Sussiste responsabilità professionale medica per mancata acquisizione da parte di una paziente dell’esistenza e della gravità delle lesioni riscontrate sul feto quando detta cognizione avrebbe potuto comportare la scelta di interrompere la gravidanza. In sostanza la lesione del diritto alla procreazione cosciente è collegata ad una diagnosi erronea od omessa del medico, ovvero ad un adempimento della prestazione professionale posto in essere in modo negligente. Ciò significa che il danno può ritenersi configurabile solo nel caso in cui la violazione della libertà della paziente di autodeterminarsi liberamente, scegliendo i trattamenti più opportuni da effettuare, costituisca la conseguenza, in rapporto diretto di causa ed effetto, dell’errore od omissione diagnostica.

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Corte d’Appello|Bari|Sezione 3|Civile|Sentenza|7 luglio 2022| n. 1152

Data udienza 25 maggio 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE D’APPELLO DI BARI

Terza Sezione Civile

Terza Sezione Civile, composta dai seguenti Magistrati:

1) Dr. Michele V. ANCONA – Presidente

2) Dr. Vittorio GAETA – Consigliere

3) Dr. Paola BARRACCHIA – Consigliere relatore

ha emesso la seguente

SENTENZA

nella causa civile in grado di appello iscritta al n. R.G. 1516/2017, avverso la sentenza n. 3875/2016 emessa in data 12/07/2016 dal Tribunale di Bari nel procedimento RG n. 11144/2008 in composizione monocratica,

tra

(…) (C.F.: (…)) e (…) (C.F.: (…)), rappresentati e difesi dall’Avv. Ni.Pu. in virtù di mandato a margine dell’atto di citazione in appello, presso il cui studio elettivamente domiciliano in Bari (BA) alla Piazza (…)

Appellanti

e

(…) (C.F.: (…)), rappresentato e difeso dall’Avv. Em.Ca., in virtù di procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta in appello, presso il cui studio elettivamente domicilia in Bari al Largo (…)

Appellato

e

(…) (C.F.: (…)), rappresentata e difesa dall’Avv. Ca.Po., in virtù di procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta in appello, presso il cui studio elettivamente domicilia in Putignano al Viale (…)

Appellata

OGGETTO: responsabilità professionale medica

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Con atto di citazione del 15/09/2008, notificato in data 23 e 30/09/2008, i coniugi (…) e (…) citavano in giudizio innanzi il Tribunale di Bari i medici dott.ri (…) e (…), rispettivamente nelle qualità di Ginecologo di fiducia della Sig.ra (…) e Dottoressa specializzata in monitoraggio biochimico e biofisico del feto con diploma nazionale in ecografia, per accertare e dichiarare la loro responsabilità contrattuale ed extracontrattuale per i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dalla coppia in conseguenza della asserita imprudenza, imperizia e negligenza nello svolgimento della loro professione medica.

Esponevano che nel novembre 2005 la sig.ra (…), coniugata con il sig. (…), apprese di essere in stato interessante. Per tale ragione fissò un appuntamento con il dott. (…), suo ginecologo di fiducia che l’aveva seguita già durante la prima gravidanza. Il primo incontro per visite mediche avvenne il 30/11/2005, tra la quarta e la quinta settimana di gravidanza, in occasione del quale l’attrice venne sottoposta a visita ginecologica e pap test, cui seguirono altre visite ripetute con cadenza mensile, durante le quali la (…) veniva sottoposta a sei ecografie ostetriche e le venivano prescritti esami del sangue per verificare il regolare decorso della gravidanza nonché la buona salute del feto. Il dott. (…) non effettuava alcuna ricostruzione anamnestica per valutare i fattori di rischio del nascituro e della gravidanza, né venivano illustrate ai coniugi (…) apposite indagini prenatali volte a verificare lo stato di salute effettivo del nascituro. Non veniva neppure prescritta alla attrice l’ecografia cd. “morfologica”, volta ad accertare la corretta conformazione degli organi del feto, tanto che la Sig.ra (…) si sottoponeva spontaneamente a ecografia morfologica presso il (…) esame effettuato dalla convenuta Dott.ssa (…), la quale non rilevava alcuna anomalia o patologia del feto.

Il convenuto dott. (…) prescrisse alla attrice (…) cinque tracciati cardiotografici, di cui il primo, effettuato il 12/07/2006, risultò regolare, mentre già dal secondo, effettuato il 14/07/2006, emersero problematiche per le quali fu consigliato alla (…) un ricovero urgente. Nella stessa mattinata, infatti, l’attrice si ricoverò per accertamenti.

Prima del parto la attrice veniva sottoposta a diversi tracciati e ad un’ultima ecografia il 17/07/2006, dopo i quali la stessa veniva rassicurata sul decorso regolare della gravidanza, senonché con riferimento alla stessa ecografia del 17/07/2006, emergeva che il feto presentava un ritardo intrauterino di circa tre settimane.

Il 19/07/2006, presso il reparto di neonatologia del Policlinico di Bari, nasceva con taglio cesareo la piccola (…). All’atto della nascita gli attori venivano informati dai sanitari del Policlinico che la loro figlia era affetta da una grave patologia al cuore che richiedeva un intervento urgente. Pertanto la piccola (…), accompagnata dalla mamma signora (…), veniva trasportata all'(…) di N. e sottoposta a visita del primario Prof. (…), che riscontrò anche la presenza della sindrome di Down. La grave patologia della piccola fu dunque per la prima volta diagnosticata a Napoli, successivamente alla nascita e ciò provocò, un ulteriore shock per i coniugi (…). La bambina fu così sottoposta a due delicati interventi chirurgici al cuore ma, per intervenute complicanze cliniche, dopo undici giorni dal secondo intervento, spirò per arresto cardiaco irreversibile il 21/10/2006.

Tali accadimenti comportarono, e continuano a comportare, enormi sofferenze per gli odierni appellanti.

Tutto ciò premesso e considerato, i coniugi (…) chiedevano all’On.le Tribunale di Bari accogliersi le seguenti conclusioni: “a) accertare e dichiarare la responsabilità e l’inadempimento contrattuale posto in essere da ambedue i convenuti nei confronti degli attori; b) e per l’effetto condannare alla corresponsione in favore degli attori della somma di Euro 1.030,00 il Dott. (…), e la somma di Euro 50,00 la Dott.ssa (…), a titolo di somme versate ai medici come corrispettivo delle prestazioni male eseguite; c) condannare altresì i convenuti in solido al risarcimento dei conseguenti danni non patrimoniali patiti e così specificati: a ciascun attore andrà riconosciuta la somma di Euro 80.000,00 a titolo di danno morale soggettivo; Euro 80.000,00 a titolo di danno esistenziale per quanto detto nel presente atto; alla Sig.ra (…) andrà riconosciuto, altresì, il diritto al risarcimento del danno biologico permanente quantificato in Euro 15.805,00, o in misura maggiore o minore come sarà accertato in corso di causa a mezzo di espletanda CTU medico-legale, il tutto oltre interessi e rivalutazione monetaria; d) con vittoria di spese, competenze ed onorari di lite.”

1.1 Si costituiva in giudizio il Dott. (…) con comparsa di costituzione e risposta depositata in Cancelleria il 22/12/2008, con la quale impugnava e contestava ogni deduzione e allegazione di parte attrice. In particolare, eccepiva l’assenza di profili di colpa medica nonché l’inconfigurabilità del nesso causale tra l’omissione diagnostica a lui imputata e la lesione del diritto all’autodeterminazione alla procreazione della Sig.ra L..

1.2 Si costituiva in giudizio anche la Dott.ssa (…) con comparsa di costituzione e risposta e domanda riconvenzionale depositata in cancelleria il 24/12/2008, eccependo l’insussistenza di inadempimenti contrattuali a sé imputabili, atteso che l’oggetto della sua prestazione si era limitato ad una sola ecografia nel corso dell’intero periodo di gestazione, nonché la mancanza di qualunque rapporto di causalità tra la propria condotta e la morte della neonata. La convenuta chiedeva, pertanto, in via principale il rigetto della domanda di parte attrice e in via riconvenzionale la condanna degli attori al risarcimento dei danni da lesione della reputazione e dell’immagine professionale quantificabili in Euro 100.000,00, con vittoria di spese e competenze legali.

1.3 La causa veniva istruita con l’espletamento della prova orale (interrogatorio formale della sig.ra (…), del dott. (…) e della dott.ssa (…), nonché prova per testi con i Sigg.ri (…), (…), (…) e (…)), acquisizione della perizia redatta dai dottori (…) e (…) resa su richiesta della Procura della Repubblica di Bari nel procedimento penale n.5861/07, oltre che con due CTU a firma della dott.ssa (…) (del 21/09/2010 e successivi chiarimenti del 06/10/2010) e del dott. (…) (del 06/10/2011).

Precisate le conclusioni e depositati gli atti, il Tribunale di Bari, con sentenza n. 3875/2016, pubblicata il 12/07/2016, mai notificata, così si provvedeva: “a) Rigetta la domanda principale degli attori; b) rigetta la domanda riconvenzionale della convenuta D.; c) compensa integralmente le spese processuali tra le parti, escluse quelle di CTU, che pone definitivamente a carico degli attori, così come liquidate con i decreti del 03/01/2011 e del 02/02/2012”.

1.4 L’iter argomentativo della motivazione della sentenza di primo grado può così sintetizzarsi:

a) nelle cause di danno basate sulla responsabilità del medico, l’obbligazione assunta dal medico nei confronti del paziente ha natura contrattuale sicchè incombe sul debitore provare che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione da causa a lui non imputabile: spetta cioè al medico provare l’inesistenza del nesso causale e non al paziente l’esistenza dello stesso;

b) risulta incontroverso 1) l’assistenza del dott. (…) della gestante per l’intera gravidanza, 2) l’esecuzione di un unico esame morfologico da parte della dott.ssa (…) 3) il danno psichico derivato alla (…) dalla morte della piccola (…) (il CTU dott. (…), ha rilevato a carico della (…) una sindrome mista ansioso-depressiva con conseguente danno biologico permanente al 10% della totale che si manifesta in frequenti attacchi di panico e depressione).

c) dalla CTU redatta dalla dott. (…) risulta che:

a carico del dott. (…) non sono imputabili condotte negligenti. Afferma il CTU: “la condotta del ginecologo dott. (…) che ebbe in cura la paziente per il decorso della gravidanza risulta corretta” sotto il profilo medico. Per quanto riguarda la verifica dell’operato del dott. (…) in merito alle ecografie eseguite mensilmente, il CTU afferma “che non sussistono elementi per la valutazione di tali ecografie. Si deduce però che questi siano esami di primo livello effettuati durante le visite ostetriche di controllo della paziente e che non specificatamente mirano allo studio dei diversi apparati e organi fetali”.

Pertanto, conclude il giudice di prime cure, “la scelta medica del dott. (…) di non fare effettuare alla gestante ulteriori esami diagnostici, siccome né imposti dalle condizioni di salute né suggeriti dai protocolli medici per quel caso specifico, non sia censurabile quale violazione dell’obbligo di diligenza professionale”.

Ciò nondimeno può ascriversi a carico del dott. (…) una violazione del dovere informativo, che è autonomo e indipendente dalla valutazione della diligente esecuzione della prestazione professionale, non avendo il medico dato la prova di aver informato la (…) circa i possibili accertamenti diagnostici utili o necessari in una determinata situazione e circa i rischi e i vantaggi a ciascuno connessi, ledendo così il diritto della paziente all’auto determinazione libera e consapevole.

A carico della dott. (…) viene addebitato quale inadempimento, l’errata esecuzione e valutazione dell’esame ecografico definito ” morfologico” compiuto sulla gestante in data 6.04.2006 e precisamente alla 22 settimana +5 giorni di gestazione.

Afferma il giudice di prime cure che, ribadito che la dott. (…) non ebbe in osservazione la (…) ab initio, ma la visitò per la prima volta il 6.04.2006, quando la gestante si rivolse a lei spontaneamente, spinta da terze persone ( come risulta dalle testimonianze), sotto il profilo della valutazione dell’esame in oggetto, si deve tener conto delle conclusioni cui è pervenuto il consulente di parte dott. (…) che nelle controdeduzioni al CTU, “con precisione, esaustività e scientificità” ha indicato chiaramente come entrambe le malformazioni cardiache che affliggevano la piccola (…) alla nascita erano all’epoca dei fatti (e sono tuttora) malformazioni di ardua diagnosi prenatale. Se tanto è certo – continua il giudice di prime cure – la dott.ssa (…), per andare esente da colpa, avrebbe dovuto provare di aver eseguito l’esame ecografico secondo perizia non potendo costituire circostanza esimente il fatto che le malformazioni cardiache non fossero con certezza esistenti al momento dell’esame morfologico o comunque non fossero certamente visibili, non potendosi per ciò stesso escludere il contrario.

Senonchè tale prova non è stata fornita, poiché la CTU dott. (…) sul punto conclude: “l’esecuzione di un corretto esame ecocardiografico presuppone una registrazione iconografica delle suddette malformazioni” e “la valutazione delle immagini iconografiche, da parte del CTU non risulta possibile perche le immagini presenti agli atti risultano fotocopiate, quindi non originali, con una chiarezza e qualità delle stesse molto scarsa”

Evidenzia infine il giudice di prime cure che la dott. (…) prudentemente prescrisse alla gestante, al termine della propria valutazione del caso, un ulteriore esame ecografico a distanza di 30 giorni: “prescrizione che, pacificamente, rimase disattesa per immotivata scelta della stessa paziente, la quale può dirsi che, così agendo, concorse, col proprio fatto colposo a cagionare il danno ( art.1227 c.c.)”

d) sotto il profilo del nesso causale, osserva il giudice di prime cure, pur essendo configurabile un difetto di diligenza a carico dei medici convenuti ( punto c) non si rileva l’occorrente nesso eziologico tra la condotta omissiva dei medici e il danno psichico della (…) lamentato e accertato dal CTU dott. (…).

Afferma il Tribunale, attingendo dalle regole di interpretazione elaborate dalla giurisprudenza in casi simili, che “per stabilire se i danni lamentati siano conseguenza dell’inadempimento al dovere della completa informazione gravante sul medico nei confronti della gestante e del padre del concepito, è necessario che il giudice di merito accerti, con un giudizio di prognosi postuma, se la conoscenza delle rilevanti anomalie e malformazioni del feto avrebbero generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la salute della madre, avuto riguardo alle condizioni concrete fisiopsichiche della stessa e in base alla regola causale del “più probabile che non” in modo tale da attuare, mediante l’interruzione della gravidanza, la tutela di quell’interesse del genitore ritenuto dall’ordinamento prevalente su quello della nascita del concepito gravemente malformato ( cfr. Cass. n.2354/2010)” . Applicando tali regole alla fattispecie in esame- prosegue il Tribunale – occorre valutare se la (…) – qualora fosse stata sottoposta alle ulteriori indagini diagnostiche di cui lamenta l’omessa prescrizione ad opera del dott. (…), o qualora fosse venuta a conoscenza delle malformazioni cardiache della piccola (…) a seguito della ecografia morfologica effettuata dalla dott. (…) di cui lamenta l’errata valutazione – avrebbe effettivamente voluto e potuto interrompere la gravidanza, dovendosi il secondo aspetto valutare alla luce di ciò che sarebbe stato consentito dalla L. 22 maggio 1978, n. 194 ( legge sulla interruzione volontaria di gravidanza)

e) in base all’art.6 della suddetta legge, l’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”

Sotto il profilo dell’onere probatorio dei predetti presupposti di legge ( è il tema del risarcimento dei danni richiesto da nascita indesiderata) occorre dare la prova non solo del grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre, dipendente da rilevanti malformazioni del nascituro, ma anche della effettiva volontà della donna di non portare a termine la gravidanza, in presenza delle specifiche condizioni facoltizzanti . E la Suprema Corte (cfr. Cass. Sez. Unite n.25767/2015) afferma che la madre è onerata dalla prova controfattuale della volontà abortiva, ma può assolvere l’onere mediante presunzioni semplici. E, nel caso di specie, tale prova, secondo il giudice di prime cure, è del tutto assente poiché la (…) si è limitata ad affermare che qualora avesse avuto cognizione dell’esistenza e della gravità delle lesioni riscontrate sul feto, avrebbe con ogni probabilità scelto di interrompere la gravidanza

Infine il giudice di prime cure conclude facendo osservare che, sulla base di quanto affermato dalle Sezioni Unite innanzi citate , la richiesta di accertamenti diagnostici non costituisce prova dell’intenzione di abortiva, essendo diverse le ragioni che possono spingere la donna ad esigerli, e il medico a prescriverli, a partire dalla elementare volontà di gestire al meglio la gravidanza, pilotandola verso un parto che, per le condizioni, i tempi e il tipo, sia il più consono alla nascita di quel figlio, quand’anche malformato.

Conclude il Tribunale nel senso che la domanda di risarcimento dei danni formulata dagli attori va rigettata in quanto priva di fondamento nell’an, in particolare sotto il profilo del difetto del nesso causale

2. Con atto di citazione in appello tempestivamente notificato, i coniugi (…) hanno proposto appello avverso la predetta sentenza insistendo affinché la Corte di Appello adita, accolga le seguenti conclusioni: “1) accertare e dichiarare la responsabilità e l’inadempimento contrattuale posto in essere da ambedue i convenuti nei confronti degli attori; 2) e per l’effetto condannare alla corresponsione in favore degli attori della somma di Euro 1.030,00 il Dott. (…), e la somma di Euro 50,00 la Dott.ssa (…), a titolo di somme versate ai medici come corrispettivo delle prestazioni male eseguite; 3) condannare altresì i convenuti in solido al risarcimento dei conseguenti danni non patrimoniali patiti e così specificati: a ciascun attore andrà riconosciuta la somma di Euro 80.000,00 a titolo di danno morale soggettivo; Euro 80.000,00 a titolo di danno esistenziale per quanto detto nel presente atto; alla Sig.ra (…) andrà riconosciuto, altresì, il diritto al risarcimento del danno biologico permanente quantificato in Euro 15.805,00, o in misura maggiore o minore come sarà accertato in corso di causa a mezzo di espletanda CTU medico-legale, il tutto oltre interessi e rivalutazione monetaria; 4) con rivalsa nei confronti dei convenuti, Dott. (…) e Dott.ssa (…), delle spese di CTU così come liquidate a carico degli appellanti con i decreti del 03/01/2011 e del 02/02/2012; 5) con vittoria di spese, competenze ed onorari, con distrazione in favore del procuratore costituito antistatario”.

2.1 Con comparsa di costituzione e risposta depositata in Cancelleria il 22/12/2017 si è costituito il dott. (…) il quale ha chiesto disporsi l’integrale rigetto dell’appello con contestuale conferma della sentenza di primo grado e vittoria di spese e competenze del secondo grado di giudizio con il favore della distrazione.

2.2 Con comparsa di costituzione e risposta del 18/12/2017, depositata telematicamente, si è costituita la dott.ssa (…), la quale ha chiesto disporsi l’integrale rigetto dell’appello così come proposto dai coniugi (…) con contestuale conferma della sentenza di primo grado con vittoria di spese e competenze del secondo grado di giudizio con il favore della distrazione.

2.3 All’udienza del 24/11/2021 il Collegio, con decreto depositato il 25.11.2021 ha riservato la causa per la decisione assegnando i termini di legge per le difese finali. Le parti hanno precisato le conclusioni con comparse conclusionali e memorie di replica depositate telematicamente.

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Con il primo motivo gli appellanti deducono l’erronea motivazione della sentenza sull’asserito concorso di colpa dell’appellante Sig.ra L..

Sostengono che l’applicazione implicita dell’art. 41, II co. c.p., che è stata fatta nella sentenza impugnata è erronea in quanto nel caso di specie, siccome accertato in sentenza in capo al dott. (…) ed alla dott.ssa (…), la condizione in cui versava la (…) si connotava -fino al momento della diagnosi della grave cardiopatia-come situazione che metteva la stessa attrice in una condizione di affidamento circa la regolarità della gravidanza (circostanza che si rafforzò ulteriormente a seguito dell’espletamento della detta “ecografia morfologica” e per effetto del risultato positivo -per come comunicatole dalla Dott.ssa D.” del suddetto esame). L’inadempimento imputabile al dott. (…) ed alla dott.ssa (…) non è di per sé divenuto privo di efficacia causale solo perché la Sig.ra (…) non ha effettuato l’ulteriore esame prescrittole, atteso che proprio l’imperizia dei due medici ha condizionato la scelta di non effettuare altro esame.

Pertanto attribuire al comportamento posto in essere dalla (…) di non effettuare l’ulteriore esame prescrittole un’efficacia causale sopravvenuta concorrente e/o esclusiva, non appare corretta, considerato che la (…) confidava nella diagnosi e parere espresso a seguito della prima ecografia morfologica da parte della Dott.ssa D.. Inoltre la cattiva esecuzione della prestazione da parte del Dott. (…) e della Dott.ssa (…) ha in ogni caso precluso alla Sig.ra (…) la possibilità di conoscere lo stato del feto fin dal momento in cui l’attrice si rivolse ai due professionisti. Su tale preclusione la successiva non esecuzione dell’ulteriore esame prescrittole non ha potuto dispiegare alcuna efficacia causale esclusiva e/o concorrente sopravvenuta per l’assorbente ragione che la perdita di chance di conoscere lo stato di gravidanza e, quindi, di abituarsi alla condizione del nascituro fin da quel momento, si era ormai definitivamente verificata

Con il secondo motivo contestano l’omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. Affermano gli appellanti che il Giudice di primo grado ha limitato il proprio giudizio unicamente al danno derivante dalla lesione alla libera autodeterminazione della scelta abortiva, non pronunciandosi sulla domanda circa il riconoscimento del danno non patrimoniale (nella fattispecie danno biologico permanente accertato alla (…) per il 10% della totale che si quantifica in Euro 15.805,00, oltre al chiesto riconoscimento del danno morale ed esistenziale patito da ciascun coniuge). Sostengono che la violazione del diritto al consenso informato in capo ad una donna in gravidanza non incide solo sulla autodeterminazione delle scelte abortive, ma può avere altre conseguenze in quanto la madre, se adeguatamente informata, potrebbe ugualmente scegliere di non abortire, ma avrebbe la possibilità di prepararsi psicologicamente ed anche materialmente alla nascita di un bambino con possibili problemi, che potrebbe necessitare di un particolare accudimento, di una elaborazione del fatto da parte dei genitori, della accettazione e della predisposizione di una diversa organizzazione di vita. Inoltre, la tempestiva informazione sulla possibilità di alterazioni fisiche o psichiche del nato in molti casi consente di programmare interventi chirurgici o cure tempestive, farmacologiche o riabilitative: interventi tutti che possono consentire, a seconda dei casi, ai genitori di attivarsi immediatamente con la collaborazione dei medici per meglio affrontare le conseguenze derivanti dalla menomazione del bambino (Cfr. Cass. n. 5004/2017). Il danno causato alla sfera psichica della Sig.ra (…) è stato altresì accertato con consulenza tecnica d’ufficio del Dott. (…) nella misura del 10% permanente – e quantificato in Euro 15.805,00- quale complicanza scatenata dall’evento luttuoso ben descritto nella relazione tecnica di ufficio della Prof.ssa (…) e con le modalità evidenziate dal Prof. (…) (Cfr. pag. 19-21 dell’appello).

Con il terzo motivo si dolgono della erronea motivazione nella parte in cui il Giudicante ritiene non raggiunta la prova sulla volontà della gestante di interrompere la gravidanza nell’eventualità in cui fosse stata debitamente informata delle patologie del feto.

Sostengono gli appellanti, nel riportarsi alla sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 5004/2017 e n. 25767/2015, che in un giudizio di risarcimento del danno per violazione del diritto alla libera autodeterminazione della gestante, connessa alla possibile presenza di gravi problemi del nascituro tali da destabilizzare la salute fisiopsichica della madre, l’accertamento della possibilità del verificarsi di tale malformazione va fatto con valutazione ex ante, ovvero sulla base delle informazioni delle quali avrebbe potuto disporre la madre prima della nascita, al momento di scegliere se interrompere o meno la gravidanza, e non con valutazione ex post, sulla base della situazione concreta del nato, come erroneamente indicato dal giudice di prime cure. E che nel caso in esame il Tribunale ha ritenuto erroneamente che l’onere della prova di tutti i presupposti della fattispecie di cui all’art.6 ricadesse sulla gestante.

Affermano gli appellanti:

“Nel caso in esame un aspetto particolarmente delicato è costituito dalla circostanza che la prova di non portare a termine la gravidanza verte anche su un elemento psichico: e cioè, su uno stato psicologico, un’intenzione, un atteggiamento volitivo della donna, che la legge considera rilevanti. L’ovvio problema che ne scaturisce è che del fatto psichico non si può fornire rappresentazione immediata e diretta; sicché non si può dire che esso sia oggetto di prova in senso stretto. In tal caso, l’onere probatorio – senza dubbio gravoso o meglio “diabolico”, vertendo su un’ipotesi, e non su un fatto storico – può essere assolto solo tramite dimostrazione di altre circostanze, dalle quali si possa ragionevolmente risalire all’esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare, prova di tutti i presupposti della fattispecie di cui all’art. 6 ricadesse sulla gestante: inclusa, quindi, la prova che ella avrebbe positivamente esercitato la scelta abortiva; ciò implica un impervio accertamento induttivo anche delle convinzioni di ordine umano, etico ed eventualmente religioso, oltre che delle condizioni di salute psico-fisica esistenti all’epoca, che avrebbero concorso a determinare l’incoercibile decisone di interrompere, o no, la gravidanza (Cass., Sez. Unite, n. 25767/2015).

Orbene, deve trovare applicazione la disciplina delle presunzioni hominis, rispondente ai requisito di cui all’art. 2729 c.c., che consiste nell’inferenza del fatto ignoto da un fatto noto, sulla base non solo di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo l’id quod plerumque accidit – che peraltro il giudice civile non potrebbe accertare d’ufficio, se non rientrino nella sfera del notorio (art. 115 c.p.c., comma 2), ma anche di circostanza contingenti, eventualmente anche atipiche – emergenti dai dati istruttori raccolti: quali ad esempio, il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro, le precarie concisioni psico-fisiche della gestante, eventualmente verificabili tramite consulenza tecnica d’ufficio, pregresse manifestazioni di pensiero, in ipotesi, sintomatiche di una propensione all’opzione abortiva in caso di grave malformazione del feto, ecc (cfr. Cass., Sez. Unite, n. 25767/2015).

In questa direzione il tema di indagine principale diventa quello delle inferenze che dagli elementi di prova possono essere tratte, al fine di attribuire gradi variabili di conferma delle ipotesi vertenti sui fatti che si tratta di accertare, secondo un criterio di regolarità causale, restando sul professionista la prova contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all’aborto, per qualsivoglia ragione a lei personale: ovvero che la partoriente, per le sue convinzioni morali o religiose o altro, ove messa di fronte alla scelta dell’aborto perché correttamente informata, in ogni caso avrebbe scelto di non abortire (Cass., Sez. Unite, n. 25767/2015).

Orbene, nel caso de quo, si deduce che: a) la rilevante anomalia del nascituro è fatto pacifico; b) l’omessa ed erronea informazione da parte dei medici è stata accertata dal Giudice di primo grado, siccome sopra precisato, nonché passata in cosa giudicata nei confronti degli odierni appellati; c) il grave pericolo per la salute psicofisica della donna è stato accertato nel giudizio di primo grado con consulenza tecnica d’ufficio a firma del Dott. C.. In ordine alla scelta abortiva della madre è necessario precisare che può essere raggiunta la prova facendo ricorso alle presunzioni ex art. 2729 c.c. ed in ogni caso operando la necessaria valutazione ex ante (ovvero sulla base delle informazioni delle quali avrebbe potuto disporre la madre prima della nascita, al momento di scegliere se interrompere o meno la gravidanza; cfr. Cass., n. 5004/2017).

Orbene, nel caso de quo, richiamando l’orientamento espresso da Cass., Sez. Unite, n. 25767/2015, assurgono al rango di presunzioni (da cui inferire la conoscenza del fatto ignoto) le seguenti circostanze: 1. la decisione di effettuare l’ecografia morfologica, pur non prescritta dal ginecologo di fiducia, al fine di conoscere le condizioni di salute (siccome comprovato dalle obiettive risultanze della prova testimoniale); 2. le precarie condizioni psico-fisiche della madre, siccome accertate nel giudizio di primo grado tramite la consulenza tecnica d’ufficio a firma del Dott. C.; 3. le informazioni delle quali avrebbe potuto disporre la madre prima della nascita a seguito di compiuti informazioni ed indagini strumentali ben noti alla comunità scientifica ed ai protocolli medici (come ampiamente detto nel presente atto), al momento di scegliere se interrompere o meno la gravidanza, ovvero: “Le due cardiopatie di cui era affetta la piccola (…) sono cardiopatie di difficile riscontro in epoca neonatale e la cui chirurgia è gravata da un alto tasso di complicanze e di mortalità intra e post-operatoria. Difatti la Coartazione Aortica, pur essendo una alterazione chirurgicamente aggredibile, presenta una altissima mortalità neonatale (45%) ed anche i casi operati con successo hanno una mortalità a 6 mesi addirittura del 26%. Tale condizione viene percentualmente aggravata dalla eventuale presenza di una seconda malformazione cardiaca associata (60%). Il Canale Atrioventricolare Unico ha una sopravvivenza, dopo l’intervento, non particolarmente alta, anche nelle casistiche europee, attestandosi intorno al 25-30%. Infatti, mentre (l’outcome post-operatorio è spesso soddisfacente, le complicanze riducono in misura notevole le percentuali di sopravvivenza.

Ad esempio, il gruppo londinese del G.H., su una casistica di 29 CAV ha avuto una sopravvivenza del 25% con due casi di (…) di Down” (cfr. pag. 8 Relazione a firma del Dot. (…) e del Dott. (…), disposta dalla procura ella Repubblica presso il Tribunale di Napoli (prodotta in atti dallo stesso Dott. (…) nel fascicolo di parte di primo grado). Orbene, tali fatti noti (dai quali inferire la conoscenza del fatto ignoto) non sono stati ritenuti sufficienti (circostanza sub a) oppure non sono stati affatto valutati (circostanza sub b e c) dal Giudice di primo grado, e tanto apoditticamente e senza adeguata motivazione, con conseguente erroneità della sentenza in parte qua. Inoltre, erra il Giudice di primo grado nella parte in cui ha ritenuto “assenti” le allegazioni di parte attrice in ordine alla volontà abortiva della sig.ra (…), la quale si sarebbe limitata ad affermare che “qualora avesse avuto cognizione dell’esistenza e della gravità delle lesioni riscontrate sul feto, avrebbe con ogni probabilità, scelto di interrompere la gravidanza, in assenza di possibilità ad intervenire con interventi prenatali capaci di risolvere il problema”.

Senonchè, in parte qua, il Giudice di prime cure non solo si pone in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale è sufficiente anche un assunto implicito (relativo alla volontà abortiva della madre) contenuto nell’atto di citazione (cfr. Cass., n. 16754/2012), ma non applica altresì correttamente il criterio di riparto dell’onere della prova: infatti, se è onere della madre la prova della volontà abortiva anche con ricorso alle presunzioni ex art. 2729 c.c. e con valutazione ex ante (siccome sopra precisato), resta a carico dei professionisti convenuti la prova contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all’aborto, per qualsivoglia ragione a lei personale: ovvero che la partoriente, per le sue convinzioni morali o religiose o altro, ove messa di fronte alla scelta dell’aborto perché correttamente informata, in ogni caso avrebbe scelto di non abortire (Cass., Sez. Unite, n. 25767/2015).

Orbene, a fronte dell’allegazione di parte attrice (secondo cui “qualora avesse avuto cognizione dell’esistenza e della gravità delle lesioni riscontrate sul feto, avrebbe con ogni probabilità, scelto di interrompere la gravidanza”), le odierne parti convenute non deducono né allegano elementi negativi, impeditivi od estintivi della stessa ai sensi dell’art. 2697 c.c.. Il Dott. S.’, nella propria comparsa di costituzione e riposta (cfr. pagg. 12-13-14) si è limitato ad esporre quello che sarebbe stato il possibile comportamento eventualmente posto in essere dalla sig.ra (…) secondo una valutazione ex post (che, come sopra precisato, è del tutto erronea alla luce del consolidato orientamento della Corte di cassazione, cfr. sent. n. 5004/2017).Nulla dice in merito la Dott.ssa D.. Senonchè le suindicate deduzioni sono del tutto insufficienti in considerazione del preciso onere della prova incombente in capo agli odierni convenuti siccome precisato dalla Corte di Cassazione (ovvero: resta a carico dei professionisti convenuti la prova contraria che la donna non si sarebbe determinata comunque all’aborto, per qualsivoglia ragione a lei personale: ovvero che la partoriente, per le sue convinzioni morali o religiose o altro, ove messa di fronte alla scelta dell’aborto perché correttamente informata, in ogni caso avrebbe scelto di non abortire, Sez. Unite, n. 25767/2015). La sentenza di primo grado deve essere riformata in parte qua per non avere fatto il primo Giudice corretta applicazione della disciplina dell’onere della prova (e del relativo riparto) come analiticamente regolamentata dalla Giurisprudenza di legittimità, e per non avere ritenuto assolto l’onere della prova (relativamente alla libera autodeterminazione della scelta abortiva) da parte dell’attrice, sig.ra (…).”

4. L’appello non merita accoglimento, avendo il Tribunale adeguatamente spiegato con motivazione congrua, logica e non contraddittoria le ragioni della sua decisione facendo corretta applicazione dei principi di diritto che governano la materia. La completezza dell’iter argomentativo del giudice di prime cure rende evidente come le ragioni di censura formulate dagli appellanti non colgano nel segno.

In primo luogo occorre rilevare che in sede di gravame ( secondo motivo di impugnazione) controparte ha, per la prima volta, dedotto che la violazione da parte del dott. (…) del diritto della sig.ra (…) ad una corretta informazione in ordine alle possibilità diagnostiche ed alle possibili malformazioni del nascituro (violazione comunque del tutto insussistente alla luce di quanto emerso nel giudizio di promo grado) avrebbe prodotto un’incidenza negativa non soltanto sulla libera autodeterminazione alla scelta abortiva, ma anche su altri aspetti, afferenti ad una possibile migliore preparazione psicologica e materiale degli odierni appellanti rispetto alle conseguenze connesse alle malformazioni della bambina.

Tale avversa allegazione – come correttamente dedotto da entrambi gli appellati – è stata sollevata per la prima volta in sede di impugnazione e, poiché mira ad introdurre in sede di gravame un nuovo tema di indagine vertente su una nuova situazione giuridica non prospettata in primo grado, deve ritenersi inammissibile -in quanto proposta in violazione del divieto di jus novorum al quale è ispirata la vigente disciplina del giudizio di appello, divieto sancito dall’art. 345 c.p.c. che, com’è noto, stabilisce il divieto di proporre in grado di appello nuove domande e nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio.

Sulla presunta lesione del diritto riconosciuto alla gestante di interrompere la gravidanza ( terzo motivo di gravame) non si può fare a meno di evidenziare che gli odierni appellanti tentano di minare il rigoroso iter logico – giuridico contenuto nella motivazione della sentenza impugnata adducendo argomenti infondati.

Parte appellante richiama, a sostegno delle proprie tesi, il più recente arresto della giurisprudenza di legittimità – ci si riferisce a Cass., SS. UU., n. 25767/2015 – ovvero proprio il principale supporto giuridico ed ermeneutico che il Giudice di prime cure ha posto a sostegno della motivazione contenuta in sentenza in relazione al tema in commento. Di tale pronuncia riprende singoli ed isolati stralci, cercando di adattarli alla propria “impalcatura” difensiva, stralci che, avulsi ed estrapolati dal contesto complessivo nel quale sono contenuti, tradiscono e snaturano il senso ed il significato dell’orientamento giuridico sotteso alla pronuncia della Suprema Corte, come correttamente osservato dalla difesa dello (…).

Anche l’avverso riferimento alla pronuncia contenuta in Cass. n. 5004/2017 (sentenza peraltro pronunciata successivamente alla sentenza di primo grado) appare fuorviante, in considerazione del fatto che il principio secondo cui la condotta professionale del medico deve essere assoggettata, in casi quale quello per cui si controverte, ad una valutazione da compiersi ex ante (oltre che sulla base degli elementi, dei criteri e dei canoni clinici analogamente sussistenti e valevoli ex ante) è proprio il principio al quale, come innanzi è stato ampiamente dedotto, si è attenuto e conformato il C.T.U. medico – legale nell’accertamento, poi recepito e trasfuso nella sentenza di primo grado, della correttezza dell’operato professionale del dott. (…).

Infatti effettuare una valutazione della idoneità degli atti mediante il cd criterio della prognosi postuma, come sostiene il giudice di prime cure, altro non vuol dire se non riportarsi al momento in cui l’azione stava per essere compiuta ( valutazione ex ante) tenendo conto di tutte le circostanze concrete in cui il soggetto ha operato e di tutti gli elementi conoscibili dall’agente.

La fondamentale sentenza Cass., SS. UU., n. 25767/2015 è stata invece, si ribadisce, correttamente posta dal Giudice di prime cure a fondamento della propria decisione, nella parte relativa all’inquadramento del contenuto dell’onere probatorio incombente a carico della gestante che rivendichi la lesione del diritto alla propria libera autodeterminazione alla scelta abortiva.

Dirimente e decisiva rilevanza sul punto ha prodotto e continua a produrre quanto dedotto dalla stessa controparte nel giudizio di primo grado, laddove è stato unicamente allegato che “se (la sig.ra L.: n.d.a.) avesse avuto cognizione dell’esistenza e gravità delle patologie riscontrate sul feto, avrebbe probabilmente scelto di interrompere la gravidanza, in caso di assenza di possibilità ad intervenire con interventi prenatali capaci di risolvere il problema” (cfr. atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, pag. 4 allegato unitamente alla comparsa di costituzione e risposta). Solo ed unicamente la sig.ra (…) avrebbe dovuto assolvere all’adempimento dell’onere probatorio in ordine a tale aspetto, posto, peraltro, a fondamento della pretesa risarcitoria azionata nel giudizio di primo grado, come correttamente rilevato dal Tribunale sulla scorta di un criterio che deriva dall’applicazione dei principi giuridici regolatori della materia dell’onere probatorio e che è stato anche sancito dalla richiamata sentenza Cass., SS. UU., n. 25767/2015, nella quale è stato stabilito che “i presupposti della fattispecie facoltizzante non possono che essere allegati e provati dalla donna ex art. 2697 cod. civ. (onus incumbit ei qui dicit), con un riparto che appare del resto rispettoso del canone della vicinanza della prova”.

Contrariamente a quanto sostenuto da controparte in modo contrario alla logica, prima ancora che al diritto, solo una volta conseguita piena prova in tal senso alla stregua di quanto chiarito in Cass., SS. UU., n. 25767/2015 il medico sarebbe stato gravato dell’onere di provare, in senso contrario, che la donna non si sarebbe determinata comunque all’aborto per qualsivoglia ragione a lei personale.

In assenza, si ribadisce, dell’allegazione, da parte della sig.ra (…), della prova de qua, la domanda dalla stessa proposta non può che essere integralmente disattesa.

Condividendo quanto affermato dalla difesa del dott. (…), l’avversa prospettazione difensiva risulta votata al rigetto anche per il fatto che la lesione del diritto alla procreazione cosciente è collegata ad una diagnosi erronea od omessa del medico, ovvero ad un adempimento della prestazione professionale posto in essere in modo negligente. Ciò significa che il danno in discorso può ritenersi configurabile solo nel caso in cui la violazione della libertà della paziente di autodeterminarsi liberamente, scegliendo i trattamenti più opportuni da effettuare, costituisca la conseguenza, in rapporto diretto di causa ed effetto, dell’errore od omissione diagnostica.

Se si considera che nel caso che ci occupa il dott. (…), come innanzi è stato ampiamente dimostrato, ha posto in essere una condotta professionale rivelatasi del tutto corretta, è evidente che il danno in questione diviene privo di ogni fondamento e giustificazione.

Senza contare che la stessa unica asserzione proposta sul punto da controparte (ovvero quella per cui se avesse avuto cognizione dell’esistenza e della gravità delle patologie riscontrate sul feto avrebbe probabilmente scelto di interrompere la gravidanza) risulta del tutto discutibile, in quanto i test diagnostici de quibus, come confermato anche dal C.T.U. medico – legale prof.ssa V. (…), non pervengono a risultati connotati da assoluta certezza né per quanto concerne le patologie del feto, né per quanto riguarda i possibili sviluppi evolutivi delle malformazioni riscontrate ai danni del feto medesimo.

In altre parole, nella fattispecie controversa indagini più approfondite non avrebbero comunque potuto escludere con assoluta certezza la possibilità di emendare in via chirurgica le malformazioni cardiache dalle quali la piccola (…) risultò essere affetta e, quindi, la possibilità che la stessa sopravvivesse.

E’ doveroso aggiungere che la disamina di tale questione deve essere completata (come anche il Giudice di prime cure non ha mancato di fare, anche in questo caso seguendo un iter argomentativo ineccepibile sul piano sia logico che giuridico) anche avendo riguardo alla disciplina contenuta nella L. 22 maggio 1978, n. 194, recante “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza”, che ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità legale di ricorrere all’aborto, legittimando l’autodeterminazione della donna a tutela della sua salute, e non solo della sua vita, ma nel rispetto di condizioni rigorose che sono espressione di un bilanciamento di esigenze di primaria rilevanza.

La L. n. 194 del 1978 infatti consente due sole ipotesi di interruzione volontaria della gravidanza, che si distinguono a seconda del momento in cui essa avviene.

Ai sensi dell’art. 4 della legge in commento entro i primi novanta giorni dal concepimento l’interruzione della gravidanza è consentita solo allorchè la donna “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”.

L’art. 6, invece, stabilisce che l’interruzione volontaria della gravidanza dopo i primi novanta giorni ” può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.

La legge prevede, inoltre, all’art. 7, che quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nell’ipotesi in cui sussista un grave pericolo per la vita della donna: in tale caso il diritto di nascita del nascituro è ritenuto prevalente anche rispetto alla tutela della salute della gestante. La ratio sottesa al provvedimento normativo in esame è quella di salvaguardare la tutela del concepito e di preservare l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, escludendo che la gestante possa legittimamente autodeterminarsi all’interruzione della gravidanza allorchè venga a conoscenza di malformazioni del feto che non impediscano allo stesso di avere una vita autonoma e comunque gli possano consentire una sopravvivenza anche nella fase successiva al parto.

Nel caso di specie la sig.ra (…) non avrebbe potuto determinarsi all’interruzione della gravidanza prima dei novanta giorni in quanto le indagini diagnostiche volte a rilevare le patologie dalle quali è risultata essere affetta la piccola (…) vengono normalmente eseguite, alla stregua del vigente protocollo diagnostico ginecologico e come anche confermato dal C.T.U. prof.ssa V. (…), nel secondo trimestre di gravidanza, ovvero quando il feto è maggiormente sviluppato e sono maggiori le possibilità di effettuare diagnosi afferenti a patologie di tale rilievo.

L’odierna appellante non avrebbe potuto, altresì, determinarsi all’interruzione della gravidanza anche dopo il novantesimo giorno di gravidanza essendosi limitata, come sopra già rilevato, unicamente ad allegare che “se avesse avuto cognizione dell’esistenza e della gravità delle patologie riscontrate sul feto, avrebbe probabilmente scelto di interrompere la gravidanza, in assenza di possibilità ad intervenire con interventi prenatali capaci di risolvere il problema” (cfr. atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, pag. 4).

Tanto, si ripete, è stato puntualmente colto dal Giudice di prime cure, il quale, alla stregua del surriferito iter motivazionale, ha escluso la sussistenza del nesso causale tra condotta professionale dei medici ed asserita lesione del diritto della sig.ra (…) ad una procreazione cosciente.

Il Giudice del Tribunale di Bari, inoltre, ha corroborato tale conclusione anche evidenziando, da un lato, che l’indagine de qua non può, in alcun modo, approdare ad un’elencazione di anomalie o malformazioni che giustifichino la presunzione di ricorso all’aborto e rappresentando, dall’altro lato, che la richiesta di accertamenti diagnostici non costituisce prova dell’intenzione di abortire nel caso in cui emergano delle anomalie al feto, essendo diverse, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità innanzi richiamata, le ragioni che ” possono spingere la donna ad esigerli ed il medico a prescriverli, a partire dalla elementare volontà di gestire al meglio la gravidanza, pilotandola verso un parto che, per le condizioni, i tempi e il tipo, sia il più consono alla nascita di quel figlio, quand’anche malformato”.

Sulle richieste di risarcimento del danno morale e del danno esistenziale, la disamina difensiva che precede rende superfluo soffermarsi su tali profili. L’esclusione del riconoscimento di tali voci di danno è stata affermata dal Giudice di prime cure sulla base dell’accertamento della totale infondatezza della domanda attorea e del susseguente relativo rigetto della medesima.

Il rigetto del terzo motivo di appello assorbe il primo motivo di gravame.

5. Quanto alle spese del presente giudizio (non vi è appello incidentale sulla compensazione operata dal giudice di prime cure) sono a carico degli appellanti e a favore degli appellati secondo il criterio della soccombenza e vengono liquidate secondo le tariffe di cui al D.M. n. 55 del 2014 (valori minimi considerata la non complessità delle questioni); spese da versarsi in favore dei difensori degli appellati, Avv. Em.Ca. e Avv. Ca.Po. dichiaratisi antistatari

6. Ai sensi dell’art.13 co.1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 sussistono i presupposti per il versamento da parte degli appellanti, in solido tra loro, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’appello a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.

P.Q.M.

la Corte di Appello di Bari -Terza Sezione Civile, come innanzi composta, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da (…) e (…) con atto di citazione nei confronti di (…) e (…) avverso la sentenza n. 3875/2016 pubblicata il 12.07.2016 emessa dal Tribunale di Bari, così provvede:

1)rigetta l’appello e, per l’effetto, conferma la sentenza gravata:

2) condanna (…) e (…), in solido tra loro, al pagamento, in favore di (…) e (…) delle spese del presente giudizio, spese che si liquidano, per ciascun appellato, in complessivi Euro 4758,00 per compensi professionali, oltre IVA, CAP e rimborso forfettario spese generali come per legge; spese da versarsi in favore dei difensori degli appellati, Avv. Em.Ca. e Avv. Ca.Po. dichiaratisi antistatari

3)ai sensi dell’art.13 co.1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte degli appellanti, in solido tra loro, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’appello a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Bari il 25 maggio 2022.

Depositata in Cancelleria il 7 luglio 2022.

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