Accertata la natura diffamatoria di quanto scritto, al diffamato deve essere riconosciuto il risarcimento dei danni non patrimoniali nella forma della sofferenza soggettiva causata dall’ingiusta lesione del diritto inviolabile inerente alla dignità, immagine e reputazione della persona ex artt. 2 e 3 Cost. Il danno arrecato alla reputazione deve essere inteso in senso unitario senza distinguere tra “reputazione personale” e “reputazione professionale”, trovando la tutela di tale diritto il fondamento nell’art. 2 Cost. ed in particolare nel rilievo che esso attribuisce alla dignità della persona in quanto tale. Il danno è pertanto ravvisabile – e come tale deve essere risarcito – nella diminuzione della considerazione della persona da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali quella stessa persona abbia ad interagire.
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Corte d’Appello|Milano|Sezione 2|Civile|Sentenza|4 gennaio 2023| n. 7
Data udienza 21 dicembre 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI MILANO
Sezione seconda civile
nelle persone dei seguenti magistrati:
dr. Gabriella Anna Maria Schiaffino – Presidente
dr. Cesira D’Anella – Consigliere
dr. Maria Elena Catalano – Consigliere rel
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n. r.g. 674/2022 promossa in grado d’appello
DA
E.G. (C.F. (…)), elettivamente domiciliato in (…) 27058 VOGHERA presso lo studio dell’avv. (…), che lo rappresenta e difende come da delega in atti
APPELLANTE
CONTRO
P.G. (C.F. (…)), elettivamente domiciliato in VIA (…) 27058 VOGHERA presso lo studio dell’avv. (…), che lo rappresenta e difende come da delega in atti
APPELLATO
avente ad oggetto: Altre ipotesi di responsabilità Extracontrattuale non ricomprese nelle altre materie
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione ritualmente notificato il sig. P.G. chiedeva di accertare e dichiarare che le condotte poste in essere dal sig. E.G., convenuto, integrassero le fattispecie di ingiuria e di diffamazione ai propri danni e, per l’effetto, condannare controparte alla sanzione pecuniaria prevista ex art. 4 D.Lgs. n. 7 del 2016, nonché, a titolo di danno non patrimoniale, a risarcire l’attore per una somma non inferiore a 15.000,00 Euro, oltre interessi e rivalutazione dal 07.01.2016.
Chiedeva, altresì, di dichiarare l’inammissibilità ex art. 36 c.p.c. della domanda riconvenzionale in quanto indipendente dal titolo dedotto in giudizio in via principale o, in subordine.
Si costituiva in giudizio E.G., chiedendo il rigetto delle domande dell’attore e la sua condanna, in via riconvenzionale, al risarcimento dei danni derivanti dal non corretto adempimento del mandato di amministratore di condominio.
Il Tribunale, preliminarmente, dichiarava inammissibile la domanda riconvenzionale svolta dal convenuto, ampiamente motivando.
Con riferimento alla domanda principale, delimitava la condotta ingiuriosa e diffamatoria addebitata al convenuto al solo invio e contenuto di due lettere (doc. 1 e doc. 3 fascicolo parte attrice).
Accertava la presenza degli estremi integranti ingiuria e diffamazione, benché in misura inferiore rispetto al richiesto.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, così disponeva:
– accoglie parzialmente la domanda di P.G.;
– condanna E.G. al pagamento in favore di P.G. della somma di Euro 5.323,96 oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo;
– dichiara inammissibili le domande riconvenzionali svolte da E.G.;
– condanna altresì E.G. a rimborsare a P.G. le spese di lite, che si liquidano, al netto della indicata compensazione, in Euro 132 per spese ed Euro 2.737,50 per compensi professionali, oltre spese generali pari al 15% dei compensi, c.p.a., nonché i.v.a., se prevista, secondo le aliquote di legge;
– condanna E.G. al pagamento in favore dello Stato della sanzione di Euro 1.000″.
Appello
Il sig. E.G. proponeva appello avverso la sentenza n. 41/2022, R.G. 85/2022 DEL 13.01.2022 per sette distinti motivi.
Tuttavia, in sede di precisazione delle conclusioni l’appellante rinunciava espressamente ai motivi di appello 2, 4, 5 e 6 nonché alla totalità delle istanze istruttorie.
Pertanto, la Corte è chiamata a decidere sui soli motivi di appello n. 1, 3 e 7.
Primo motivo: erroneità della sentenza, errata applicazione di norme di diritto e disapplicazione di principi giurisprudenziali consolidati.
Disapplicazione di legge e travisamento dei fatti ed errata interpretazione delle risultanze processuali nella parte in cui ha ritenuto la sussistenza di profili di illiceità ed offensività da parte dell’appellante Ing. E.G. nei confronti dell’Arch. P.G..
Erroneità, pertanto, della sentenza per errata applicazione delle norme e dei principi di diritto e giurisprudenziali in tema di valutazione della sussistenza o meno dei profili di ingiuria o diffamazione nelle espressioni utilizzate e conseguente errore nella condanna dell’appellante al risarcimento dei danni.
Erroneità della sentenza per errata applicazione di norme di diritto, disapplicazione di legge e omessa applicazione delle norme e dei principi di diritto e giurisprudenziali in tema di diritto alla legittima critica, in tale ambito dovendosi circoscrivere le espressioni utilizzate dall’appellante.
Erroneità della sentenza per errata applicazione di norme e principi di diritto e giurisprudenziali in tema di diritto fondamentale alla “giustificazione” e conseguente erroneità nell’avere impedito all’appellante il diritto di provare le cause di giustificazione, provocazione e gravi inadempienze tanto contrattuali che extracontrattuali addebitabili all’amministratore Arch. G. e giustificanti la legittima critica all’operato dell’amministratore.
Erroneità e contraddittorietà della sentenza.
Omessa motivazione e motivazione meramente apparente a sostegno dell’illiceità delle espressioni utilizzate dall’appellante. Mancanza di ogni indicazione controfattuale su quali altri termini leciti potevano essere utilizzati in alternativa ma di eguale contenuto rispetto alla critica rivolta all’amministratore condominiale.
Terzo motivo: erroneità della sentenza, errata applicazione di norme di diritto e disapplicazione di principi giurisprudenziali consolidati.
Disapplicazione di legge e travisamento dei fatti ed errata interpretazione delle risultanze processuali nella parte in cui ha omesso di considerare ovvero ha ritenuto immotivatamente assenti le ragioni documentalmente provate ed ammesse dalla stessa controparte tali per cui la responsabilità dell’asserita lesione all’onore e alla reputazione dell’Arch. G. sono da attribuire in via esclusiva ed assorbente alla condotta eccentrica, imprevedibile ed imprevista tenuta dallo stesso Arch. G. in occasione dell’assemblea condominiale durante il corso della quale fu lo stesso Arch. G. a dare lettura ai condomini riuniti in assemblea dei contenuti della busta e delle missive a lui inviate dall’appellante Ing. G..
Erroneità, pertanto, della sentenza per omessa applicazione delle norme e dei principi di diritto e giurisprudenziali in tema di omessa valutazione della sussistenza delle ragioni per le quali il comportamento imprevedibile dell’Arch. G. ha interrotto qualsiasi nesso causale tra il fatto e il danno sicché il danno lamentato, oltre che insussistente e non provato, doveva altresì essere dichiarato non risarcibile per intervenuta interruzione del nesso di causalità e per responsabilità esclusiva dello stesso Arch. G. ai sensi dell’art. 1227 commi 1 e 2 del cod. civ. e norme correlate.
Erroneità della sentenza per errata applicazione di norme di diritto, disapplicazione di legge e omessa applicazione delle norme e dei principi di diritto e giurisprudenziali in tema di applicazione del principio di causalità e di applicazione delle norme di cui all’art. 1227 comma 1 e 2 cod. civ. sulla interruzione di ogni nesso causale e sulla irrisarcibilità dei danni lamentati dovuti invece a colpa e fatto esclusivi dello stesso danneggiato.
Erroneità e contraddittorietà della sentenza per omessa motivazione e motivazione meramente apparente in relazione all’eccezione di irrisarcibilità di qualsiasi danno subito dal danneggiato per essere stato tale danno provocato da fatto e colpa esclusivi dello stesso danneggiato ai sensi dell’art. 1227 comma 1 e 2 cod. civ.
Erroneità della sentenza nella parte in cui ha omesso di considerare l’avvenuta interruzione del nesso causale con conseguente erroneo riconoscimento di danni risarcibili.
Settimo motivo: erroneità della sentenza, errata applicazione di norme di diritto e disapplicazione di principi giurisprudenziali consolidati.
Disapplicazione di legge e travisamento dei fatti ed errata interpretazione delle risultanze processuali nella parte in cui ha erroneamente ritenuto che il danno non patrimoniale lamentato dall’Arch. G. sia “in re ipsa” e per aver erroneamente concesso ed applicato un risarcimento non dovuto perché l’Arch. G. non ha mai né allegato né dedotto né provato di avere mai concretamente subito un danno risarcibile erroneità della sentenza per aver ritenuto sussistente un danno in assenza dei necessari presupposti tanto soggettivi che oggettivi.
Erroneità della sentenza nella parte in cui il primo giudice ha erroneamente applicato le tabelle dell’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano in quanto queste ultime non sono pertinenti né applicabili alla fattispecie in esame e riguardano il ben diverso caso di diffamazione a mezzo stampa.
Erroneità della sentenza per aver ritenuto sussistente e liquidato erroneamente il risarcimento a favore dell’Arch. G..
L’appellato, sig. G., eccepita preliminarmente l’inammissibilità dell’appello ex art. 342 c.p.c., domandava il rigetto dei motivi di appello, in quanto infondati in fatto ed in diritto.
Precisate le conclusioni, concessi i termini per il deposito di comparse conclusionali e repliche, la causa veniva decisa nella camera di consiglio del 21.12.2022.
MOTIVI DELLA DECISIONE
In estrema sintesi, con riferimento al presente appello, la Corte è chiamata ad esprimersi sulla seguente questione: errata applicazione di norme di diritto e disapplicazione di principi giurisprudenziali consolidati sotto il profilo dell’an della responsabilità del sig. G..
Più precisamente l’appellante contesta la sentenza nella parte in cui:
1. Erroneamente individuava profili fondanti le fattispecie di ingiuria e diffamazione, non considerando le eccezioni (diritto alla legittima critica; diritto alla giustificazione) sollevate dall’allora convenuto.
2. Erroneamente mancava di considerare l’interruzione del nesso di causa tra condotta del sig. G. e danno subito dal sig. G..
3. Erroneamente non rilevava la sostanziale mancata prova del danno asseritamente subito da controparte, applicando criteri impropri per la sua determinazione.
Con riferimento al primo profilo
L’appellante sostiene non sussistano i presupposti fondanti le fattispecie di ingiuria e diffamazione, rientrando le espressioni utilizzate nei confronti del sig. G. nella sfera del diritto di critica, dovendo essere, inoltre, considerate con minor rigore, tenuto conto del contesto condominiale estremamente polemico in cui esse venivano pronunciate. Le missive inviate al sig. G. avevano ad oggetto contestazioni tecniche, volendo il sig. G. riferirsi all’incompetenza dell’amministratore, rimanendo invece esclusa qualsiasi gratuita aggressione morale alla persona dell’amministratore.
L’appellante ribadisce, citando giurisprudenza sul punto, come non sia possibile estrapolare dalle frasi pronunciate il solo termine oggettivamente offensivo, negando l’esercizio del diritto di critica ed omettendo di contestualizzare l’espressione adoperata.
Parimenti, richiama il mutato atteggiamento circa l’offensività di alcune parole da parte dei consociati ed il principio di insostituibilità dell’espressione utilizzata.
Inoltre, esclude la sussistenza dei presupposti di fatto con riferimento al profilo della diffamazione, richiamando la circostanza per cui sia il personale di P.I. sia il personale di uno studio legale, per la natura del proprio incarico, sarebbero vincolati al silenzio e alla riservatezza relativamente alle informazioni acquisite nello svolgimento delle proprie mansioni.
Proseguendo, l’appellante richiama l’istituto della “cause di giustificazione” nel nostro ordinamento, argomentando genericamente.
L’appellante contesta la decisione del Tribunale, con riferimento al diritto della parte alla prova delle cause di giustificazione, nella parte in cui né esaminava, né accoglieva le richieste istruttorie del sig. G.. Tali istanze avevano come speciale focus la domanda riconvenzionale – rigettata in primo grado e quivi non ripresentata – avente ad oggetto l’asserito inadempimento dell’amministratore, unica causa fondante la “reazione” del sig. G..
Contesta il Tribunale laddove quest’ultimo riteneva che “non esiste quel parametro di insostituibilità dell’espressione rispetto al fatto che si intende criticare. Parte convenuta avrebbe potuto concentrarsi con altri vocaboli sulla sfera di competenza tecnica dell’amministratore anziché esorbitare in un giudizio sulla sua intelligenza”.
Sostiene come non vi fosse possibilità di sostituire il vocabolo “idiota”, posto che altri vocaboli di significato affine non avrebbero portato alle medesime conseguenze.
A questo punto l’appellante fa riferimento al profilo della liceità della critica professionale, nell’ottica del rapporto professionista-cliente e/o soci/amministratore di società.
Con ulteriori considerazioni generalissime e non afferenti il caso concreto, con riferimento a un “sintetico excursus giurisprudenziale di legittimità sul diritto all’onore ed alla reputazione” (pag. 33 atto di citazione), l’appellante ribadisce quanto già detto sull’utilizzo del termine “idiota”, invocando una minor severità di giudizio tenuto conto del contesto condominiale in cui si sono svolti i fatti.
Infine, richiama l’operatività della exceptio veritatis, intesa come la possibilità di provare la verità del fatto. Inoltre, richiama il principio della provocazione.
L’appellato sottolinea preliminarmente la sostanziale inammissibilità dell’appello, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., limitandosi controparte a riproporre integralmente quanto già sostenuto in primo grado, non presentando alcun utile elemento atto a far ritenere fondate le censure mosse contro la decisione del Giudice di prime cure.
Sottolinea, inoltre, la totale sproporzione esistente tra l’atto di impugnazione (139 pagine) e la sentenza impugnata, in totale spregio di esigenze di sinteticità, giusto processo e ragionevole durata del giudizio, ponendo anche tale circostanza a fondamento della predetta eccezione di inammissibilità.
Eccepisce, in subordine, l’eccezione di infondatezza, ex art. 348 bis c.p.c.
Nel merito, richiamati e fatti propri i principali passaggi logici della sentenza di primo grado, sottolinea l’assenza sostanziale di validi profili di impugnazione. Ripropone integralmente le difese svolte in primo grado.
Ribadisce come correttamente il Giudice di prime cure limitasse la sfera della condotta illecita di controparte all’invio delle due missive, escludendo al contrario, le condotte tenute da entrambe le parti durante l’assemblea condominiale del 05.07.2016.
Sottolinea come, diversamente da quanto sostenuto da controparte, le condotte censurate dal Giudice di prime cure non sarebbero circoscritte al solo utilizzo dell’insulto “idiota” ma si estenderebbero a tutte le ulteriori espressioni attinenti alla sfera etica dell’onestà del sig. G..
Il contenuto di tali espressioni esorbiterebbe il diritto di critica, non afferendo al piano della correttezza tecnica dell’operato dell’amministratore ma arrivando a denigrarne le qualità intellettive e morali. Né può considerarsi applicabile sul punto la giurisprudenza citata da controparte, posto che nel caso in esame mancherebbe il requisito della insostituibilità delle espressioni utilizzate.
Parimenti, non avrebbe spazio alcuno l’allegata animosità del contesto condominiale, posto che le frasi offensive venivano espresse per mezzo di missive, per iscritto e al di fuori di un contesto assembleare.
Similmente, dovrebbero essere rigettati, in quanto inconferenti, i riferimenti all’istituto della provocazione ex art. 599 c.p. (irrilevante ai fini civilistici) e all’exceptio veritatis, posto che alcuna valida prova veniva fornita con riguardo alle asseritamente illecite condotte del sig. G..
LA CORTE OSSERVA quanto segue
Preliminarmente, pare utile evidenziare come – ritenendo corretta la valutazione del Giudice di prime cure sul punto – le condotte oggetto di valutazione in questa sede siano circoscritte all’invio, da parte del sig. G., di due missive, rispettivamente indirizzate al sig. G. e al suo legale.
Devono considerarsi esenti da valutazione, al contrario, (come statuito dal Tribunale) le condotte tenute da ambo le parti con riferimento all’assemblea condominiale del 05.07.2016, posto che non veniva tempestivamente allegata e provata in primo grado alcuna frase ingiuriosa pronuncia in tale sede dal sig. G. e, al contrario, dovendosi addebitare alla sola condotta dell’amministratore – che leggeva il contenuto delle missive a lui indirizzate avanti ai condomini riuniti – eventuali conseguenze negative nate in seguito a quell’evento.
Ogni riferimento svolto dalle parti a quel particolare momento sarà, pertanto, considerato superato.
Ciò premesso, la Corte osserva che:
– le “espressioni forti” oggetto del presente giudizio erano riportate rispettivamente: 1) sulla busta contenente la prima missiva indirizzata al sig. G.; 2) nel contenuto di quest’ultima; 3) nella successiva ulteriore missiva inviata al suo legale.
– la scelta cosciente di esprimere e comunicare a mezzo posta, ossia per iscritto, tali vocaboli e frasi, in un momento distante da qualsivoglia sollecitazione e/o aggressività proveniente da terzi, è circostanza sufficiente a ritenere superato qualsivoglia riferimento all’animosità e spirito polemico talvolta caratterizzanti il confronto diretto tra condomini nel contesto specifico di un’assemblea condominiale.
– Parimenti, non può ritenersi operante il profilo inerente il diritto di critica, inteso come la possibilità di esprimere, con rispetto al contesto in cui si trovi a pronunciarsi, osservazioni, giudizi e opinioni critiche di carattere tecnico, con diretto riferimento all’operato del destinatario della comunicazione.
Più precisamente, in questo senso, giova rilevare come l’apposizione dell’epiteto “emerito idiota” sulla busta contenente la prima missiva, in quanto espressione del tutto decontestualizzata – e, pertanto, gratuita – non può in alcun modo rientrare nella sfera di applicazione del “diritto alla critica”, costituendo mero insulto ai danni del destinatario.
Inoltre, con riferimento al contenuto letterale della prima missiva, appare di assoluta evidenza come il sig. G. – ben lungi dallo svolgere in quella sede critiche tecniche e puntuali con riferimento all’operato dell’amministratore – dimostri assoluta ed esclusiva solerzia nell’apostrofare con epiteti forti le imprese chiamate a svolgere alcune opere condominiali, contemporaneamente accusando il sig. G. (amministratore) di operare truffe/raggiri ai danni del condominio da lui amministrato.
L’intero contenuto della missiva è caratterizzato da estrema inconcludenza e scorrettezza dei toni, non supportati né giustificati da alcuna critica mirata e “costruttiva”, configurando i presupposti di un mero sfogo personale, più che di una legittima e meditata critica all’operato dell’amministratore.
Con riferimento alla seconda missiva, inviata non già al sig. G. ma al suo legale, in risposta a precedente comunicazione di quest’ultimo, il sig. G. se da un lato procedeva – qui sì – a svolgere precise e compiute critiche con riferimento all’operato delle imprese incaricate dei lavori (dimostrando pertanto di essere perfettamente in grado, volendolo, di dimostrare esperienza e professionalità nel contesto della propria attività imprenditoriale), dall’altro ricadeva nel medesimo errore visto in precedenza, con riferimento alle critiche mosse nei confronti dell’amministratore, apostrofato nuovamente con il già noto epiteto “emerito idiota”; accusato in sostanza di essere incompetente e di ignorare profili tecnici ed economici del proprio e dell’altrui operato.
Tale missiva, si ribadisce, non era indirizzata al sig. G., bensì espressamente al legale di quest’ultimo, per mezzo di comunicazione PEC. Ancora una volta, quindi, il sig. G. denigrava, gratuitamente, l’amministratore, con comunicazione diretta, peraltro, ad un soggetto terzo (l’Avv. Z.) che lo invitava espressamente a moderare i toni e le frasi ingiuriose e diffamanti.
– Affatto rilevante, sul punto, il riferimento svolto da parte appellante in relazione all’obbligo di segretezza e riservatezza gravante sia sul personale di P.I. sia su quello dello studio del legale del sig. G., con riferimento alle informazioni acquisite nello svolgimento delle proprie mansioni, posto che in ogni caso trattasi di soggetti terzi, estranei, venuti a conoscenza di tali espressioni poste a totale discredito di un professionista. Tale sola circostanza è di per sé sufficiente a integrare i presupposti della diffamazione, rappresentando un nocumento alla sfera personale, etica e professionale del sig. G..
– Con riferimento alla contestazione svolta contro la decisione del Tribunale, inerente il mancato accoglimento delle istanze istruttorie mirate a dimostrare l’esistenza di una “giustificazione” alle condotte del sig. G. (asseritamente poste in essere come mera reazione ad un grave inadempimento di controparte), ci si limita a rilevare che lo stesso appellante ha rinunciato, in sede di p.c., a qualsivoglia istanza sul punto.
Identico discorso vale per l’allegata “exceptio veritatis”.
Né rileva, con riferimento alla sfera della responsabilità civilistica, il riferimento all’istituto della provocazione. Sul punto, infatti, la Suprema Corte si è espressa, ritenendo che la provocazione di cui all’art. 599, comma 2, c.p. escluda la punibilità del reato di diffamazione ma non anche la natura di illecito civile del fatto, né la conseguente obbligazione risarcitoria del danno subito dal soggetto leso (Cass. civ n. 2197 del 04/02/2016).
– Del tutto provocatoria appare a questa Corte la formulazione della contestazione alla sentenza impugnata, nella parte in cui correttamente rilevava che “non esiste quel parametro di insostituibilità dell’espressione rispetto al fatto che si intende criticare.
Parte convenuta avrebbe potuto concentrarsi con altri vocaboli sulla sfera di competenza tecnica dell’amministratore anziché esorbitare in un giudizio sulla sua intelligenza”. Del tutto evidente la possibilità per il sig. G. di trovare modi più civili, professionali e puntuali per evidenziare le criticità eventualmente riscontrate nell’operato dell’amministratore. Inopportuno, quindi, in sede di impugnazione, il provocatorio riferimento di controparte a sinonimi dell’improperio utilizzato nelle missive oggetto di causa (cito: “Infatti i termini con cui l’espressione idiota poteva essere sostituita e del quale il primo giudice non dà conto, possono essere solo espressioni del genere: incompetente, incapace, ignorante, deficiente et similia”).
Tutto ciò premesso, pare opportuno a questa Corte richiamare giurisprudenza consolidata di legittimità, in tema di responsabilità civile, in ordine alla sussistenza del danno non patrimoniale, secondo cui “Poiché l’onore e la reputazione costituiscono diritti della persona costituzionalmente garantiti, la loro lesione legittima sempre la persona offesa a domandare il ristoro del danno non patrimoniale, quand’anche il fatto illecito non integri gli estremi di alcun reato” (Cass. Civ. n. 15742/2018 e Cass. n. 25257/2008) e che “L’onore e la reputazione, la quale si identifica con il senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico, costituiscono diritti della persona costituzionalmente garantiti e, pertanto, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 2043 e 2059 c.c., la loro lesione è suscettibile di risarcimento del danno non patrimoniale, a prescindere dalla circostanza che il fatto lesivo costituisca o meno reato” (Cass. n. 22190/2009).
La Corte, definitivamente decidendo, per le ragioni sopra esposte, rigetta il primo profilo oggetto di censura da parte dell’appellante.
L’appellante sostiene l’esistenza di una “ragion più liquida”, non rilevata dal Giudice di prime cure, idonea di per sé sola a far rigettare la pretesa risarcitoria dell’attore in primo grado. Individua tale questione nell’interruzione del nesso di causalità tra fatto (condotta del sig. G.) e danno, asseritamente verificatasi nel momento in cui il sig. G., fino a quel momento unico soggetto a conoscenza del contenuto della busta e delle missive a lui inviate, in modo totalmente imprevisto ed imprevedibile, decideva di renderne noti i toni a soggetti terzi, attraverso la lettura delle predette missive in sede di assemblea condominiale. In tal senso, sostiene parte appellante, sarebbe stata proprio la condotta insensata del sig. G. a realizzare il danno da quest’ultimo lamentato.
L’appellato ritiene sostanzialmente assorbito il presente profilo, tenuto conto di quanto già osservato con riferimento al precedente.
LA CORTE OSSERVA quanto segue
Il presente profilo viene integralmente superato dalla già citata circostanza per cui – come correttamente rilevato dal Giudice di prime cure – i profili di diffamazione ed ingiuria si concretizzavano con riferimento all’invio della busta riportante l’epiteto ingiurioso (si ribadisce, del tutto gratuito e assolutamente decontestualizzato), nonché attraverso le ulteriori espressioni “sopra le righe” contenute nelle due missive, una delle quali indirizzata al legale del sig. G., soggetto terzo.
A nulla valgono ulteriori osservazioni relative agli accadimenti dell’assemblea condominiale del 05.07.2016, già espunti dall’oggetto del giudizio del Tribunale.
La Corte, definitivamente decidendo, per le ragioni sopra esposte, rigetta il secondo profilo di censura.
Con riferimento al terzo profilo
L’appellante sostiene che in nessun caso si possa ritenere l’esistenza di un danno “in re ipsa”, gravando sempre sul danneggiato l’onere di allegare, dedurre e provare l’esistenza e la portata del danno per cui si domanda il risarcimento. Ribadisce, in questo senso, come il sig. G. nulla avesse provato. Di conseguenza si sarebbe dovuta rigettate la domanda risarcitoria presentata da quest’ultimo in primo grado.
Contesta, altresì, l’applicazione delle Tabelle dell’Osservatorio di Milano, posto che queste ultime fanno espresso riferimento alla più grave fattispecie della diffamazione a mezzo stampa. Sul punto sostiene che, anche nella denegata ipotesi di applicabilità delle predette tabelle, in forza dei parametri in esse contenuti, alcun danno risarcibile sarebbe stato provato da controparte, dovendosi pertanto ed in ogni caso rigettare la domanda risarcitoria presentata dal sig. G..
L’appellato ribadisce la correttezza dei parametri adottati dal Giudice di prime cure, con riferimento alla determinazione del quantum debeatur, posto che questi ultimi venivano richiamati ”nella misura in cui sono compatibili”. Ritiene risolutiva, in ogni caso, la circostanza per cui controparte non indicava criteri risarcitori alternativi.
LA CORTE OSSERVA quanto segue
Accertata la natura diffamatoria di quanto scritto più volte dall’appellante nelle due missive, al diffamato deve essere riconosciuto il risarcimento dei danni non patrimoniali nella “forma della sofferenza soggettiva causata dall’ingiusta lesione del diritto inviolabile inerente alla dignità, immagine e reputazione della persona ex artt. 2 e 3 Cost.” (Sezioni Unite, 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 27974 e 26975).
La pronuncia della Suprema Corte n. 18174/2014 ha precisato come il danno arrecato alla reputazione debba essere inteso in senso unitario senza distinguere tra “reputazione personale” e “reputazione professionale”, trovando la tutela di tale diritto il fondamento nell’art. 2 Cost. ed in particolare nel rilievo che esso attribuisce alla dignità della persona in quanto tale.
Il danno è pertanto ravvisabile – e come tale deve essere risarcito – nella diminuzione della considerazione della persona da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali quella stessa persona abbia ad interagire (cfr. Cassazione Civile, 27 aprile 2016, n. 8397).
Ai fini della liquidazione del risarcimento del danno, occorre valutare, sulla base dei principi ormai consolidati in materia (si veda Cass. S.U. n. 26972/2008) ed in applicazione di un legittimo procedimento presuntivo, la portata dell’obiettivo pregiudizio alla reputazione, personale e professionale, tenendo conto anche dell’autorevolezza, notorietà e diffusione del mezzo utilizzato (in questo caso: una busta inviata a mezzo posta e una lettera all’ avv. Z.).
Tale valutazione, in ogni caso, non potrà che essere equitativa, ex art. 1226 c.c..
In questo senso, non pare a questa Corte censurabile la decisione del Giudice di prime cure, laddove – nel tentativo di fornire criteri quanto più possibile oggettivi per la quantificazione di un danno per sua stessa natura estremamente complesso da liquidare – adottava “per quanto compatibili” i parametri dell’Osservatorio di Milano in tema di diffamazione a mezzo stampa.
Il Tribunale compiva, in sede di giudizio di prime cure, un attento bilanciamento degli elementi allegati in giudizio, arrivando in tal modo a individuare il risarcimento dovuto nel valore medio dello scaglione inferiore previsto dalle predette Tabelle (“diffamazioni di tenue gravità: danno liquidabile nell’importo da Euro 1.000,00 ad Euro 10.000,00”).
Tale valutazione pare a questa Corte del tutto condivisibile, tenuto conto dei corrispondenti parametri, qui di seguito riportati:
– limitata/assente notorietà del diffamante;
– tenuità dell’offesa considerata nel contesto fattuale di riferimento;
– minima/limitata diffusione del mezzo diffamatorio;
– minimo/limitato spazio della notizia diffamatoria;
– assente risonanza mediatica;
– intensità elemento soggettivo;
– assenza di intervento riparatorio/rettifica del convenuto.
Con riferimento ai primi cinque parametri appena enunciati emerge nella fattispecie la tenuità del danno derivante dalla condotta diffamatoria, ponendosi – al contrario – come elementi “aggravanti” gli ultimi due profili, relativi all’animus diffamandi dell’autore della condotta, alla reiterazione della stessa (invio di due distinte missive) e all’assenza di qualsivoglia intervento riparatorio/rettifica del convenuto (neppure in sede giudiziaria).
La Corte, definitivamente decidendo, per le ragioni sopra esposte, rigetta il terzo profilo di censura.
Le spese.
Le spese seguono la soccombenza dell’appellante e sono liquidate, ex D.M. n. 147 del 2022, tenuto conto del valore indeterminato della controversia, di complessità bassa, nei valori medi (esclusa la fase istruttoria).
Sussistono, altresì, i presupposti per l’applicazione dell’art. 96 c.p.c., terzo comma.
Nonostante, la chiara motivazione della sentenza del primo giudice, l’appellante ha proposto un appello (di 139 pagine) pretestuoso, formulando motivi palesemente infondati. L’appello risulta argomentato “contra” la giurisprudenza consolidata della Suprema Corte: giurisprudenza richiamata dallo stesso appellante che, peraltro, ne ha ignorato le conseguenze del tutto opposte a quanto dal medesimo prospettato.
Si stima equo liquidare un importo pari alla metà delle spese di lite, ex art. 96 c.p.c., terzo comma, a titolo risarcitorio, in favore di parte appellata.
Sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicché va disposto il versamento, da parte dell’appellante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550).
P.Q.M.
La Corte d’Appello di Milano, definitivamente pronunciando, così dispone:
– rigetta l’appello proposto da E.G. avverso la sentenza del Tribunale di Pavia, resa in data 13.01.2022 a definizione del procedimento R.G. n. 129/2021, che per
l’effetto conferma;
– condanna E.G. al pagamento delle spese processuali in favore di P.G., che si liquidano in Euro 6.946,00 oltre spese generali,
IVA e cpa;
– condanna E.G. al pagamento in favore di P.G. dell’importo di Euro 3.473,00, ex art. 96 c.p.c..
Sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicché va disposto il versamento, da parte dell’appellante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta.
Così deciso in Milano, il 21 dicembre 2022.
Depositata in Cancelleria il 4 gennaio 2023.
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