Nelle controversie relative al rapporto di lavoro delle persone detenute all’interno degli istituti penitenziari, non è applicabile il criterio di competenza territoriale di cui all’art. 413, quinto comma, cod. proc. civ., da intendersi specificamente riferito ai rapporti di lavoro pubblico, mentre sono applicabili i criteri previsti dall’art. 413, secondo comma, cod. proc. civ., svolgendosi tali prestazioni di lavoro – sia pure per il perseguimento dell’obbiettivo di fornire alle persone detenute occasioni di lavoro – nell’ambito di una struttura aziendale finalizzata alla produzione di beni per il soddisfacimento di commesse pubbliche ed anche private, il cui carattere limitato non ne impedisce l’utilizzazione come criterio per radicare la competenza territoriale. Ne consegue che, intercorrendo il rapporto di lavoro con il Ministero della Giustizia, il quale, per il tramite del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, esercita un ruolo fondamentale su rilevanti aspetti organizzativi dell’attività produttiva realizzata nei singoli istituti, e, quindi, va considerato quale centro di direzione e coordinamento delle strutture aziendali che fanno capo ai singoli istituti, in applicazione del criterio di collegamento stabilito dall’art. 413, secondo comma, cod. proc. civ. costituito dalla sede dell’azienda (ossia del luogo in cui l’azienda viene gestita), sussiste la competenza del Tribunale di Roma, ferma restando l’operatività degli altri due fori alternativi, ivi enunciati, a scelta della parte attrice.

Tribunale Roma Sezione L Civile Sentenza 30 aprile 2019 n. 4106

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI ROMA

SEZIONE IV LAVORO

PRIMO GRADO

Il Giudice Dott. Donatella Casari, all’udienza del 30.4.2019 ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa n39703/2017 R.G. vertente

TRA

(…), nato a S. (C.) il (…), rappresentato e difeso dall’Avv. Ca.Pi. ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, Via (?), come da procura alle liti in atti;

– RICORRENTE –

NEI CONFRONTI DI

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato ed elettivamente domiciliato presso gli uffici di questa in Roma, Via (…);

– RESISTENTE –

oggetto: lavoro carcerario – differenze retributive

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ritualmente notificato l’istante in epigrafe indicato, premesso di essere stato recluso in diversi istituti penitenziali, esposto di aver svolto attività lavorativa dall’ottobre 2009 sino al mese di maggio 2014 nel carcere di Vigevano, e successivamente nel carcere di Pavia, venendo retribuito in misura inadeguata, concludeva chiedendo la condanna del Ministero convenuto al pagamento di Euro3.196,47 a titolo di differenze retributive maturate nell’indicato periodo su lavoro ordinario e festività lavorate per come già riconosciute in buste paga, dovute ad adeguamenti della retribuzione maturati dal 2005 in ragione di quanto disposto dal CCNL, oltre accessori e vinte le spese.

Si costituiva tempestivamente in giudizio il Ministero tramite propri funzionari sollevando in via preliminare eccezione di incompetenza territoriale ex art.413 comma 5 c.p.c.. correndo il rapporto di lavoro tra ricorrente ed istituto penitenziario e di prescrizione annuale dei diritti azionati ex art.2955 comma 2 c.c..

Nel merito sosteneva carenza di allegazione in fatto ed in diritto non avendo il ricorrente indicato in concreto le mansioni svolte e non prevedendo l’art.22 O.P. la frequenza con cui la Commissione si debba riunire per l’aggiornamento dell’ammontare delle mercedi ai detenuti.

Formulava infine eccezione di compensazione chiedendo che fosse detratto dal maturato l’adeguamento delle somme dovute per il mantenimento in carcere ragguagliando le medesime al costo reale fissato con D.M. del 7 agosto 2015 pari ad Euro5,44 giornalieri con effetto retroattivo, di cui i 2/3 a carico del detenuto nella misura di Euro3,63. Eccepiva infine l’inapplicabilità del cumulo tra interessi e rivalutazione.

Esperito con esito negativo il tentativo di conciliazione, invitato il Ministero a regolarizzare la procura attesa l’eccezione di difetto di ius postulandi sollevata, costituitosi il Ministero tramite l’Avvocatura Generale dello Stato, la causa veniva all’odierna udienza discussa e decisa come da dispositivo in calce di cui veniva data lettura.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente va affermata la competenza funzionale del giudice del lavoro trattandosi di controversia relativa al pagamento della retribuzione spettante al detenuto, stante la pronuncia della Corte costituzionale n.341 del 2006, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.69 L. n. 354 del 1975 (Cass. n.21573/2007).

Del pari sussiste la competenza territoriale di questo Tribunale, stante l’applicabilità alla fattispecie dell’art.413 comma 2 c.p.c. e non già del successivo comma 5 come sostenuto in comparsa. Ha chiarito al riguardo il giudice di legittimità che

“Nelle controversie relative al rapporto di lavoro delle persone detenute all’interno degli istituti penitenziari, non è applicabile il criterio di competenza territoriale di cui all’art. 413, quinto comma, cod. proc. civ., da intendersi specificamente riferito ai rapporti di lavoro pubblico, mentre sono applicabili i criteri previsti dall’art. 413, secondo comma, cod. proc. civ., svolgendosi tali prestazioni di lavoro – sia pure per il perseguimento dell’obbiettivo di fornire alle persone detenute occasioni di lavoro – nell’ambito di una struttura aziendale finalizzata alla produzione di beni per il soddisfacimento di commesse pubbliche ed anche private, il cui carattere limitato non ne impedisce l’utilizzazione come criterio per radicare la competenza territoriale.

Ne consegue che, intercorrendo il rapporto di lavoro con il Ministero della Giustizia, il quale, per il tramite del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, esercita un ruolo fondamentale su rilevanti aspetti organizzativi dell’attività produttiva realizzata nei singoli istituti, e, quindi, va considerato quale centro di direzione e coordinamento delle strutture aziendali che fanno capo ai singoli istituti, in applicazione del criterio di collegamento stabilito dall’art. 413, secondo comma, cod. proc. civ. costituito dalla sede dell’azienda (ossia del luogo in cui l’azienda viene gestita), sussiste la competenza del Tribunale di Roma, ferma restando l’operatività degli altri due fori alternativi, ivi enunciati, a scelta della parte attrice.” (Cass. n.18309/2009).

Pronuncia che evidenzia altresì l’infondatezza dell’ulteriore eccezione a questa sottesa riferita a difetto di legittimazione passiva del Ministero secondo cui datore di lavoro doveva ritenersi l’istituto penitenziario.

Riguardo alla posizione processuale del Ministero convenuto, occorre rilevare come la costituzione in giudizio tramite l’Avvocatura dello Stato abbia sanato il precedente difetto di ius postulandi in capo ai funzionari.

Il dicastero si era infatti costituito ex art.417 bis tramite propri funzionari. Dispone il richiamato articolo che “nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al quinto comma dell’art.413 limitatamente al giudizio di primo grado le amministrazioni stesse possono stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri funzionari”.

Orbene, il giudice di legittimità ha chiaramente escluso che i rapporti afferenti lo svolgimento di prestazione lavorativa intercorsi tra detenuto e Ministero della Giustizia possano essere come tali assimilati a rapporti di lavoro pubblico alle dipendenze della P.A..

Ed infatti la Corte di Cassazione – I sezione penale, con la sent. n.18505 del 3 maggio 2006, si è pronunciata sui diritti dei detenuti che svolgono attività lavorativa precisando che “l’attività lavorativa svolta dal detenuto all’interno dell’Istituto penitenziario ed al medesimo assegnata dalla Direzione del carcere non è equiparabile alle prestazioni di lavoro svolte al di fuori dell’ambito carcerario” e ciò poiché detta attività “ha caratteri del tutto peculiari per la sua precipua funzione rieducativa e di reinserimento sociale” da cui l’inapplicabilità di istituti propri del rapporto di lavoro subordinato pubblico e privato quali il licenziamento o il diritto alla NASPI (da ultimo vedi anche Messaggio INPS n. 909 del 2019).

Ma se i rapporti della tipologia in esame non sono qualificabili e neppure assimilabili ai rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici, viene meno il presupposto normativo perché l’amministrazione convenuta sia legittimata ex art.417 bis a stare in giudizio tramite propri funzionari.

Ne consegue l’originaria invalidità della costituzione nel presente giudizio operata dal Ministero tramite propri funzionari, difetto per altro sanato ex tunc dall’operata costituzione del dicastero tramite l’Avvocatura.

Si ritengono infatti applicabili anche al caso di specie i principi enunciati di recente dalla Corte di Cassazione, la quale, riprendendo l’argomentare di precedenti pronunciamenti (Cass. n.19663/2916 e n.11359/2014), ha ricordato che “ai sensi dell’articolo 182 comma 1 c.p.c., il giudice che rilevi l’omesso deposito della procura speciale alle liti, rilasciata ai sensi dell’articolo 83, comma terzo, c.p.c., che sia stata semplicemente enunciata o richiamata negli atti della parte, è tenuto ad invitare quest’ultima a produrre l’atto mancante, e tale invito può e deve essere fatto, in qualsiasi momento, anche dal giudice dell’appello, sicché solo in esito ad esso il giudice deve adottare le conseguenti determinazioni circa la costituzione della parte in giudizio, reputandola invalida soltanto nel caso in cui l’invito sia rimasto infruttuoso”.

Infatti, il Giudice non può dichiarare l’invalidità della costituzione in giudizio senza aver preventivamente invitato la parte a produrre, in corso di causa, la procura alle liti, ai sensi dell’articolo 182 comma 1 c.p.c. e “qualora il documento venga prodotto nel giudizio di merito, l’irregolarità della costituzione viene sanata “ex tunc” (Civile Ord. Sez. 6 Num. 15933/ 2018).

Né colgono nel segno i richiami operati dalla difesa dell’istante da ultimo a verbale d’udienza relativi alla lamentata “decadenza e nullità delle eccezioni svolte dal Procuratore dello Stato secondo Cass. nn.9596/2001 e 17125/2015”.

I menzionati pronunciamenti di legittimità infatti, ritenuta l’insussistenza di procura alle liti rilasciata in epoca precedente la costituzione in giudizio secondo il rito lavoro, avevano ritenuto la non sanabilità di tale difetto.

Nel caso di specie, invece, il ricorso, ritualmente notificato all’Avvocatura dello Stato, ha visto la medesima Avvocatura optare per la difesa ad opera di funzionari dell’amministrazione resistente avendo la medesima erroneamente ritenuto di ciò poter fare ex art. 417 bis c.p.c., il che ha comportato mera irregolarità nella costituzione poiché soggetto avente pieno potere ex lege alla difesa processuale ha delegato, tramite tempestiva trasmissione degli atti introduttivi, funzionari non abilitati per gli esposti motivi a stare in giudizio.

Per altro, costituendosi l’Avvocatura ha fatto proprie le difese già compiutamente spigate dai funzionari tramite i quali si era a suo tempo tempestivamente costituito il Ministero, da cui l’insussistenza di intervenute decadenze.

Infondata l’eccezione di nullità dell’atto introduttivo essendo stata la domanda sufficientemente argomentata in fatto ed in diritto come dimostrato dalle puntuali contro argomentazioni della parte convenuta.

Nel merito il ricorso è parzialmente fondato ed in tale misura va accolto.

La questione controversa attiene all’ammontare della mercede dovuta per lo svolgimento delle incontestate mansioni di “giardiniere” e “scopino” (vedi conteggi allegati al ricorso e specifica delle mansioni mese per mese esercitate) inquadrate in busta paga rispettivamente nel livello B e C, lamentando il ricorrente di aver percepito una somma nettamente inferiore rispetto a quella prevista da non meglio precisato CCNL, i cui minimi retributivi espressamente indicati non sono stati per altro disconosciuti o in alcun modo contestati dal Ministero resistente.

Premesso che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato (art. 20 L. n. 354 del 1975 nella versione ratione temporis applicabile e quindi ante riforma ex D.Lgs. n. 124 del 2018), ricorda l’Ufficio come ex art.22 L. n. 354 del 1975, come modificata dall’art.7 L. n. 663 del 1986, “le mercedi per ciascuna categoria di lavoranti sono equitativamente stabilite in relazione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato, alla organizzazione e al tipo del lavoro del detenuto in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro.

A tale fine è costituita una commissione composta dal direttore generale degli istituti di prevenzione e di pena, che la presiede, dal direttore dell’ufficio del lavoro dei detenuti e degli internati della direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena, da un ispettore generale degli istituti di prevenzione e di pena, da un rappresentante del Ministero del tesoro, da un rappresentante del Ministero del lavoro e della previdenza sociale e da un delegato per ciascuna delle organizzazioni sindacali piu’ rappresentative sul piano nazionale.”

La Commissione istituita in forza della normativa richiamata ha determinato le mercedi da corrispondere a ciascuna categoria di lavoranti detenuti, con decorrenza dal 1.4.1976, prevedendo: che la mercede è costituita dalla paga base, indennità di contingenza, ratei 13° e ratei indennità anzianità;

che la durata ordinaria del lavoro è fissata in 40h settimanali; che nelle giornate festive viene corrisposta una doppia mercede, che il lavoro straordinario viene remunerato con una maggiorazione oraria del 25%. (si veda la circolare n. 2294/4748 del 9.3.1976 (di cui al doc. 12 fascicolo di parte ricorrente).

Senonchè è pacifico che la Commissioni in questione non si riunisca dal 1993 sicchè dal novembre 2009 (periodo inziale in questa sede in esame), a distanza di oltre 16 anni, certamente le mercedi a suo tempo fissate non possono neppure ritenersi lontanamente adeguate ai minimi propri degli inquadramenti di cui alla contrattazione collettiva vigente da tale ultima data.

Dal che, pur non sussistendo un obbligo a cadenza prefissata di periodica riunione della commissione, si può senza ombra di dubbio affermare che quanto remunerato tra fine 2009 e maggio 2014 non trovi più alcuna aggancio alla realtà economico-lavorativa esterna.

Ne consegue che, incontestato l’operato abbattimento di 1/3 rispetto ai minimi del CCNL preso di riferimento e, in definitiva, non contestata la debenza secondo il CCNL di un minimo retributivo per la categoria (…) pari ad Euro6,72 (di cui Euro4,48 costituisce i 2/3) e per la categoria (…) pari ad Euro7,17 (di cui Euro4,78 costituiscono i 2/3), tale deve ritenersi il valore orario della prestazione resa nell’arco temporale in esame.

Riguardo alla quantificazione del dovuto parte resistente non ha mosso alcuna specifica contestazione da cui l’accertata maturazione di differenze retributive per la somma richiesta di Euro3.196,47, confermando le buste paga in atti, i dati mese per mese riferiti ad inquadramento del lavoratore, orario espletato, lavoro festivo e retribuzione percepita.

In merito al regime della prescrizione ritiene l’Ufficio di aderire al più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui questa inizia a decorrere terminata la prestazione e non necessariamente solo dalla fine del periodo di detenzione.

Ha in merito chiarito la Cassazione secondo cui “configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dall’attività lavorativa del detenuto possono non coincidere con quelli che contrassegnano il lavoro libero attesa la necessità di preservare le modalità essenziali di esecuzione della pena e le corrispondenti esigenze organizzative dell’amministrazione penitenziaria. Ne consegue che la sospensione della prescrizione permane solo fino alla cessazione del rapporto di lavoro in quanto, in assenza di specifiche disposizioni, non può estendersi all’intero periodo di detenzione” (Cass. sentenza 11 febbraio 2015 n. 2696).

Nel caso di specie dall’esame dei conteggi emergono diverse cesure dell’attività lavorativa da cui la molteplicità di accordi/rapporti intercorsi ed in particolare nessuna attività lavorativa risulta essere stata svolta tra il novembre 2011 e l’ottobre 2012.

Essendo stato il ricorso notificato successivamente al 20 dicembre 2017 (data del decreto di fissazione della prima udienza) certamente devono ritenersi prescritte per decorso di oltre un quinquennio dalla cessazione del primo lavoro le pretese maturate sino all’anno 2011 per un totale di Euro2.153,67.

Nulla può ritenersi prescritto con riferimento invece al successivo rapporto iniziato nell’ottobre 2012 e terminato nel maggio 2014 non decorrendo la prescrizione in corso di prestazione e non essendo decorso da maggio 2014 alla notifica del ricorso un quinquennio.

Ne consegue l’attuale debenza in capo al Ministero convenuto della somma di Euro1.042,80 (Euro3.196,47 – Euro2153,67).

Per mero tuziorismo si rileva come alcun ingresso possano ottenere nel presente giudizio le difese di parte ricorrente di cui a verbale d’udienza del 13.6.2018 essendo ivi stati tardivamente allegati fatti nuovi ed introdotte argomentazioni di diritto del tutto estranee al ricorso e non legate al tenore della comparsa.

Riguardo al credito vantato dal Ministero in compensazione, nulla ha contestato la difesa dell’istante a verbale d’udienza del 13.6.2018 (prima difesa utile superata la fase finalizzata al tentativo di conciliazione) in merito alla rideterminazione del costo reale del mantenimento in carcere fissato con D.M. del 7 agosto 2015 nella misura di Euro5,44, di cui i 2/3 a carico del detenuto nella misura di Euro3,63.

Ricorda l’Ufficio come “l’art.1243 c.c. stabilisce i presupposti sostanziali ed oggettivi del credito opposto in compensazione, ossia la liquidità, inclusiva del requisito della certezza, e l’esigibilità.

Nella loro ricorrenza, il giudice dichiara l’estinzione del credito principale per compensazione legale, a decorrere dalla sua coesistenza con il controcredito e, accogliendo la relativa eccezione, rigetta la domanda, mentre, se il credito opposto è certo ma non liquido, perché indeterminato nel suo ammontare, in tutto o in parte, egli può provvedere alla relativa liquidazione, se facile e pronta, e quindi può dichiarare estinto il credito principale per compensazione giudiziale sino alla concorrenza con la parte di controcredito liquido, oppure può sospendere cautelativamente la condanna del debitore fino alla liquidazione del controcredito eccepito in compensazione” (Cass. Sez. U – , Sent. n.23225 del 15/11/2016).

Come noto per altro, indipendentemente dalla questione se il contro credito dell’amministrazione maturato per il mantenimento del detenuto in carcere dia luogo a un caso di compensazione in senso tecnico, ovvero di c.d. compensazione impropria traendo fonte entrambi i rispettivi crediti dalla detenzione, un credito è suscettibile di compensazione solo ove dotato, anzitutto, del carattere della certezza (Cass. 23 marzo 2017, n. 7474).

Orbene, l’art. 188 c.p. statuisce che:

“Il condannato è obbligato a rimborsare all’erario dello Stato le spese per il suo mantenimento negli stabilimenti di pena, e risponde di tale obbligazione con tutti i suoi beni mobili e immobili, presenti e futuri, a norma delle leggi civili”.

A sua volta l’art.5 del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, (…) sulle spese di giustizia, elenca tra le spese ripetibili anche quelle di mantenimento dei detenuti mentre l’art.227 ter dello stesso testo prevede che il recupero sia effettuato con riscossione mediante ruolo “entro un mese dalla data del passaggio in giudicato della sentenza o dalla data in cui è divenuto definitivo il provvedimento da cui sorge l’obbligo o, per le spese di mantenimento, cessata l’espiazione in istituto”.

Infine, l’ar.6 dello stesso (…) prevede un’ipotesi di remissione del debito, che il detenuto può invocare se si trova in disagiate condizioni economiche e ha tenuto in istituto una regolare condotta: istanza, questa, che può essere proposta “fino a che non è conclusa la procedura per il recupero, che è sospesa se in corso”.

Dal combinato disposto di tali norme ha ritenuto il giudice di legittimità di dedurre che “fintanto che l’amministrazione non abbia agito per il recupero e non si sia consumata la facoltà dell’interessato di chiedere la remissione, neppure può dirsi che il credito concernente le spese di mantenimento sia effettivamente sussistente” (Cass. n.20528/2018), da cui l’impossibilità, allo stato, di operare la richiesta compensazione.

Ne consegue la condanna del Ministero convenuto al versamento del dovuto non prescritto pari ad Euro1.042,80, oltre interessi legali.

Su tali somme sussiste infatti divieto di cumolo di interessi e rivalutazione monetaria come chiarito dal giudice di legittimità che in merito ha precisato come

“In materia di lavoro dei detenuti, trattandosi di rapporto di lavoro con il Ministero della Giustizia, opera il divieto di cumulo tra rivalutazione monetaria ed interessi poiché non ricorre la medesima “ratio” di cui alla pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale n. 459 del 2000 – che ha escluso il divieto per i crediti dei lavoratori privati – ma sussistono ragioni di contenimento della spesa pubblica, che giustificano la differenziazione della disciplina” (Cass., sezione Lavoro, sentenza 11 agosto 2014 n. 17869).

I compensi di lite sono compensati per la metà attesa la parziale reciproca soccombenza.

P.Q.M.

Ogni contraria istanza ed eccezione disattesa,

condanna il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, al pagamento in favore di C.F. di Euro1.042,80, oltre interessi legali come per legge;

rigetta nel resto il ricorso;

compensa per la metà i compensi di lite e condanna il Ministero della Giustizia alla refusione della restante parte al ricorrente liquidata in complessivi Euro600,00, da distrarsi.

Così deciso in Roma il 30 aprile 2019.

Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2019.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.