In tema di accessione, spetta al proprietario del suolo, che eserciti il diritto di ritenzione riconosciutogli dall’art. 936 c.c., nel caso di opere fatte da un terzo con materiali propri, di scegliere, ai fini della liquidazione dell’indennizzo, il criterio del valore di materiali e mano d’opera, oppure quello dell’aumento del valore del fondo; in difetto di tale scelta – che può essere effettuata anche in grado di appello, non stabilendo la anzidetta norma alcun termine il giudice deve liquidare d’ufficio l’indennizzo sulla base degli elementi a disposizione, sempreché il terzo in buona fede ne abbia fatto domanda
Corte d’Appello|Catania|Sezione 2|Civile|Sentenza|28 febbraio 2020| n. 516
Data udienza 6 febbraio 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE D’APPELLO DI CATANIA – SECONDA SEZIONE CIVILE
La Corte d’Appello di Catania – Seconda Sezione Civile – composta da:
1) Dott. Tommaso FRANCOLA Presidente
2) Dott.ssa Grazia LONGO Consigliere rel. ed est.
3) Dott. Carmelo MAZZEO Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n. 1314/2018 R.G., avente per oggetto: “Altri istituti in materia di diritti reali possesso e trascrizione”;
TRA
ET. S.N.C., con sede a Vittoria Zona Artigianale Via (…), in persona del legale rappresentante p.t. La.Gi. rappresentato e difeso dall’avv. An.Ce. giusta procura in atti;
PARTE APPELLANTE
CONTRO
Pu. s.n.c.” in liquidazione, con sede a Vittoria, via (…), c.f. (…), in persona del liquidatore Fe.Se., rappresentato e difeso dall’avv. Gi.Bu. giusta procura in atti;
PARTE APPELLATA
all’udienza del 18 novembre 2019 venivano precisate le conclusioni come da verbale in atti.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 9 gennaio 2018 n. 49, il Tribunale di Ragusa ha rigettato sia le domande avanzate dall’allora attrice, sia le domande riconvenzionali presentate dall’allora convenuta.
Nello specifico, parte attrice aveva chiesto ordinarsi alla convenuta il rilascio del lotto n. 16, sito a Vittoria (Rg), c.da (…) via (…), indicato nel n. C.T. di detto Comune al foglio n. (…), previo ripristino dello status quo ante, oltre ai frutti civili e agli interessi dal dovuto al soddisfo.
Di contro, parte convenuta, in via riconvenzionale, aveva chiesto condannarsi l’attrice al pagamento di Euro 63.650,00, di cui Euro 53.650,00 a titolo di corrispettivo delle opere realizzate ed Euro 10.000,00 a titolo di maggior valore del bene immobile.
Avverso la suddetta sentenza ha proposto appello la Et. S.n.c. (da qui innanzi ET.) con atto di citazione notificato il 6 luglio 2018 e ha chiesto, in riforma della stessa per i motivi di seguito esaminati, la condanna dell’appellata al pagamento della complessiva somma di Euro 31.466,61, oltre rivalutazione ed interessi; con vittoria di spese e compensi di entrambi i gradi di giudizio e di consulenza tecnica di primo grado.
Instauratosi il contraddittorio, si è costituita la Pu. s.n.c. in liquidazione (da qui innanzi Pu.), la quale ha contestato le prospettazioni dell’appellante eccependone l’inammissibilità e, nel merito, chiedendone il rigetto, con integrale conferma della sentenza impugnata e vittoria di spese e compensi.
Acquisito il fascicolo di primo grado, all’udienza del 18 novembre 2019 i procuratori delle parti hanno precisato le rispettive conclusioni come da verbale in atti e la causa è stata posta in decisione con termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di impugnazione, l’appellante (precedentemente convenuta) ha lamentato l’erroneo rigetto da parte del giudice di primo grado delle domande riconvenzionali avanzate in detta fase. In particolare, a dire dell’appellante, il primo decidente avrebbe dovuto interpretare la domanda di rimborso svolta in primo grado quale indennizzo ex art. 936 c.c. co. 2; avendo applicato detta norma per il rigetto delle domande di rilascio e riduzione in pristino avanzate dalla Pu., il primo giudice avrebbe conseguentemente dovuto riconoscere all’appellante detto indennizzo, nella misura del valore dei materiali e del prezzo della manodopera.
Il motivo è fondato e deve essere accolto.
Ai sensi dell’art. 936 c.c., “quando le piantagioni, costruzioni od opere sono state fatte da un terzo con suoi materiali, il proprietario del fondo ha diritto di ritenerle o di obbligare colui che le ha fatte a levarle.
Se il proprietario preferisce di ritenerle, deve pagare a sua scelta il valore dei materiali e il prezzo della mano d’opera oppure l’aumento di valore recato al fondo
Se il proprietario del fondo domanda che siano tolte, esse devono togliersi a spese di colui che le ha fatte. Questi può inoltre essere condannato al risarcimento dei danni.
Il proprietario non può obbligare il terzo a togliere le piantagioni, costruzioni ed opere, quando sono state fatte a sua scienza e senza opposizione o quando sono state fatte dal terzo in buona fede.
La rimozione non può essere domandata trascorsi sei mesi dal giorno in cui il proprietario ha avuto notizia dell’incorporazione.”.
Nel caso in esame il primo decidente, giova ricordarlo, ha applicato il quarto comma di detto articolo per rigettare la domanda di riduzione in pristino avanzata dall’appellata, allora attrice; tale statuizione è ormai coperta da giudicato, in virtù del mancato appello incidentale della Pu. sul punto.
Secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, “in tema di costruzione od opera eseguita dal terzo con materiali propri su suolo altrui, l’art. 936, comma 3, c.c. riconosce il diritto al risarcimento del danno in favore del proprietario del suolo esclusivamente nel caso in cui lo stesso sia legittimato a chiedere la rimozione dell’opera mentre, ove non gli sia o non gli sia più consentito proporre quest’ultima domanda, è il terzo ad avere, viceversa, diritto ad un indennizzo a fronte del vantaggio economico derivato al proprietario del fondo da detta costruzione od opera, vantaggio che è prioritario ed assorbente rispetto al danno dal medesimo eventualmente subito ed incompatibile con la relativa pretesa risarcitoria” (Cass. civ. sent. n. 3523 del 2017).
Più nel dettaglio, “soltanto nel caso in cui sia legittimato a chiedere la rimozione dell’opera, il proprietario ha garantito altresì il risarcimento del danno, consistente nel ristoro del pregiudizio arrecatogli con l’occupazione temporanea del fondo, nonché del danno materiale causato al fondo stesso (escavazioni, fondazioni, perdita di colture); mentre, tanto nel caso dell’espressa scelta di ritenzione quanto in quello dell’omessa richiesta di rimozione nel congruo termine normativamente previsto, è ravvisabile un implicito riconoscimento dell’utilità dell’opera da parte del proprietario del suolo, incompatibile con un pretesa risarcitoria, senza che si possa distinguere tra danni derivanti dall’accessione e danni dovuti all’occupazione temporanea del fondo”.
Alle fattispecie sopra menzionate dell’espressa scelta di ritenzione e dell’omessa richiesta di rimozione nel termine di legge, che legittimano secondo la giurisprudenza il diritto all’indennità di cui all’art. 936 co. 2 c.c., è certamente assimilabile l’ipotesi, ricorrente nel caso in esame, in cui la domanda di rimozione sia stata tempestivamente svolta ma successivamente rigettata dal giudice, con statuizione in questo caso peraltro ormai coperta dal giudicato: in caso contrario si creerebbe, infatti, una ingiustificata disparità di trattamento tra situazioni analoghe, a detrimento del terzo che ha svolto l’opera, il quale troverebbe tutela nel caso di inerzia del proprietario ma non in quello, probabilmente più grave, di un’infondata azione giudiziale nei propri confronti.
Tale indennità, nelle ipotesi citate in cui è dovuta, rappresenta un vero e proprio obbligo di legge a carico del proprietario del fondo, sancito anche dal verbo “dovere” non a caso utilizzato dalla dizione codicistica, cui corrisponde un equivalente diritto del terzo a ricevere detta somma.
A detti principi consegue che, una volta applicato l’art. 936 c.c. per escludere la riduzione in pristino e una volta provata la realizzazione delle opere con materiali propri sul fondo altrui, il primo giudice avrebbe dovuto, conseguentemente, dare seguito al citato obbligo di legge, con ciò accogliendo la domanda riconvenzionale di rimborso avanzata dalla ET.. interpretata alla stregua della predetta norma; in virtù di ciò, avrebbe, dunque, dovuto condannare la Pu., proprietaria del terreno, a versare all’appellante l’indennizzo dovuto ai sensi del secondo comma di tale disposizione.
Né tale valutazione può mutare, come invece sostiene l’appellato, sulla base della circostanza che l’opera realizzata sarebbe un piazzale e non il capannone oggetto della convenzione edilizia: ciò perché l’applicazione dell’art. 936 c.c., oramai passata in giudicato nella fattispecie in esame, impone il pagamento dell’indennizzo per l’opera – qualunque essa sia – rimasta nella proprietà del proprietario del terreno e realizzata dal terzo con materiali propri.
Detto ciò sull’interpretazione della domanda formulata dall’appellato, per quanto concerne l’ammontare dell’indennizzo, il secondo comma dell’art. 936 c.c. lascia al proprietario la scelta se commisurare la somma da versare alternativamente al valore dei materiali e il prezzo della manodopera, ovvero all’aumento di valore recato al fondo.
Tuttavia, tale facoltà di scelta non è stata esercitata.
Indi, sulla base della giurisprudenza della S.C., questa scelta deve essere fatta di ufficio (cfr. Cass. n. 21612/09 secondo cui “In tema di accessione, spetta al proprietario del suolo, che eserciti il diritto di ritenzione riconosciutogli dall’art. 936 c.c., nel caso di opere fatte da un terzo con materiali propri, di scegliere, ai fini della liquidazione dell’indennizzo, il criterio del valore di materiali e mano d’opera, oppure quello dell’aumento del valore del fondo; in difetto di tale scelta – che può essere effettuata anche in grado di appello, non stabilendo la anzidetta norma alcun termine il giudice deve liquidare d’ufficio l’indennizzo sulla base degli elementi a disposizione, sempreché il terzo in buona fede ne abbia fatto domanda”).
Questa Corte ritiene di utilizzare il criterio del valore dei materiali e del prezzo della manodopera; tale criterio ha peraltro il pregio di essere facilmente e oggettivamente valutabile alla luce delle risultanze probatorie emerse nel corso del procedimento.
Infatti, il consulente tecnico di primo grado ha stimato in Euro 27.240,61 il costo delle opere edilizie realizzate dall’appellante.
A tale somma vanno aggiunti ulteriori Euro 3.526,00 pagati dalla ET.. per compensi professionali relativi ai lavori de quibus e documentalmente provati in atti di causa (rispettivamente fatture per Euro 2.096,00 al Geom. Bu.Cl., Euro 1.230,00 al Per. Ind. Gi.Bl., ed Euro 200,00 al Dr. Fr.Ce.).
Dette somme, attenendo ad attività di prestazione d’opera professionale concernenti i lavori di cui trattasi, devono infatti rientrare nel costo della manodopera, pur non essendo stati conteggiati dal consulente tecnico, che si è invece limitato a quantificare il costo delle opere edilizie eseguite, senza però considerare le spese sostenute per la prodromica (ma necessaria) attività di progettazione e di pianificazione della struttura e degli impianti.
Va inoltre sottolineato che tali importi, contrariamente a quanto dedotto dall’appellato, non rappresentano una domanda nuova: essi erano infatti già stati ricompresi nel più ampio calcolo richiesto in primo grado e afferiscono in ogni caso alla medesima causa petendi (la restituzione degli importi spesi dalla ET.. per la realizzazione delle opere sul terreno della Pu.).
Può quindi quantificarsi in complessivi Euro 30.766,61, il costo dei materiali e della manodopera, trattandosi di un debito di valore (cfr. Cass. n. 6973/2017 e Cass. 26125/2015), il detto importo deve essere rivalutato di ufficio fino alla sua liquidazione; questa Corte determina equitativamente in complessivi Euro 32.000,00 l’indennizzo dovuto, già liquidato in moneta attuale comprensivo di rivalutazione, in considerazione del mutato potere di acquisto della moneta dalla data della consulenza di ufficio, quando cioè veniva liquidato l’importo.
Infine, a detta somma, devalutata al momento della realizzazione dell’opera e rivalutata anno per anno, sono dovuti gli interessi compensativi dalla data della realizzazione dell’opera al soddisfo.
Pertanto, la parte appellata va condannata al pagamento delle suddette somme.
Con il secondo motivo di impugnazione, l’appellante ha lamentato l’erronea compensazione delle spese da parte del primo decidente.
Ha sostenuto l’appellante che il primo giudice, avendo errato nella valutazione del merito, avrebbe conseguentemente errato anche nel riparto delle spese del giudizio e della consulenza tecnica di ufficio.
Il motivo è assorbito.
Infatti, il giudice di appello allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, deve procedere d’ufficio, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della lite poiché la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale.
In particolare, alla luce dell’esito complessivo della vicenda processuale dopo la presente decisione di appello, emerge la prevalente e complessiva soccombenza della Pu., odierna appellata.
Conseguentemente, le spese processuali di entrambi i gradi di giudizio seguono la soccombenza e vanno poste a carico della Pu. s.n.c. in liquidazione, nella misura indicata in dispositivo in applicazione dei criteri stabiliti dal D.M. 10 marzo 2014 n. 55, entrato in vigore il 3 aprile 2014, che all’art. 28 stabilisce che “Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore” e tenuto conto del valore della controversia (da Euro 26.000,01 a Euro 52.000,00).
Secondo lo stesso criterio, anche le spese di consulenza tecnica di ufficio svolta nel corso del primo grado devono essere definitivamente poste a carico della Pu..
P.Q.M.
La Corte di Appello di Catania, definitivamente pronunciando nella causa civile iscritta al n. 1314/2018 R.G.,
in accoglimento dell’appello proposto, con atto notificato in data 6 luglio 2018, dalla Et. S.n.c. avverso la sentenza del Tribunale di Ragusa del 9 gennaio 2018 n. 49,
condanna la Pu. s.n.c. in liquidazione al pagamento in favore della Et. S.n.c. della somma di Euro 32.000,00, oltre interessi come in motivazione.
Condanna la Pu. s.n.c. in liquidazione al pagamento in favore della Et. S.n.c. delle spese processuali, che liquida, quanto al primo grado, in complessivi Euro 7.254,00 per compensi, di cui Euro 1.620,00 per fase di studio della controversia, Euro 1.147,00 per fase introduttiva del giudizio, Euro 1.720,00 per fase istruttoria, ed Euro 2.767,00 per fase decisoria, oltre alle spese forfettarie del 15% ex art. 2 D.M. 10 marzo 2014 n. 55, IVA e CPA come per legge e, quanto al secondo grado, in complessivi Euro 6.615.00 per compensi, di cui Euro 1.960,00 per fase di studio della controversia, Euro 1.350,00 per fase introduttiva del giudizio ed Euro 3.305.00 per fase decisoria, oltre alle spese forfettarie del 15% ex art. 2 D.M. 10 marzo 2014 n. 55, IVA e CPA come per legge.
Pone le spese di consulenza tecnica d’ufficio di primo grado definitivamente a carico della Pu. s.n.c. in liquidazione, come già liquidate in atti.
Così deciso in Catania il 6 febbraio 2020.
Depositata in Cancelleria il 28 febbraio 2020.