nel contratto a favore di terzo, qualora la stipulazione sia idonea a far acquisire al terzo il diritto che ne è oggetto senza bisogno di un’attività esecutiva del promittente, una volta verificatasi la sua efficacia a favore del terzo (mediante adesione alla stipulazione ed a maggior ragione per effetto di dichiarazione di volerne profittare anche in confronto del promittente), soltanto il terzo è legittimato ad agire per l’esecuzione della prestazione oggetto del diritto attribuitogli, dovendosi escludere che sussista una legittimazione concorrente dello stipulante, giacché la prestazione oggetto del contratto a favore del terzo, rappresentata dall’attribuzione del diritto al medesimo, risulta già realizzata. In tal caso, di fronte all’inadempimento da parte del promittente alla prestazione attribuita al terzo come oggetto del diritto conferitogli, non è configurabile in capo allo stipulante un diritto alla risoluzione del contratto a favore del terzo, perché detto inadempimento non concerne tale contratto, ma il rapporto originato dall’attribuzione al terzo del diritto, che se si sostanzia in un posizione contrattuale fra il terzo e il promittente potrà dare luogo ad azione di risoluzione da parte del terzo. Allo stesso modo, di fronte all’inadempimento da parte del promittente della prestazione attribuita al terzo come oggetto del diritto conferitogli, non è configurabile in capo allo stipulante un diritto al risarcimento del danno per l’inadempimento, perché esso spetta al terzo.
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Corte d’Appello|Napoli|Sezione 1|Civile|Sentenza|12 settembre 2022| n. 3736
Data udienza 7 settembre 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI APPELLO DI NAPOLI
PRIMA SEZIONE CIVILE
Composta dai magistrati:
dott. Fulvio Dacomo – Presidente
dott. Antonio Mungo – Consigliere
dott.ssa Federica Salvatore – Consigliere rel.
riunita in camera di consiglio
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel procedimento contrassegnato con il n. 3304/2016 R.G., avente ad oggetto “Cause in materia di rapporti societari”, fissato per la trattazione scritta all’udienza collegiale del 16.3.2022 e vertente
TRA
(…) (c.f. (…)) e (…), in proprio e quale erede di (…) (c.f. (…)), rappresentate e difese, in virtù procura alle liti rilasciata in calce all’atto di appello, dall’avv. PE.ST. (c.f. (…)), presso il cui studio sono elettivamente domiciliate, in Ischia via (…);
APPELLANTI
E
(…) (c.f. (…) ), (…) (c.f. (…) ) e (…) (c.f. (…) ), rappresentati e difesi dall’avv. Gi.Bu. (c.f. (…) ), in virtù di mandato a margine della comparsa di costituzione e risposta, ed elettivamente domiciliati presso lo studio del predetto difensore in Barano di Ischia, in Piazza (…), il quale procuratore chiede di ricevere le comunicazioni del presente procedimento al n. fax (…) o all’indirizzo pec (…);
APPELLATI
E
(…), n.q. di erede di (…);
CHIAMATO IN CAUSA CONTUMACE
RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Con atto di appello, tempestivamente notificato in data 30.6.2016, (…) e (…), in proprio e nella qualità in epigrafe, impugnavano la sentenza emessa dal Tribunale di Napoli – Sezione Distaccata di Ischia n. 15830/2015, pubblicata il 30.12.2015, con cui era stata rigettata la domanda da loro proposta e, in accoglimento della domanda riconvenzionale formulata dai convenuti era stato dichiarato che “il prezzo convenuto per la cessione delle quote sociali della Euro s.r.l. in favore dei signori (…) e (…) è stato di Euro 620.000,00 e che i medesimi unitamente alla signora (…) si sono resi inadempienti all’obbligo di pagare la rata di Euro 170.000,00 con scadenza 30.4.2008”, con conseguente condanna delle attrici al pagamento della suddetta somma in favore dei convenuti.
Con l’appellata sentenza il giudice di primo grado, revocando l’ordinanza di ammissione della CTU emessa dal precedente assegnatario del fascicolo, ha rigettato le domande proposte dagli attori ritenendo che nell’atto di cessione delle quote sociali non risultava contratta specificamente l’obbligazione di garanzia della consistenza economica delle quote e ciò sul presupposto che la Euro s.r.l. aveva svolto sino al 18.2.2009 (quando aveva concesso in fitto l’azienda alla (…) s.r.l.) l’attività alberghiera e che oggetto della cessione della quota è l’insieme dei diritti patrimoniali ed amministrativi che la quota attribuisce e non i beni ricompresi nel patrimonio sociale e di riflesso la consistenza economica della partecipazione, salvo specifica garanzia al riguardo, non prestata nel caso di specie. Di conseguenza ha ritenuto non fondata l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. e, in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta dai convenuti, ha condannato gli odierni appellanti a pagare l’ultima rata di prezzo pattuita per la cessione delle quote, pari ad Euro 170.000,00.
Avverso detta sentenza hanno proposto appello le signore (…) e (…), quest’ultima in proprio e nella qualità di erede di (…), chiedendo di: “1) accertare e dichiarare l’inadempimento dei convenuti agli obblighi di cui alle scritture private sopra indicate e per l’effetto condannarli, in via solidale, a corrispondere alla Euro s.r.l. l’importo di Euro 325.227,16, oltre ad interessi come per legge ed al risarcimento del danno da svalutazione monetaria, da determinarsi secondo gli indici ISTAT, a far data dal 9.05.2008 (data di deposito del ricorso ex art. 700 cod. proc. civ.) ovvero alternativamente condannarli, in solido, a corrispondere agli istanti la somma di Euro 325.227,16, oltre ad interessi come per legge ed al risarcimento del danno da svalutazione monetaria, quale risarcimento del danno derivante dall’inadempimento dei contratti sopra indicati e conseguente alla perdita di valore delle partecipazioni sociali oggetto di cessione; 2) accertare e dichiarare legittima la proposizione da parte degli istanti dell’eccezione di inadempimento sopra indicata; 3) accertare e dichiarare, di conseguenza, a norma dell’art. 1460cod. civ., gli istanti non tenuti a pagare ai cessionari l’importo di Euro 170.000,00 risultante dalle n. 62 cambiali presentate dai cedenti sino a quando i convenuti non adempiano le obbligazioni contemplate dall’art. 4 della scrittura privata autenticata e dall’art. 7 della scrittura privata sopra indicate; accertare e dichiarare erroneo, per le ragioni sopra esposte, il protesto dei seguenti effetti cambiari: n. 34 effetti cambiari, dell’importo complessivo di Euro 85.000,00 con scadenza al 30.04.2008 in favore del signor (…); n. 11 effetti cambiari, dell’importo complessivo di Euro 42.500,00 con scadenza al 30.04.2008 in favore della signora (…); n. 17 effetti cambiari dell’importo complessivo di Euro 42.500,00 con scadenza al 30.04.2008 in favore del signor (…); 4) per l’effetto, condannare, in solido, per le causali sopra esposte, i convenutial pagamento in favore della sig.ra (…) della ulteriore somma di Euro 80.000,00, al pagamento di Euro 50.000,00, in favore del sig. (…) ed al pagamento di Euro 50.000,00, in favore della sig.ra (…), ovvero la diversa somma che dovesse risultare all’esito dell’espletanda istruttoria, in via equitativa a norma dell’art. 1226 cod. civ., risultando impossibile od eccessivamente difficile la precisa quantificazione dei danni stessi; il tutto oltre ovviamente interessi come per legge ed al risarcimento del danno da svalutazione monetaria; 5) ordinare al conservatore dell’elenco dei protesti la cancellazione dei protesti degli effetti cambiari sopra indicati elevati contro gli istanti ovvero ordinare al conservatore dell’elenco dei protesti di effettuare le rettifiche del caso a tutela della reputazione commerciale e personale degli istanti stessi. Il tutto con vittoria di spese, diritti ed onorari di lite”. A fondamento dell’impugnazione gli appellanti, dopo aver ritrascritto integralmente l’atto di citazione depositato in primo grado, hanno evidenziato in particolare l’erroneità della decisione del primo giudice nelle parti in cui ha revocato l’ordinanza di ammissione della CTU ed ha ritenuto che nell’atto di cessione delle quote non vi fosse una specifica garanzia della consistenza patrimoniale della società.
Costituendosi in giudizio gli appellati hanno eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità dell’appello per carenza di motivi specifici e, in ogni caso, perché vi è stata acquiescenza al capo della decisione in cui il primo giudice ha accertato lo svolgimento dell’attività sociale fino al 2009, non espressamente impugnato dalle appellanti, con conseguente inammissibilità degli altri due motivi di appello, entrambi fondati sul presupposto fattuale dell’impossibilità di esercizio dell’attività sociale. Nel merito, hanno eccepito l’infondatezza dell’appello, evidenziando la correttezza della valutazione della clausola pattizia effettuata dal primo giudice.
Nonostante l’integrazione del contraddittorio regolarmente effettuata dalle appellanti nei confronti di (…), altro erede di (…), attesa la rinuncia all’eredità da parte di (…), questi non si è costituito e ne va dichiarata la contumacia (cfr. atto depositato telematicamente il 15.9.2017).
All’udienza del 16.3.2022 sulla base delle conclusioni precisate dalle parti con il deposito di note di trattazione scritta, la causa è stata trattenuta in decisione con assegnazione alle stesse di termini di cui all’art. 190 c.p.c..
Con il primo motivo le appellanti hanno censurato la decisione del primo giudice per avere questi erroneamente ritenuto che l’art. 5 del contratto di cessione di quote della società Euro s.r.l. non contenesse un’obbligazione specifica a carico dei cedenti di garanzia dell’esattezza e veridicità della situazione patrimoniale, ossia di corrispondenza tra il valore complessivo della società e il prezzo corrisposto per le quote.
In base all’art. 5 del contratto di cessione di quote societarie per atti notaio Albore del 21.6.2006 “i cedenti dichiarano che la situazione patrimoniale allegata al 20 giugno 2006 è veritiera. I medesimi si accollano ogni passività sopravvenienza passiva, minusvalenza ed insussistenza di attivo, relativa al periodo antecedente alla sottoscrizione del presente atto, anche se successivamente accertata, assumendone a proprio carico ogni relativo onere ed impegnandosi conseguentemente a liberare la società”.
Come pacificamente riconosciuto dalle parti, la previsione in esame contenuta nell’atto di cessione di quote non costituisce una garanzia in favore dei cessionari, ma integra un contratto a favore di terzo ex art. 1411 c.c. con il quale i cedenti si sono accollati, in favore della società Euro s.r.l., gli oneri connessi ad eventuali passività, sopravvenienze passive, minusvalenze ed insussistenza di attivo di competenza del periodo anteriore alla sottoscrizione dell’atto di cessione di quote, impegnandosi a ripianarli direttamente.
Rileva il Collegio in via preliminare che, sulla base alla domanda così come formulata e della prospettazione contenuta nell’atto introduttivo del giudizio, difetta la legittimazione attiva delle appellanti a far valere l’inadempimento della clausola e il conseguente diritto al risarcimento del danno in capo alla società Euro s.r.l.
Nelle conclusioni dell’atto di appello, che ripropongono pedissequamente quelle già rassegnate in primo grado, infatti, è chiesta la condanna dei cedenti/appellati a corrispondere alla società Euro s.r.l. l’importo di Euro 325.227,16 previo accertamento del loro inadempimento alla clausola pattizia contenuta nell’atto di cessione delle quote societarie.
Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità “nel contratto a favore di terzo, qualora la stipulazione sia idonea a far acquisire al terzo il diritto che ne è oggetto senza bisogno diun’attività esecutiva del promittente, una volta verificatasi la sua efficacia a favore del terzo (mediante adesione alla stipulazione ed a maggior ragione per effetto di dichiarazione di volerne profittare anche in confronto del promittente), soltanto il terzo è legittimato ad agire per l’esecuzione della prestazione oggetto del diritto attribuitogli, dovendosi escludere che sussista una legittimazione concorrente dello stipulante, giacché la prestazione oggetto del contratto a favore del terzo, rappresentata dall’attribuzione del diritto al medesimo, risulta già realizzata … in tal caso, di fronte all’inadempimento da parte del promittente alla prestazione attribuita al terzo come oggetto del diritto conferitogli, non è configurabile in capo allo stipulante un diritto alla risoluzione del contratto a favore del terzo, perché detto inadempimento non concerne tale contratto, ma il rapporto originato dall’attribuzione al terzo del diritto, che se si sostanzia in un posizione contrattuale fra il terzo e il promittente potrà dare luogo ad azione di risoluzione da parte del terzo. Allo stesso modo, di fronte all’inadempimento da parte del promittente della prestazione attribuita al terzo come oggetto del diritto conferitogli, non è configurabile in capo allo stipulante un diritto al risarcimento del danno per l’inadempimento, perché esso spetta al terzo” (Cass., n. 8272/2014 e da ultimo Cass., 14985/2022).
La verifica della legittimazione può essere compiuta d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, in quanto la legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto, secondo la prospettazione della parte, mentre l’effettiva titolarità del rapporto controverso, attenendo al merito, rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio dei soggetti in lite. Ne consegue che il difetto di legitimatio ad causam, riguardando la regolarità del contraddittorio, costituisce un error in procedendo ed è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo (in tal senso, di recente, Cass. Sez. 1, 27/03/2017, n. 7776).
Nel caso di specie, in applicazione di tali principi, legittimato ad agire per ottenere il risarcimento del danno per il minor valore del patrimonio sociale derivante dalla clausola pattizia invocata era esclusivamente la società (…) s.r.l., unica beneficiaria del contratto stipulato a suo favore.
Pur volendo ritenere la legittimazione attiva delle appellanti, come implicitamente ritenuto dal primo giudice, con riferimento alla richiesta di accertamento ex art. 1460 c.c. del diritto delle appellanti a non corrispondere l’ultima rata di prezzo delle quote quale conseguenza dell’inadempimento dei cedenti alla clausola pattizia e del minor valore delle quote sociali cedute, il motivo di appello è inammissibile e, comunque, infondato.
Esso è inammissibile in quanto la dedotta lesione si configura astrattamente con riferimento al valore della quota oggetto di cessione, come danno riflesso rispetto al minor valore del patrimonio sociale, per cui l’eventuale risarcimento è nella titolarità dei soci cessionari delle quote e non della società. In tal senso la domanda proposta non formula alcuna richiesta di risarcimento a favore dei soci, ma in modo del tutto inequivoco chiede la condanna al risarcimento del danno per il minor valore del patrimonio sociale in favore della società.
In ogni caso, la domanda anche ove la si ritenga da una lettura complessiva dell’atto, volta a ottenere il risarcimento in capo ai cessionari per il minor valore della quota, sarebbe comunque infondata, condividendo la Corte le motivazioni già fornite sul punto dal primo giudice, in quanto conformi ai principi di diritto enunciati dalla Suprema Corte ed alle risultanze documentali.
Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, infatti: “La cessione delle azioni di una società di capitali o di persone fisiche ha come oggetto immediato la partecipazione sociale e solo quale oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta. Pertanto, le carenze o i vizi relativi alle caratteristiche e al valore dei beni ricompresi nel patrimonio sociale – e, di riverbero, alla consistenza economica della partecipazione – possono giustificare l’annullamento del contratto per errore o, ai sensi dell’art.1497 cod. civ., la risoluzione per difetto di “qualità” della cosa venduta (necessariamente attinente ai diritti e obblighi che, in concreto, la partecipazione sociale sia idonea ad attribuire e non al suo valore economico), solo se il cedente abbia fornito, a tale riguardo, specifiche garanzie contrattuali, ovvero nel caso di dolo di un contraente, quando il mendacio o le omissioni sulla situazione patrimoniale della società siano accompagnate da malizie ed astuzie volte a realizzare l’inganno ed idonee, in concreto, a sorprendere una persona di normale diligenza” (Cass., 16031/2007; Cass., 15706/2008; Cass., 7183/2019).
Nel caso di specie, la clausola contrattuale invocata a garanzia del valore della quota configura un mero accollo dei cedenti rispetto alle obbligazioni sopravvenute o minusvalenze dell’attivo de patrimonio sociale e non può essere ritenuta quale assunzione di garanzia del valore della quota i favore dei cessionari, ancorata alla consistenza del patrimonio sociale, neppure alla luce de generale principio di buona fede.
L’oggetto della prestazione promessa dai cedenti, infatti, sia per il dato letterale che per il suo riferimento esplicito alla situazione patrimoniale allegata al 20 giugno 2006, non è una “garanzia” verso i cessionari (come nella fattispecie esaminata dalla sentenza n. 2178/2017 del Tribunale di Bologna, Sez. Spec. in materia di Impresa, invocata dagli appellanti, in cui la clausola riportata in sentenza prevedeva che “la parte venditrice solleva gli acquirenti da qualsiasi responsabilità …”), ma un vero e proprio accollo di eventuali debiti della società ovvero un impegno al pagamento in favore della società di eventuali sopravvenienze passive o minusvalenze legate ad attività pregresse e non risultanti dalla situazione patrimoniale allegata all’atto di cessione.
Con tale clausola le parti hanno inteso mantenere inalterata la situazione patrimoniale della società pur di fronte ad eventuali minusvalenze o sopravvenienze passive, posto che per effetto dell’accollo la società matura un corrispondente credito nei confronti dei cedenti per la relativa parte, restando così inalterata sotto il profilo contabile ed economico la complessiva consistenza patrimoniale della società e, quindi, di riflesso il relativo valore della quota. In tal senso la clausola assume un significato diametralmente opposto a quello invocato dalle appellanti: essa, infatti, lì dove contempla che il rischio del minor valore della quota sia compensato con l’accollo dei debiti e delle minusvalenze da parte dei cedenti in favore della società, espressamente esclude che il minor valore del patrimonio sociale possa incidere sul pagamento del prezzo delle quote.
Inammissibile è, poi, anche il secondo motivo di appello con il quale è stata censurata la sentenza di primo grado per avere il giudicante revocato l’ammissione della CTU precedentemente effettuata.
Sul punto la parte si limita a rilevare la discrezionalità del giudice nell’ammissione della CTU e la valutazione di indispensabilità che era stata fatta dall’originario titolare del fascicolo, senza indicare alcuno specifico motivo di impugnazione, né le ragioni per le quali si ritiene violata la disposizione di cui all’art. 191 c.p.c. a norma del quale appunto il giudice ha facoltà di ammettere la consulenza tecnica.
Né la violazione può essere ritenuta sulla base dell’invocata indispensabilità della perizia tecnica alla luce della sua originaria ammissione.
Rileva, infine, la Corte che non è stato formulato alcun motivo di appello con riferimento al capo di sentenza di accoglimento della domanda riconvenzionale di condanna degli appellanti al pagamento del residuo del prezzo di cessione delle quote.
Sebbene, infatti, l’adempimento della prestazione di pagamento del prezzo delle quote sia collegato all’esatto adempimento della controprestazione di cessione, in ogni caso a fronte della espressa statuizione del giudice sul punto con accoglimento della domanda riconvenzionale gli appellanti avrebbero dovuto formulare specifico motivo di appello chiedendo la revoca della sentenza anche sul punto. Tanto non è avvenuto nel caso di specie e, quindi, il relativo capo della sentenza deve ritenersi passato in giudicato.
Le spese di lite del presente grado di giudizio tra le appellanti e gli appellati costituiti seguono la soccombenza e sono liquidate nell’importo indicato in dispositivo, secondo i parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, come modificato dal D.M. n. 37 del 2018, secondo il valore medio dello scaglione di riferimento e senza computo della fase istruttoria (non svoltasi nel presente grado di giudizio), tenuto conto della complessità delle questioni trattate.
Nulla per le spese nei confronti di (…), n.q. di erede di (…), stante la mancata costituzione dello stesso.
In ossequio alla disposizione di cui all’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, va, infine, dato atto della sussistenza dei presupposti dell’obbligo degli appellanti di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’appello da esso proposto.
P.Q.M.
La Corte di Appello, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da (…) e (…), in proprio e n.q. di erede di (…), avverso la sentenza del Tribunale di Napoli – sezione distaccata di Ischia n. 15830/2015 del 30.12.2015 nei confronti di (…), (…) e (…), nonché di (…), n.q. di erede di (…), così provvede:
1) rigetta l’appello, confermando la sentenza impugnata;
2) condanna (…) e (…), in proprio e n.q. di erede di (…), al pagamento, in favore di (…), (…) e (…), delle spese di lite, che si liquidano in complessivi Euro 9.515,00, oltre Iva, Cpa e rimborso forfettario spese generali nella misura del 15%;
3) nulla per le spese nei confronti di (…);
4) dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte degli appellanti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’appello proposto.
Così deciso in Napoli il 7 settembre 2022.
Depositata in Cancelleria il 12 settembre 2022.
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