svolte in limine litis, evidenziavano la nullità del contratto per erronea indicazione dell’Indicatore Sintetico di Costo, non rispondente a quello effettivamente applicato.
Successivamente, il giudice fissava per la precisazione delle conclusioni l’udienza del 22/11/2018, al cui esito, sulle conclusioni rassegnate, tratteneva la causa in decisione, concedendo alle parti i termini per le memorie conclusive.
Con particolare riferimento alla causa petendi, (…) e (…) chiedono la condanna della S.p.A. (…), in persona del legale rappresentante pro tempore, alla ripetizione delle somme indebitamente percepite in forza del mutuo inter partes a titolo di interessi corrispettivi e moratori applicati con tassi usurari, previo accertamento della nullità parziale ex art. 1815 c.c. del contratto, oltre al risarcimento dei danni.
Le domande attoree sono infondate.
Invero, il rapporto controverso traeva origine dal contratto di mutuo ipotecario del (…), rep. n. (…), racc. n. (…), garantito da ipoteca, con cui la S.p.A. (…) erogava agli attori la somma di Euro 93.000,00, da restituirsi in 19 anni a far tempo dal 1/5/2003 mediante il pagamento di n. (…) rate con scadenza ultima al 30/4/2022, con la previsione del tasso d’interesse corrispettivo del 6,20% e del tasso d’interesse moratorio del 6,95%.
Orbene, in relazione al rapporto di mutuo sopra indicato, gli attori hanno eccepito la nullità dei tassi di interesse determinati ab origine dalla banca.
La doglianza è priva di pregio.
Le questioni giuridiche rilevanti nel caso di specie attengono all’applicabilità della disciplina in materia di usura al tasso d’interesse moratorio ed al criterio di determinazione del TEG.
Giova premettere che, in tema di contratto di mutuo, con norma di interpretazione autentica, l’art. 1, comma 1, D.L. n. 394 del 2000, conv. da L. n. 24 del 2001, ha stabilito che si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento e, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, l’art. 1 della L. n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori (cfr. Cass. civ. n. 5598 del 06/03/2017; Cass. civ. n. 5324 del 04/04/2003).
Rileva, tuttavia, il giudicante che il tasso di mora ha una funzione autonoma e distinta rispetto agli interessi corrispettivi, poiché mentre l’uno sanziona il ritardato pagamento, gli interessi corrispettivi costituiscono la effettiva remunerazione del denaro mutuato, pertanto, stante la diversa funzione ed il diverso momento di operatività, la verifica della usurarietà degli interessi moratori va effettuata in modo distinto ed autonomo da quella relativa agli interessi corrispettivi, con esclusione della loro sommatoria.
Si sono diffusi al riguardo due opposti orientamenti: il primo (Trib. Cremona 9.1.2015; Trib. Milano 29.1.2015; Trib. Roma 7.5.2015; Trib. Rimini 6.2.2015; Trib. Vibo Valentia; Trib. Brescia 24.11.2014; Trib. Salerno 27.7.1998; Trib. Macerata 1.6.1999; Trib. Napoli 5.5.2000; Trib. Treviso 12.11.2015; Cass. Pen. 5689/2012) esclude l’applicabilità agli interessi di mora della normativa antiusura sulla base dei seguenti rilievi: gli artt. 1815, comma 2, c.c. e 644, comma 1, c.p. si riferiscono, rispettivamente, agli interessi “convenuti” e “in corrispettivo”, dunque valorizzano la fase fisiologica del rapporto (Trib. Verona 12.9.2015); le Istruzioni della B.D. per il calcolo del tasso effettivo globale medio (TEGM) non contemplano gli interessi di mora (c.d. principio di omogeneità di confronto), posto che la L. n. 108 del 1996 esige la rilevazione comparata di “operazioni della stessa natura”; la mancanza di un tasso soglia ad hoc degli interessi moratori (cfr. Trib. Varese 26.4.2016 e Trib. Milano 28.4.2016); la diversa funzione degli interessi moratori – peraltro eventuali – aventi natura risarcitoria/sanzionatoria, rispetto agli interessi corrispettivi, aventi natura remunerativa (cfr. Trib. Treviso 12.11.2015, secondo cui gli interessi moratori non remunerano affatto il creditore dell’erogazione del credito, ma lo ristorano per il protrarsi della perdita della disponibilità di somme di denaro che egli non ha accettato, ma che subisce per effetto dell’inadempimento del debitore e per un periodo di tempo non prevedibile); il TAEG di cui alle Direttive 2008/48/CE e 2014/17/UE non contempla gli interessi moratori.
Il secondo indirizzo ermeneutico esclude il tasso di mora dall’ambito di operatività della L. n. 108 del 1996, valorizzando il D.L. n. 132 del 2014, convertito in L. n. 162 del 2014, che all’art. 17, comma 1, ha novellato l’art. 1284, ult. co., c.c., prevedendo che il saggio degli interessi (di mora), dal momento in cui è proposta la domanda giudiziale, ove non sia pattuito dalle parti, è pari a quello previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2002 in materia di transazioni commerciali e questo tasso, con riferimento a talune categorie di operazioni, quali i mutui, è spesso risultato superiore al tasso-soglia: ne consegue, secondo questo indirizzo giurisprudenziale, la liceità della pattuizione di un interesse di mora pari o anche superiore a quello di cui al D.Lgs. n. 231 del 2002, quindi superiore al tasso-soglia (Trib. Cremona 9.1.2015; Trib. Vibo Valentia 22.7.2015; Trib. Treviso 12.11.2015; Trib. Monza 3.3.2016; Trib. Varese 26.4.2016; Trib. Milano 28.4.2016).
Prevale, tuttavia, in dottrina ed in giurisprudenza l’orientamento secondo cui gli interessi moratori sono soggetti alle soglie d’usura (cfr. Cass. civ. nn. 4251/1992, 5286/2000, 14899/2000, 5324/2003, 350/2013, 602/2013, 603/2013 nonché Corte Cost. n. 29/2002, secondo cui è “plausibile l’assunto” che gli interessi di mora siano assoggettati al tasso-soglia): il principale argomento posto a sostegno di questo indirizzo è l’affermazione del “principio di omogeneità di trattamento degli interessi, pur nella diversità di funzione” e la circostanza che “il ritardo colpevole … non giustifica il permanere della validità di una obbligazione così onerosa e contraria alla legge” (così la Corte di cassazione nelle decisioni da ultimo citate).
Quest’ultimo orientamento, consolidatosi nella recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di contratto di mutuo, l’art. 1 della L. n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori (cfr. Cass. civ. n. 5598 del 06/03/2017; Cass. civ. 23192/2017), si fonda anche sui seguenti ulteriori argomenti:
a) la L. 28 febbraio 2001, n. 24, di interpretazione autentica della L. n. 108 del 1996, testualmente disciplina gli “interessi … promessi o convenuti, a qualunque titolo”, quindi anche gli interessi moratori (depone in tale direzione anche la Relazione governativa al D.L. n. 394 del 2000);
b) l’art. 644 c.p. statuisce il “limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari” senza distinzioni tra tipologie di interessi;
c) i rischi dell’utilizzazione strumentale degli interessi moratori, se sottratti alla disciplina antiusura;
d) l’irrazionalità di sanzionare i vantaggi usurari nella fase fisiologica del rapporto e non in quella patologica (mora)
Orbene, l’adito giudicante condivide l’ultimo degli orientamenti sopra citati ed i principi su cui si fonda: nondimeno, la rilevazione dell’usurarietà degli interessi moratori postula l’analisi dei relativi tassi autonomamente rispetto agli interessi corrispettivi, con esclusione di ogni ipotesi di sommatoria tra gli stessi.
Invero, nei contratti di mutuo, ai fini della verifica del rispetto della L. n. 108 del 1996, l’interesse di mora non va sommato a quello convenzionale, poiché, qualora il debitore divenga moroso, il tasso di interesse moratorio non si aggiunge agli interessi convenzionali, ma si sostituisce agli stessi: gli interessi convenzionali si applicano sul capitale a scadere, costituendo il corrispettivo del diritto del mutuatario di disporre della somma capitale in conformità al piano di rimborso graduale (artt. 821 e 1815 c.c.), mentre gli interessi di mora si applicano solamente sul debito scaduto (art. 1224 c.c.).
L’eventuale caduta in mora del rapporto non comporterebbe comunque la somma dei due tipi di interesse, venendo gli interessi di mora ad applicarsi unicamente al capitale non ancora restituito e alla parte degli interessi convenzionali già scaduti e non pagati qualora gli stessi fossero imputati a capitale.
Non vale in contrario richiamare la nota sentenza della Corte di cassazione n. 350 del 9/1/2013, che non contiene alcuna affermazione nel senso della necessità di cumulare il tasso moratorio al tasso corrispettivo, avendo invece semplicemente affermato che sono soggetti al tasso soglia anche gli interessi moratori; in tal senso si è espressa la più recente e maggioritaria giurisprudenza di merito.
In particolare, non è corretta la tesi secondo cui l’interesse di mora vada sommato a quello convenzionale e tale somma vada confrontata con il tasso soglia antiusura previsto per gli interessi convenzionali dalla L. n. 108 del 1996.
Infatti, qualora il debitore divenga moroso, il tasso di interesse di mora non si aggiunge agli interessi corrispettivi, ma si sostituisce agli stessi: gli interessi corrispettivi si applicano sul capitale a scadere, costituendo appunto il corrispettivo del diritto del mutuatario di godere la somma capitale in conformità al piano di rimborso graduale (art. 1815 cod. civ.), mentre gli interessi di mora si applicano solamente sul debito scaduto (art. 1224 cod. civ.).
La clausola contenuta nel contratto di mutuo che prevede nell’ipotesi di ritardato pagamento, l’applicazione del tasso moratorio sull’intero importo delle rate scadute non comporta affatto una sommatoria di tassi, in quanto la base di calcolo, alla quale si applica il solo interesse moratorio, rimane cristallizzata nell’importo della singola rata.
Tale previsione peraltro è legittimata dall’art. 120 D.Lgs. n. 385 del 1993, come modificato dal D.Lgs. n. 349 del 1999, e dalla Del.CICR del 9 febbraio 2000, il cui art. 3 così dispone:
“Nelle operazioni di finanziamento per le quali è previsto che il rimborso del prestito avvenga mediante il pagamento di rate con scadenze temporali predefinite, in caso di inadempimento del debitore l’importo complessivamente dovuto alla scadenza di ciascuna rata può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi a decorrere dalla data di scadenza e sino al momento del pagamento”.
L’applicazione degli interessi moratori sull’importo delle rate scadute non solo non può essere reputata illegittima (in quanto conforme all’art. 3 della Del.CICR del 9 febbraio 2000), ma nemmeno può influire sulla determinazione del tasso effettivo, essendo anatocismo ed usura fenomeni distinti ed autonomamente disciplinati.
Al riguardo pare sufficiente osservare che i tassi medi che sono oggetto di rilevazione non comprendono interessi anatocistici e che sussiste una ovvia esigenza di uniformità fra dato in valutazione e parametro di riferimento.
L’eventuale caduta in mora del rapporto non comporterebbe, quindi, una somma dei due tipi di interesse, venendo gli interessi di mora ad applicarsi unicamente al capitale non ancora restituito e alla parte degli interessi corrispettivi già scaduti e non pagati qualora gli stessi fossero imputati a capitale.
Non rilevano, ai fini della verifica del superamento della soglia antiusura del tasso degli interessi moratori, le spese relative al contratto bancario, posto che l’interesse di mora non attiene alla remunerazione del capitale, bensì alla penalità per il ritardato adempimento del mutuatario, fatto imputabile a quest’ultimo e meramente eventuale, in una fase patologica del rapporto.
Osserva al riguardo la prevalente giurisprudenza di merito che è infondata la modalità di conteggio del “tasso effettivo di mora (T.E.MO.)”, posto che la previsione contrattuale di interessi moratori concerne la mera ipotesi, patologica ed eventuale, di un ritardo nel pagamento delle rate ed è, dunque, riferita a fattispecie che si discosta dal corso fisiologico del contratto, avendo tali oneri natura risarcitoria, diversamente dagli interessi corrispettivi, connessi all’erogazione del credito.
Tanto premesso, se da un lato si reputa corretto computare, unitamente agli interessi corrispettivi, i restanti costi ed oneri connessi all’erogazione del credito ai fini della determinazione del tasso corrispettivo applicato al rapporto (conteggio del TEG), dall’altro pare incoerente replicare tale modalità di calcolo con riferimento agli interessi di mora, attesa la ribadita diversa natura di questi ultimi” (cfr. Trib. Milano, n. 11854 del 22 ottobre 2015; App. Milano, 20 gennaio 2015).
Ed ancora, pur rilevando, ai fini del tasso soglia, anche il tasso d’interesse moratorio, per verificare il superamento i due tassi d’interesse non si sommano, in quanto succedono l’uno all’altro; in particolate, il moratorio succede al corrispettivo in caso di inadempimento o ritardo (cfr. Trib. Roma, ord. 3 giugno 2015).
Non è in contrasto con tali principi la recente ordinanza della Suprema Corte n. 23192/2017, di cui si riporta il contenuto motivazionale:
“Considerato che:1. l’art. 1815, co. 2, c.c. stabilisce che “se sono dovuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi” e ai sensi dell’art. 1 D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, convertito in L. 28 febbraio 2001, n. 24, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento; il legislatore, infatti, ha voluto sanzionare l’usura perché realizza una sproporzione oggettiva tra la prestazione del creditore e la controprestazione del debitore;
2. il ricorso è manifestamente infondato; come ha già avuto modo di statuire la giurisprudenza di legittimità “è noto che in tema di contratto di mutuo, l’art. 1 della L. n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori (Cass. 4 aprile 2003, n. 5324).
Ha errato, allora, il tribunale nel ritenere in maniera apodittica che il tasso di soglia non fosse stato superato nella fattispecie concreta, solo perché non sarebbe consentito cumulare gli interessi corrispettivi a quelli moratori al fine di accertare il superamento del detto tasso” (Cass. ord. 5598/2017; con principio già affermato da Cass. 14899/2000)”.
Ebbene, tale pronuncia, oltre a ribadire il principio ormai consolidatosi in dottrina ed in giurisprudenza, secondo cui gli interessi di mora sono soggetti alla disciplina antiusura, censura il ragionamento sotteso alla pronuncia del Tribunale nella parte in cui era stata apoditticamente esclusa l’usurarietà degli interessi per il solo fatto della non applicabilità della sommatoria dei relativi tassi, dovendosi ritenere che la Suprema Corte abbia evidenziato la necessità di verificare in concreto la usurarietà dei tassi d’interesse, ma ciò non implica che debba farsi luogo alla loro sommatoria ai fini della verifica del superamento del c.d. tasso soglia.
Corrobora l’orientamento sopra espresso il punto 4) dei “Chiarimenti in materia di applicazione della legge antiusura” del 2/7/2013, che costituisce un valido parametro interpretativo della disciplina antiusura, secondo cui i TEG medi rilevati dalla B.D. includono, oltre al tasso nominale, tutti gli oneri connessi all’erogazione del credito.
Venendo al caso di specie, i tassi d’interesse corrispettivo e moratorio, pari, rispettivamente, al 6,20% ed al 6,95%, se correttamente analizzati con esclusione della sommatoria con il tasso d’interesse moratorio, risultano essere stato legittimamente pattuiti nel rispetto del tasso soglia antiusura vigente all’epoca del stipulazione del mutuo.
La domanda di accertamento della nullità parziale del contratto di mutuo relativamente alla previsione del piano di ammortamento c.d. alla francese è priva di pregio.
La contestazione concerne in sostanza il sistema di ammortamento previsto dal contratto, che è il c.d. sistema di ammortamento alla francese.
Come noto, si tratta di un sistema graduale di rimborso del capitale finanziato in cui le rate da pagare alla fine di ciascun anno sono calcolate in modo che esse rimangano costanti nel tempo (per tutta la durata del prestito). Le rate comprendono, quindi, una quota di capitale ed una quota di interessi, le quali, combinandosi insieme, mantengono costante la rata periodica per l’intera durata del rapporto.
Ciò è possibile in quanto la quota capitale è bassa all’inizio dell’ammortamento per poi aumentare progressivamente man mano che il prestito viene rimborsato. Viceversa (e da qui la costanza della rata) la quota interessi parte da un livello molto alto per poi scendere gradualmente nel corso del piano di ammortamento, perché gli interessi sono calcolati su un debito residuo inizialmente alto e poi sempre più basso in virtù del rimborso progressivo del capitale che avviene ad ogni rata pagata.
La caratteristica del cd. piano di ammortamento alla francese non è, quindi, quella di operare un’illecita capitalizzazione composta degli interessi, ma soltanto quella della diversa costruzione delle rate costanti, in cui la quota di interessi e quella di capitale variano al solo fine di privilegiare nel tempo la restituzione degli interessi rispetto al capitale.
Gli interessi convenzionali sono, quindi, calcolati sulla quota capitale ancora dovuta e per il periodo di riferimento della rata, senza capitalizzare in tutto o in parte gli interessi corrisposti nelle rate precedenti.
Né si può sostenere che si sia in presenza di un interesse composto per il solo fatto che il metodo di ammortamento alla francese determina inizialmente un maggior onere di interessi rispetto al piano di ammortamento all’italiana, che, invece, si fonda su rate a capitale costante. Il piano di ammortamento alla francese, in conformità all’art. 1194 c.c., prevede un criterio di restituzione del debito che privilegia, sotto il profilo cronologico, l’imputazione ad interessi rispetto quella al capitale.
In conclusione, ogni rata determina il pagamento unicamente degli interessi dovuti per il periodo cui la rata si riferisce (importo che viene integralmente corrisposto con la rata), mentre la parte rimanente della quota serve ad abbattere il capitale.
Orbene, conformemente alla giurisprudenza prevalente, condivisa dall’adito Tribunale, “si deve escludere che l’opzione per l’ammortamento alla francese comporti per sé stessa l’applicazione di interessi anatocistici, perché gli interessi che vanno a comporre la rata da pagare sono calcolati sulla sola quota di capitale, e che il tasso effettivo sia indeterminato o rimesso all’arbitrio del mutuante.
Infatti, anche nel metodo di capitalizzazione alla francese gli interessi vengono calcolati sulla quota capitale via via decrescente e per il periodo corrispondente a ciascuna rata, sicché non vi è alcuna discordanza tra il tasso pattuito e quello applicato e non vi è alcuna applicazione di interessi su interessi, atteso che gli interessi conglobati nella rata successiva sono a loro volta calcolati unicamente sulla residua quota di capitale, ovverosia sul capitale originario detratto l’importo già pagato con la rata o le rate precedenti” (cfr. Tribunale di Roma, sez. IX, ord. 20/4.2015).
Ed ancora, rileva la giurisprudenza prevalente, con riferimento al piano di ammortamento c.d. alla francese, che tale sistema matematico di formazione delle rate risulta in verità predisposto in modo che in relazione a ciascuna rata la quota di interessi ivi inserita sia calcolata non sull’intero importo mutuato, bensì di volta in volta con riferimento alla quota capitale via via decrescente per effetto del pagamento delle rate precedenti, escludendosi in tal modo che, nelle pieghe della scomposizione in rate dell’importo da restituire, gli interessi di fatto vadano determinati almeno in parte su se stessi, producendo l’effetto anatocistico contestato” (cfr. Trib. Milano, 29/1/2015).
Ne consegue la legittimità del piano di ammortamento allegato al contratto di mutuo de quo.
E’ parimenti infondata la domanda di nullità parziale del contratto ex art. 117 D.Lgs. n. 385 del 1993 per la difformità dell’ISC indicato in contratto da quello effettivo.
Giova premettere che la disciplina di riferimento è prevista dagli artt. 116 e 117 D.P.R. n. 385 del 1993, che impongono alle Banche di pubblicizzare in modo chiaro le condizioni economiche applicate nei rapporti con i clienti e l’art. 116, comma 3 T.U.B. demanda il compito di individuare più specificamente gli obblighi informativi in capo agli istituti di credito al CICR, che, con Delib. del 4 marzo 2003, ha demandato alla B.D. l’individuazione dei contratti per i quali gli istituti di credito devono riportare espressamente l’indicatore sintetico di costo ed indicarne il contenuto ed i parametri di calcolo.
La B.D., dando esecuzione alla citata normativa, ha disciplinato l’ISC nel Titolo X delle proprie Istruzioni di vigilanza ed ha emanato le disposizioni sulla “Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari” il 29 luglio 2009, successivamente integrate il 9 febbraio 2011), secondo cui i finanziamenti (intesi come operazioni di mutuo, anticipazioni bancarie, aperture di credito in conto corrente, nonché i prestiti personali e i prestiti c.d. “finalizzati”) devono riportare nel foglio illustrativo e nel documento di sintesi l’ISC, calcolato secondo la formula prevista dalla B.D. per il TAEG.
Ciò posto, si sono diffusi vari orientamenti sulle conseguenze della difformità tra l’ISC indicato in contratto e quello concretamente applicato:
secondo un primo orientamento l’indicazione nel contratto di un ISC inferiore rispetto al TAEG costituirebbe una violazione dell’art. 117, comma VI, del TUB, secondo cui sono da ritenersi nulle quelle clausole che prevedono per i clienti condizioni economiche più sfavorevoli di quelle pubblicizzate, con conseguente nullità della clausola relativa agli interessi e, conseguentemente, la necessità di applicare – in sostituzione del tasso dichiarato nullo – il tasso nominale dei buoni ordinari del tesoro ai sensi dell’art. 117, comma 7 TUB (cfr. Trib. Chieti, n. 230 del 23 aprile 2015).
Secondo un più recente e condivisibile indirizzo ermeneutico, invece, l’ISC non rappresenta una specifica condizione economica da applicare al contratto di finanziamento, svolgendo unicamente una funzione informativa finalizzata a porre il cliente nella posizione di conoscere il costo totale effettivo del finanziamento prima di accedervi. L’erronea quantificazione dell’ISC, quindi, non potrebbe comportare una maggiore onerosità del finanziamento (non mettendo in discussione la determinazione delle singole clausole contrattuali che fissano i tassi di interesse e gli altri oneri a carico del mutuatario) e, conseguentemente, non renderebbe applicabile a tale situazione quanto disposto dall’art. 117, comma 6 TUB (cfr. Trib. Roma 19 aprile 2017).
Quest’ultimo orientamento è stato ribadito anche dal Tribunale di Milano, secondo cui non si rinviene nel diritto positivo la sanzione della nullità per la fattispecie in questione, essendo stata prevista una simile sanzione solo nel settore del credito al consumo, nella cui disciplina l’art. 125-bis, comma VI, del TUB dispone che, nel caso in cui il TAEG indicato nel contratto non sia stato determinato correttamente, le clausole che impongono al consumatore costi aggiuntivi (rispetto a quelli effettivamente computati nell’ISC) sono da considerarsi nulle.
Ne consegue che, qualora il legislatore avesse voluto sanzionare con la nullità la difformità tra ISC e TAEG nell’ambito di operazioni diverse dal credito al consumo, lo avrebbe espressamente previsto, analogamente a quanto avvenuto con l’art. 125-bis, comma VI, TUB, pertanto l’erronea indicazione dell’ISC non determina nessuna incertezza sul contenuto effettivo del contratto stipulato e del tasso di interesse effettivamente pattuito, pertanto la violazione dell’obbligo pubblicitario perpetrata dalla Banca mediante l’erronea quantificazione dell’ISC non è suscettibile di determinare alcuna invalidità del contratto di mutuo (né tantomeno della sola clausola relativa agli interessi), ma può configurarsi unicamente come illecito e, in quanto tale, essere fonte di responsabilità della Banca (cfr. Trib. Milano n. 10832 del 26/10/2017).
Quanto infine alle doglianze attoree circa la presenza di più piani di ammortamento, non vi è prova che la banca abbia applicato un piano di ammortamento diverso da quello pattuito dalle parti ed allegato al contratto.
Ne consegue l’infondatezza delle domande attoree di accertamento della nullità parziale del contratto di mutuo, nonché delle pretese restitutorie e risarcitorie dell’attrice, strettamente connesse alle azioni di accertamento.
Quanto alla pretesa risarcitoria, la domanda è sfornita di idonea allegazione e prova della natura e dell’entità del danno asseritamente subito e da risarcire.
Ai fini della risarcibilità ex art. 1223 c.c., in relazione all’art. 1218 c.c. o agli artt. 2043 e 2056 c.c., il creditore o il preteso danneggiato deve infatti allegare non solo l’altrui inadempimento ovvero allegare e provare l’altrui fatto illecito, ma in entrambi i casi deve pur sempre allegare e provare l’esistenza di una lesione, cioè della riduzione del bene della vita (patrimonio, salute, immagine, ecc.) di cui chiede il ristoro, e la riconducibilità della lesione al fatto del debitore o del danneggiante: in ciò appunto consiste il danno risarcibile, che è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente o illecita; in difetto di tale allegazione e prova la domanda risarcitoria mancherebbe di oggetto (cfr. Cass. 5960/2005).
In adesione al principio ermeneutico basato sul concetto di danno-conseguenza in contrapposizione a quello di danno-evento ed escludendo l’ipotizzabilità di un risarcimento automatico e di un danno in re ipsa, così da coincidere con l’evento, appare quindi evidente che la domanda risarcitoria deve essere provata, sia pure ricorrendo a presunzioni, sulla base di conferente allegazione: non si può invero provare ciò che non è stato oggetto di rituale ed adeguata allegazione (cfr. Cass. SU 26972/2008).
Nella specie difettano la prova della condotta inadempiente o illegittima della convenuta e del danno patrimoniale sofferto, oltre che del nesso causale.
Le spese processuali, liquidate come in dispositivo di seguono la soccombenza.
P.Q.M.
visto l’art. 281-quinquies c.p.c.;
il Tribunale di Roma, definitivamente pronunziando sulle domande proposte con atto di citazione notificato in data 10/12/2015 da (…) e (…) avverso la S.p.A. (…), in persona del legale rappresentante pro tempore, contrariis reiectis:
RIGETTA le domande proposte da (…) e (…) avverso la S.p.A. (…);
CONDANNA (…) e (…) al pagamento in favore della controparte delle spese processuali, che liquida in Euro 7.000,00 per compenso professionale, oltre al 15% per spese generali ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma il 13 febbraio 2019.
Depositata in Cancelleria il 13 febbraio 2019.