Come è noto l’art. 1388 c.c. stabilisce che il contratto concluso dal rappresentante in nome e nell’interesse del rappresentato, nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato. Ora, se è vero che la c.d. contemplatio domini, necessaria perché il contratto concluso dal mandatario produca effetti nei confronti del mandante, non richiede (nel caso in cui l’atto da porre in essere non richieda una forma solenne) l’uso di formule sacramentali, né deve risultare espressamente dal contratto, è altrettanto vero che, perché si realizzi, il rappresentante deve aver reso noto all’altro contraente, in modo esplicito e non equivoco, che egli intende agire, oltre che nell’interesse, anche nel nome di altro soggetto. In sostanza, il comportamento del rappresentante deve risultare, sia, per univocità che per concludenza, idoneo a portare a conoscenza dell’altro contraente la circostanza che egli agisce per un soggetto diverso, nella cui sfera giuridica gli effetti del contratto sono destinati a prodursi direttamente. Dunque, è insufficiente, ai fini di una diretta imputazione degli effetti dell’atto al mandante, la circostanza che l’atto sia stato posto in essere nel suo interesse: è necessario che si sia speso anche il nome del rappresentato.
Corte d’Appello|L’Aquila|Civile|Sentenza|2 aprile 2020| n. 599
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI L’AQUILA
composta dai Signori magistrati:
Dott. Elvira Buzzelli – Presidente
Dott. Giancarlo De Filippis – Consigliere
Dott. Augusta Massima Cucina – Consigliere rel.
riunita in Camera di Consiglio ha emesso la seguente
SENTENZA
nella causa civile in grado d’appello iscritta al n. 639/2015 R.G., posta in deliberazione all’udienza collegiale del 09.07.2019 e vertente
TRA
(…)
titolare della ditta individuale (…) di (…), elettivamente domiciliato in Pescara al Viale (…) presso lo studio dell’Avv. Cl.Pa., rappresentato e difeso dalla medesima in virtù di procura rilasciata a margine dei ricorsi per decreto ingiuntivo;
APPELLANTE
E
(…)
rappresentato e difeso dall’Avv. Ma.In. del Foro di Avezzano giusta procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta in appello, elettivamente domiciliato in L’Aquila, alla Via (…) presso lo studio dell’Avv. Gi.Ma.;
APPELLATO
E
(…)
rappresentata e difesa dall’Avv. Wa.Ci. del Foro di Avezzano giusta procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta in appello, elettivamente domiciliata in L’Aquila, alla Via (…) presso lo studio dell’Avv. Gi.Ma.;
APPELLATA
OGGETTO: Opposizione a decreto ingiuntivo. Appello avverso la sentenza n. 309/2014 del Tribunale di Avezzano del 13.03.2014, depositata in cancelleria in pari data.
RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Con la sentenza n. 309/2014 il Tribunale di Avezzano in composizione monocratica accoglieva le opposizioni proposte da (…) e da (…) avverso i decreti ingiuntivi nn. 76/2009 e 77/2009 emessi entrambi in data 21.09.2009, con i quali era stato loro ingiunto, su istanza di (…), titolare dell’omonima ditta individuale, il pagamento delle somme di Euro 17.585,15 e di Euro 17.585,15, oltre interessi e spese, in forza delle fatture, rispettivamente nn. 22 e 24, nonché 21 e 23, emesse in relazione alla realizzazione e successiva installazione di infissi in alluminio, cancelli in ferro e porte d’ingresso presso alcuni immobili di proprietà dei citati opponenti.
Gli opponenti avevano eccepito la loro carenza di legittimazione passiva non avendo gli stessi mai intrattenuto alcun rapporto con l’opposto, essendo stati i lavori commissionati dal di loro padre (…), legale rappresentante della società di costruzioni (…) s.r.l. che aveva costruito gli immobili siti in Via (…) prova della circostanza dedotta avevano prodotto il contratto stipulato il 20.03.2006 tra (…) ed (…) dal quale si evinceva che il totale dei lavori commissionati dal primo era pari ad Euro 32.000,00.
Di tale importo il (…) aveva ricevuto dal (…) un acconto a mezzo due assegni, uno di Euro 12.500,00 ed uno di Euro 7.600,00. Le fatture pertanto, a dire degli opponenti, erano state emesse nei confronti di (…) e (…) senza che questi avessero fatto alcun ordinativo e solo sul presupposto che gli stessi erano all’epoca proprietari degli immobili su cui erano stati eseguiti i lavori di cui è causa. Per tali motivi avevano invocato la revoca dei decreti ingiuntivi.
L’opposto si era costituito in entrambi i giudizi contestando gli avversi assunti, deducendo di avere, si, contratto con (…), ma a titolo, quest’ultimo, di rappresentante volontario dei figli. Chiedeva il rigetto dell’opposizione e la conferma dei decreti ingiuntivi citati.
I due giudizi di opposizione venivano riuniti in corso di causa. Venivano quindi acquisite le prove documentali, svolto l’interrogatorio formale e sentiti i testimoni.
Il Giudice del Tribunale di Avezzano – qualificate le domande formulate in sede monitoria dall’opposto, attore sostanziale nel giudizio di opposizione, come azioni di adempimento contrattuale – rilevava che il (…), allegando di essere creditore in ragione di un titolo costituito da un contratto d’opera stipulato con le controparti a mezzo di un loro rappresentante volontario, avrebbe dovuto, prima, allegare, poi, provare, tale titolo, il suo contenuto, nonché il relativo diritto e la sua esigibilità.
Quanto all’esigibilità del diritto, il Giudice evidenziava come il (…), pur avendo allegato l’avvenuta esecuzione dei lavori, non aveva allegato l’avvenuta accettazione degli stessi (da cui doveva discendere l’esigibilità del credito).
Né tale circostanza era emersa in sede istruttoria. Quanto all’onere probatorio, il Giudice rilevava come, inoltre, non era stata fornita la prova dal (…) della valida conclusione del sopradetto rapporto (non essendo stata provata la circostanza che (…) fosse procuratore volontario degli opponenti). Né tale circostanza poteva presumersi solo per il fatto che gli opponenti risultavano proprietari degli immobili interessati dai lavori.
Da ciò il primo Giudice faceva discendere la fondatezza delle opposizioni proposte.
Nel proporre appello (…) eccepiva:
a) un vizio di ultrapetizione del Giudice (per avere questi rilevato d’ufficio la carenza del requisito di esigibilità del credito azionato monitoriamente). E comunque il credito – sosteneva l’appellante – doveva ritenersi esigibile avendo il (…) dedotto l’avvenuta regolare esecuzione delle opere commissionategli, allegando le fatture emesse all’esito, regolarmente contabilizzate, rimaste impagate alla scadenza (circostanza documentata dagli addebiti ri.ba. insolute inviate in data 29.09.2008 dalla propria banca e dalla richiesta di pagamento inviata ai committenti con racc.ta A/R del 04.11.2008 rimasta priva di riscontro). D’altro canto, sosteneva ancora, vi era stata un’accettazione tacita dell’opera commissionata, non essendo stata formulata, all’indirizzo del (…), alcuna contestazione della stessa (in termini di completezza o esattezza). Da qui l’esigibilità del corrispettivo;
b) violazione e falsa applicazione degli artt. 1388 e 1392 c.c. in materia di rappresentanza; errata valutazione delle risultanze istruttorie. L’appellante evidenziava come da queste ultime fosse emerso che (…) aveva agito in nome e per conto dei figli (nell’impossibilità di questi ultimi a gestire personalmente le incombenze connesse alla costruzione e rifinitura dell’immobile) e che dunque erano i figli, per l’appunto gli opponenti, a dover adempiere la controprestazione dovuta. Vi erano elementi univoci e concordanti – sosteneva l’appellante – idonei a dimostrare l’esistenza del rapporto rappresentativo, con effetti da riferire direttamente ai rappresentati (la proprietà degli immobili; il rapporto di parentela (padre-figli); la richiesta del (…) padre, al momento delle trattative, di campioni da far visionare ai figli e del relativo prezzo da riferire loro; ecc.). D’altro canto, la mancata immediata contestazione da parte dei fratelli (…) della richiesta di pagamento rivolta ai medesimi con le raccomandate precitate, aveva ingenerato comunque nel (…) la convinzione dell’esistenza della procura e della piena imputabilità delle opere e connessi obblighi di pagamento in seno agli appellati. Concludeva come in epigrafe.
Nel costituirsi in giudizio (…) e (…), rappresentati e difesi ciascuno dal proprio difensore ma a mezzo di comparse pressochè identiche, eccepivano preliminarmente l’inammissibilità e/o improcedibilità dell’appello per il passaggio in giudicato della sentenza, stante:
a) la inesistenza e/o nullità della notifica dell’atto di citazione in appello, notifica eseguita personalmente dal procuratore a mezzo di posta elettronica certificata ma senza l’allegazione della procura;
b) la inesistenza e/o nullità dell’atto di citazione in appello, per difetto dello ius postulandi, come conseguenza della inesistenza della procura.
Nel merito eccepivano l’infondatezza dell’appello, poiché le obbligazioni di cui il (…) chiedeva il pagamento erano state assunte da (…) di sua iniziativa e nessun elemento dedotto in giudizio portava a ritenere, neanche in maniera presuntiva, l’esistenza di un mandato di rappresentanza conferito ad (…) dai propri figli.
Quanto al lamentato vizio di ultrapetizione, gli appellati evidenziavano come non vi fosse stato alcun mutamento di petitum e/o causa petendi da parte del Giudice nel rilevare l’inesigibilità del credito, avendo parte attrice (in senso sostanziale) comunque un onere probatorio indipendentemente dalla presa di posizione del convenuto.
D’altro canto nel giudizio di opposizione le fatture non integrano di per sé la piena prova del credito in esse indicato. Nel caso di specie, sostenevano gli appellati, le predette fatture non provavano, e neanche indicavano, quali infissi fossero stati montati nell’appartamento dell’uno e dell’altro degli appellati. Avendo un credito nei confronti di (…) di Euro 35.170,30, il (…) – sostenevano gli appellati – aveva emesso generiche fatture (contestate comunque dai due fratelli in un tempo breve), chiedendo ad ognuno precisamente la metà (Euro 17.585,15). Concludevano come in epigrafe invocando il rigetto dell’appello con la conferma totale della sentenza impugnata.
Preliminarmente la Corte è chiamata a pronunciarsi in relazione all’eccezione di inammissibilità e/o improcedibilità dell’appello per passaggio in giudicato della sentenza impugnata. Gli appellati censurano nello specifico la nullità della notifica dell’atto di appello eseguita personalmente a mezzo PEC dal procuratore del (…) in assenza di procura.
L’eccezione è infondata. Come è noto, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 83 c.p.c., la procura speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, quando nell’atto non è espressa volontà diversa. Se dunque nell’atto la parte abbia conferito ‘espressamente’ al difensore la rappresentanza ‘per ogni stato e grado del giudizio’, la procura deve ritenersi pienamente valida anche nei gradi successivi a quello in cui essa sia stata rilasciata.
Detto ciò, (…) ha rilasciato nella fase monitoria all’Avv. Claudia Palmieri la procura speciale ad assisterlo e difenderlo, “in ogni fase e grado del presente giudizio”: tale procura risulta apposta a margine dei ricorsi per decreto ingiuntivo depositati in data 16.01.2009 presso la cancelleria del Tribunale di Avezzano (come si evince chiaramente dai fascicoli, in atti, del monitorio e dei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo (poi riuniti)), ed è pienamente valida, ex art. 83 c.p.c., anche nel presente grado.
Occorre a questo punto verificare se il procuratore del (…), nel notificare l’atto di citazione in appello a (…) ed a (…) personalmente a mezzo PEC, abbia assolto alle formalità di legge, se cioè abbia allegato, o semplicemente richiamato in notifica, il precedente conferimento della procura (procura, che, per l’appunto, è requisito e presupposto dal quale non è possibile prescindere ai sensi e per gli effetti dell’art. 1 della L. n. 53 del 1994).
La Corte ritiene, aderendo all’orientamento giurisprudenziale dominante, che non vi sia un obbligo normativamente espresso di allegare nuovamente quest’ultima, purchè però essa sia stata indicata nella relata di notifica: circostanza quest’ultima esattamente verificatasi nel caso di specie.
Con riferimento al primo motivo di appello, la Corte ritiene che la rilevata inesigibilità del credito da parte del Giudice di primo grado non concretizzi un vizio di ultrapetizione, e dunque una violazione dell’art. 112 c.p.c.. (…) ha avanzato con il ricorso per decreto ingiuntivo una domanda di adempimento contrattuale, e pur essendo convenuto nel giudizio di opposizione, ha evidentemente assunto in sé, in tale giudizio, il ruolo di attore in senso sostanziale, con le conseguenze da ciò derivanti in termini di onere probatorio.
In altri termini, il (…), per ottenere, attraverso la produzione di fatture, la controprestazione richiesta, aveva l’onere di provare, non solo, nella fase monitoria, ma anche dopo, nel giudizio di opposizione (indipendentemente da ogni eventuale eccezione astrattamente sollevabile dalla controparte, che peraltro, nel caso di specie, si riteneva carente di legittimazione passiva), l’esigibilità del proprio diritto, dunque, nel caso di specie, l’avvenuta accettazione dell’opera (si veda Cass. Civ. nn. 24046/2006 e 21111/2013; si veda altresì Cass. Civ. n. 21599/2010 con cui viene statuito che in tema di appalto, il diritto dell’appaltatore al corrispettivo sorge con l’accettazione dell’opera da parte del committente (art. 1665, ultimo comma, c.c.) e non già al momento stesso della stipulazione del contratto).
Per tale ragione la statuizione sul punto, censurata nei termini anzidetti e comunque sulla base di argomentazioni non condivisibili (non potendo dirsi dirimente l’invocata accettazione ‘tacita’ dell’opera da parte di soggetti che non risultano avere mai intrattenuto rapporti con la ditta di (…); e non potendo avere significato univoco di accettazione del lavoro, la mancata contestazione delle fatture una volta comunque inviate) non può essere oggetto di censura ed il primo motivo d’appello deve essere rigettato.
Quanto al secondo motivo di appello, la Corte rileva come non vi sia stata alcuna violazione degli artt. 1388 e 1392 c.c..
Come è noto l’art. 1388 c.c. stabilisce che il contratto concluso dal rappresentante in nome e nell’interesse del rappresentato, nei limiti delle facoltà conferitegli, produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato.
Ora, se è vero che la c.d. contemplatio domini, necessaria perché il contratto concluso dal mandatario produca effetti nei confronti del mandante, non richiede (nel caso in cui l’atto da porre in essere non richieda una forma solenne) l’uso di formule sacramentali, né deve risultare espressamente dal contratto, è altrettanto vero che, perché si realizzi, il rappresentante deve aver reso noto all’altro contraente, in modo esplicito e non equivoco, che egli intende agire, oltre che nell’interesse, anche nel nome di altro soggetto.
In sostanza, il comportamento del rappresentante deve risultare, sia, per univocità che per concludenza, idoneo a portare a conoscenza dell’altro contraente la circostanza che egli agisce per un soggetto diverso, nella cui sfera giuridica gli effetti del contratto sono destinati a prodursi direttamente (si veda Cass. Civ. Ordinanza n. 22616/2019, nonché Sentenza n. 7510/2011).
Dunque, è insufficiente, ai fini di una diretta imputazione degli effetti dell’atto al mandante, la circostanza che l’atto sia stato posto in essere nel suo interesse: è necessario che si sia speso anche il nome del rappresentato.
Nel caso di specie non emerge che (…) abbia agito in nome e per conto dei figli.
Dall’istruttoria sono emersi alcuni dati pacifici.
Il contratto per la realizzazione ed installazione degli infissi in alluminio, di cancelli in ferro e di porte d’ingresso presso alcuni immobili di proprietà degli opponenti, odierni appellati, risalente al 20.03.2006 è intercorso tra (…) e (…); il versamento al (…) di due assegni in acconto dei lavori (l’uno per l’importo di Euro 12.5000,00 con scadenza al 15.07.2006 restituito per problemi di copertura, e l’altro per l’importo di Euro 7.600,00 con scadenza al 31.07.2006, protestato in agosto), è riconducibile ad (…);
la modifica dei termini contrattuali (stante la rappresentazione di problemi di copertura bancaria), circostanza pacifica, è anch’essa intercorsa, in data 06.02.2007, tra (…) ed (…) (in forza di tale modifica il pagamento delle opere eseguite sarebbe avvenuta in un’unica soluzione, a mezzo ricevute bancarie, una volta ultimati i lavori).
E’ pacifico dunque che il rapporto de quo è intercorso tra (…) ed (…).
Poiché è evidente che soltanto le prove orali avrebbero potuto condurre il Giudice di primo grado, prima, e la Corte d’Appello, in questa sede, a convincersi dell’esistenza nel caso di specie di una contemplatio domini, occorre evidenziare come non siano emersi dall’esame dell’interrogatorio formale e delle prove testi elementi univoci in tal senso.
Nell’interrogatorio formale (…) ha confermato le circostanze fattuali che lo hanno visto rapportarsi solo ed esclusivamente con (…).
Quanto all’esistenza della c.d. contemplatio domini, nel corso dell’espletamento delle prove testimoniali, (…), figlio dell’opposto, si è espresso in termini di “non ricordo le testuali parole”, aggiungendo “non ho visto delega scritta e sottoscritta dai Sigg.ri (…) e (…)…”; A.I., ex dipendente della ditta (…), ha dichiarato “Io non conosco i figli però conosco (…) il quale nell’occasione disse di commissionare il lavoro per il palazzo in Via M. C. di A.. Lui commissionava il lavoro per i figli, di cui non conosco il nome”.
D’altro canto B.A. si è espresso nei seguenti termini “..il Sig. A. mi disse che doveva recarsi a Collarmele per commissionare la fornitura di infissi per gli appartamenti. Nello specifico però, non ricordo la data esatta e non ero presente in occasione dell’incontro a dire dell’A. che ci sarebbe stato”.
Ed ancora: “Preciso che A. si confidava con me e in quell’occasione mi disse che aveva commissionato i lavori di cui mi si chiede però non mi disse per conto di chi”…”l’A. si interessava alle vicende del cantiere perché i figli si trovavano a Roma e non potevano seguire personalmente i lavori”.
Alla luce delle risultanze istruttorie non può accordarsi valenza alle argomentazioni dell’opposto tese ad ottenere il rigetto dell’opposizione, incontrando la tesi della invocata ‘contemplatio domini’ un limite insuperabile nella non univocità e non concludenza del comportamento di (…) (poi deceduto).
In conclusione non vi è prova, fosse anche presuntiva, che il (…) padre abbia inteso contrarre con il (…), oltre che nell’interesse, anche nel nome degli opponenti (…) e (…), che pertanto non possono essere ritenuti obbligati al pagamento degli importi invocati dal (…) (importi peraltro esattamente identici tra di loro, ma non direttamente ricollegabili alle singole realizzazioni ed installazioni eseguite sui singoli immobili; immobili, non in comproprietà dei fratelli, ma ciascuno di proprietà esclusiva, all’epoca dei fatti, degli opponenti).
D’altro canto non vi è prova che il (…) sia stato indotto in buona fede a contrarre nella convinzione dell’esistenza di una contemplatio domini (tra l’altro proprio il rapporto genitore-figli avrebbe dovuto mettere il (…) sull’avviso, in presenza di eventuali dubbi sulla rappresentanza, di una iniziativa a titolo personale del (…) padre in favore (dunque solo nell’interesse) dei figli).
L’appello deve pertanto essere rigettato.
Le spese del secondo grado di giudizio seguono la soccombenza, e si liquidano come da dispositivo, tenuto conto dell’assenza di attività istruttoria ed in ragione dell’identità della difesa seppure resa da diversi procuratori.
Ai sensi dell’art. 1 comma 17 della L. n. 228 del 2012, che ha modificato l’art. 13 del D.P.R. n. 115 del 2002 con l’inserimento del comma 1 quater (in base al quale, se l’impugnazione principale o incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per la stessa impugnazione a norma del comma 1 bis) è altresì dovuto da parte appellante il versamento di tale ulteriore somma.
P.Q.M.
la Corte di Appello di L’Aquila, sezione civile, definitivamente pronunciando:
1) rigetta l’appello;
2) condanna (…) al pagamento in favore di (…) e di (…) delle spese di lite del giudizio di appello liquidate in Euro 3.308,00 per ciascuno, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA;
3) dichiara che l’appellante è tenuto al versamento di un ulteriore importo pari a quello già dovuto a titolo di contributo unificato.
Così deciso in L’Aquila il 25 febbraio 2020.
Depositata in Cancelleria il 22 aprile 2020.