Nelle obbligazioni pecuniarie, infatti, il fenomeno inflattivo non consente un automatico adeguamento dell’ammontare del debito, né costituisce di per sé un danno risarcibile, ma può implicare – in applicazione dell’art. 1224, comma 2, c.c. – soltanto il riconoscimento in favore del creditore, oltre che degli interessi, del maggior danno che sia derivato dall’impossibilità di disporre della somma durante il periodo della mora, nei limiti in cui – tuttavia – il creditore medesimo deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre quegli effetti economici depauperativi che l’inflazione produce a carico di tutti i possessori di denaro. Il creditore di una obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l’onere di domandare il risarcimento del “maggior danno” ai sensi dell’art. 1224, comma 2, c.c. e non può limitarsi a domandare semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest’ultima una conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta e nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224, comma 2, c.c. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali, fermo restando l’onere del creditore – che domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato – di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva.
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Corte d’Appello|Napoli|Sezione 7|Civile|Sentenza|6 febbraio 2023| n. 486
Data udienza 2 febbraio 2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DI APPELLO DI NAPOLI
SEZIONE CIVILE SETTIMA
composta dai magistrati:
dott. Michele Magliulo – Presidente
dott.ssa Lucia Minauro – Consigliere
dott. Marco Marinaro – Giudice aus. rel.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile n. 3085/2013 R.G., di appello contro la sentenza n. 16/2013 depositata dal Tribunale di Napoli – Sezione distaccata di Capri – il 26 aprile 2013, che ha definito il giudizio rubricato al n. 32/2004 R.G.,
tra
(…) S.r.l., con sede in P. (N.) alla via D. C. n. 133/A (P.I. (…)) in persona del legale rappresentante C.D.R. (nato a N. il (…), c.f. (…)), rappresentata e difesa dall’avv. Fl.Di. (c.f. (…) ) presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Pozzuoli (NA) alla via (…) (P.co D’Isanto), fax n. (…), p.e.c.: (…);
appellante
e
(…) S.p.A., in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione e legale rappresentante p.t. (P.I.V.A. (…), C.F. (…)), già (…) S.p.A., rappresentata e difesa dall’avv. Ma.Ga. (c.f. (…) ) presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Napoli alla via (…), p.e.c.: (…);
appellata
nonché
(…) S.a.s., in persona del socio accomandatario (…), rappresentata e difesa in primo grado dall’avv. Gi.De. ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Aversa alla via (…);
appellata-contumace
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 22-26 aprile 2004, la (…) S.p.A (poi (…) S.p.A. con socio unico) conveniva in giudizio la società (…) S.r.l. al fine di sentir dichiarare, previo accertamento dell’inadempimento della convenuta, la risoluzione del contratto di appalto concluso tra le parti in data 18 ottobre 2002 e la condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni patrimoniali, quantificati in Euro 49.086,62 e dei danni non patrimoniali, da stimarsi in via equitativa, causati dall’illecito comportamento della società appaltatrice, il tutto maggiorato di interessi e rivalutazione e con vittoria di spese e competenze di giudizio.
A sostegno della domanda la società attrice deduceva l’esecuzione non a regola d’arte, ad opera della convenuta, dei lavori di impermeabilizzazione e di colorazione della piscina grande dell’hotel di proprietà attorea, pur a seguito di un accordo transattivo intervenuto tra le parti nel febbraio 2004 per porre rimedio a vizi riscontrati dalla committente in corso d’opera.
Costituitasi, la convenuta eccepiva l’infondatezza della domanda attorea, in parte (impermeabilizzazione della piscina) per insussistenza dei lamentati per vizi e/o difformità dell’opera, in altra parte per essere essa esonerata da ogni responsabilità, avendo comunicato preventivamente alla committente i vizi impeditivi del raggiungimento del risultato sperato.
Veniva richiesta ed ottenuta la chiamata in causa della (…) S.a.s. (ditta che aveva eseguito i lavori) che costituitasi in giudizio contestava l’ammissibilità della domanda in garanzia. Nelle more del giudizio veniva altresì espletato accertamento tecnico preventivo. Ammessi ed espletati i mezzi istruttori richiesti, veniva altresì ammessa ed espletata consulenza tecnica d’ufficio.
Con la sentenza impugnata, il tribunale in parziale accoglimento della domanda attorea condannava la convenuta (…) S.r.l. al pagamento in favore dell’attrice di Euro 7.120,77, oltre interessi al tasso legale dalla data di pubblicazione della sentenza al soddisfo; rigettava la domanda riconvenzionale proposta dalla medesima convenuta nei confronti dell’attrice e quella avanzata con la chiamata in causa di (…) S.a.s.; compensava nella misura di 1/3 le spese di lite nei rapporti tra le parti principali condannando la (…) S.r.l. alla rifusione dei residui due terzi; compensava interamente le spese di lite tra la convenuta e la terza chiamata.
Con atto di appello notificato il 5 luglio 2013, la (…) S.r.l. proponeva gravame chiedendo la riforma della sentenza di primo grado e più precisamente chiedendo l’accoglimento delle seguenti conclusioni:
“A) (…) l’appello e per l’effetto per quanto di ragione riformare l’impugnata sentenza e pertanto:
1) Modificare il II capo del PQM.
2) Correzione dell’errore materiale in cui è incorso il giudice di primo grado nella determinazione dell’importo risarcibile, in quanto ha erroneamente sommato le risultanze della bozza della CTU e quelle dell’elaborato definitivo, ove invece la (…) S.r.l. andava condannata all’una o all’altra importo non alla somma dei due.
3) Esatta determinazione della somma da liquidarsi a titolo di risarcimento dei danni per violazione degli obblighi contrattuali e pertanto dichiarare che il risarcimento dei danni spettante alla (…) S.p.A. a titolo di risarcimento dei danni è di Euro 12.506,00 oltre interessi e rivalutazione monetaria o subordinatamente Euro 20.791,68 e pertanto così definitivamente provvedere:
B) In parziale accoglimento della domanda attorea, in totale accoglimento della domanda riconvenzionale , e compensando fra le parti i rispettivi crediti condannare la (…) S.p.A. al pagamento in favore della (…) S.r.l. della somma di Euro 34.339,60.
C) In via subordinata condannare la (…) S.p.A. al pagamento nei confronti della (…) S.r.l. della somma di Euro 23.815,75.
D) Vittoria di spese, diritti ed onorari del doppio grado di giudizio”.
Si costituiva la (…) S.p.A. eccependo la improcedibilità e la inammissibilità dell’appello e chiedendone in ogni caso il rigetto per infondatezza in fatto ed in diritto, con la conseguente conferma della sentenza di primo grado.
(…) S.a.s. pur ritualmente evocata nel giudizio di appello con atto notificato il 5-6 luglio 2004.
All’esito della trattazione scritta dell’udienza del 23 settembre 2022, la Corte si riservava la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- La parte appellante affida la sua impugnazione a tre motivi di gravame mirando alla riforma parziale della sentenza di primo grado.
2.- In via preliminare, occorre esaminare l’eccezione proposta dalla parte appellata volta ad ottenere una pronuncia in rito sull’impugnazione per violazione dell’art. 342 c.p.c. per la mancanza di specificità dei motivi di appello.
Sulla questione interpretativa della norma richiamata la S.C. ha espresso il principio in base al quale gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, devono essere interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni ad-dotte dal primo giudice. Resta tuttavia escluso, in considerazione della per-manente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado (Cass. civ. Sez. Unite, 16/11/2017, n. 27199).
La Corte ritiene pertanto che l’atto di appello in esame assolva a quanto prescritto dall’art. 342 c.p.c. nella formulazione attualmente in vigore e già vigente alla data di notifica dello stesso (la riforma attuata con il D.L. n. 83 del 2012 si applica infatti agli appelli proposti successivamente alla data dell’11 settembre 2012). Infatti, l’appello appare senza dubbio ammissibile contenendo sia il profilo volitivo (indicazione delle parti che si intendono impugnare), sia quello argomentativo (con indicazione delle modifiche che dovrebbero essere apportate al provvedimento con riguardo alla ricostruzione del fatto), ma anche il profilo censorio (vi è l’indicazione del perché assume sia stata violata la legge) ed infine del profilo di causalità (con la giustificazione del rapporto causa ed effetto fra la violazione dedotta e l’esito della lite.
La censura proposta dalla parte appellata circa l’inammissibilità dell’atto di gravame ex art. 342 c.p.c. è dunque infondata e deve essere disattesa.
3.- Passando al merito, con il primo motivo (“Netto contrasto tra pqm e corpo della sentenza”) l’appellante lamenta il mancato accoglimento della domanda riconvenzionale proposta da (…) S.r.l. ed avente ad oggetto il pagamento della somma di Euro 35.000,00, cifra mai saldata da (…) S.p.A. quale corrispettivo del contratto di appalto e della successiva transazione intercorsa tra le parti.
3.1.- Più precisamente la (…) S.r.l. evidenzia che nel secondo punto del dispositivo, nel quale viene rigettata la domanda riconvenzionale proposta in prime cure, sarebbe in netto contrasto con la parte motiva della sentenza, laddove alla pagina 11 rigo 10 testualmente il tribunale afferma: “Premesso, allora, che il saldo del corrispettivo ancora dovuto dalla committente è pari ad Euro 35.247,84, somma non specificamente contestata, nel suo ammontare, da parte attrice, il predetto importo, quale credito oggetto della domanda riconvenzionale avanzata dalla convenuta, può essere portato in compensazione con l’obbligo risarcitorio posto a carico di quest’ultima (complessivi Euro 42.368,61 già comprensivo di accessori di legge), con un residuo credito in favore di parte attrice di Euro 7.120,77”.
In tal senso, secondo la prospettazione dell’impugnazione, il primo giudice avrebbe sostanzialmente accolto integralmente la spiegata domanda riconvenzionale il cui oggetto era solo ed esclusivamente il pagamento della somma di Euro 35.247,84 oltre interessi e rivalutazione monetaria, portando la su indicata somma in compensazione con l’obbligo risarcitorio.
3.2.- Nei confronti poi della (…) S.a.s. non sarebbe stata avanzata una domanda riconvenzionale, bensì una chiamata in causa per manleva.
Anche in questo caso l’appellante si duole di quanto indicato nel dispositivo in maniera non corretta chiedendone la riforma: “Rigetta la domanda riconvenzionale avanzata dalla convenuta nei confronti dell’attrice e quella avanzata con la chiamata in causa di (…) sas”.
3.3.- Con riguardo alla posizione della (…) S.a.s. appare utile subito chiarire che il dispositivo della sentenza di primo grado è formulato in modo corretto in quanto si limita a rigettare la domanda (“… e quella”) avanzata con la chiamata in causa di (…) S.a.s.
D’altronde, la domanda avanzata con la chiamata in causa è proprio quella di manleva cui fa riferimento l’odierna appellante. Per cui la censura è priva di pregio e non può essere accolta.
3.4.- Con riguardo poi al dedotto errore che sussisterebbe tra motivazione e dispositivo circa la domanda riconvenzionale occorre preliminarmente rilevare che non costituisce oggetto di impugnazione l’accertato inadempimento della (…) S.r.l. (e tantomeno il rigetto della domanda di risoluzione contrattuale) dovendosi perciò ritenere formato il giudicato.
3.4.1.- Secondo la tesi dell’appello il giudice avrebbe correttamente motivato sostanzialmente accogliendo la domanda riconvenzionale relativa al pagamento del corrispettivo pattuito nell’appalto (mediante compensazione parziale con l’importo del danno quantificato), ma avrebbe poi errato nel dispositivo dichiarando il rigetto della stessa.
3.4.2.- Nella difesa dell’appellata invece si sostiene la correttezza sia della motivazione sia del dispositivo. Infatti, il tribunale avrebbe correttamente decurtato dall’importo dovuto a titolo risarcitorio la somma “mai pagata e, alla luce di fatti, nemmeno più dovuta”.
3.4.3.- Invero, il primo giudice ha rigettato la domanda di risoluzione contrattuale ritenendo insussistenti i presupposti di cui art. 1668, comma 2, c.c. e precisando poi quanto segue:
“Esclusa, dunque, la ricorrenza dei presupposti per la risoluzione contrattuale, la convenuta va, nondimeno, condannata al risarcimento del danno da illecito contrattale, attesa la riconducibilità causale dei danni derivati all’inadempimento di obblighi connessi alla esecuzione contrattuale, i quali le imponevano di adottare tutte le misure idonee ad evitare che le attività di realizzazione dell’opera causassero danni al bene in oggetto, trattandosi tra l’altro di soggetto professionalmente dedito alla effettuazione di opere connesse all’edilizia, per il quale era facilmente prevedibile che, se non avesse adottato tali cautele, avrebbe potuto determinare i danni poi in concreto verificatisi” (pag. 9 della sentenza).
Pertanto, il tribunale ha correttamente decurtato dall’importo liquidato a titolo risarcitorio (in favore della odierna appellata) quello dovuto a titolo di corrispettivo (in favore della odierna appellante) richiesto con la domanda riconvenzionale. Peraltro, su tale punto non vi è contrasto tra le parti che riconoscono entrambe la correttezza della motivazione e dell’operazione effettuata in compensazione tra i due importi.
Quanto al dispositivo, effettivamente lo stesso deve essere corretto in quanto risultando dovuta la somma richiesta con la domanda riconvenzionale (considerato il rigetto della domanda risolutoria) la stessa deve ritenersi essere stata accolta.
4. – Con il secondo motivo di impugnazione (esposto nel capo II e nel capo III dell’atto di appello), l’appellante contesta la quantificazione dei danni effettuata dal tribunale cui imputa l’errore di aver conteggiato due volte le medesime lavorazioni, sommando impropriamente gli importi riconosciuti dal c.t.u. in sede di bozza e poi nella versione definitiva dell’elaborato peritale. In ogni caso, il tribunale avrebbe erroneamente calcolato l’importo da risarcire sulla base della c.t.u. cui pure invece fa espresso riferimento.
4.1.- Il giudice di prime cure ha ritenuto risarcibile il costo per “il ripristino del piano di sottofondo del rivestimento nonché la demolizione dello strato superficiale” e secondo quanto indicato in sentenza tali costi ammontano, “secondo la documentazione contabile prodotta in atti, stimata congrua dal CTU … rispettivamente ad Euro 20.791,68 (cfr. risultanze della bozza, poi incongruamente non ribadite nella stesura definitiva dell’elaborato peritale in forza delle erronee valutazioni giuridiche compiute dal CTU) ed ad Euro 12.507,00” (pag. 9 e 10 della sentenza).
4.2.- Secondo la tesi dell’appello, dunque, il giudice di prime cure avrebbe erroneamente sommato le risultanze della bozza dell’elaborato peritale e della c.t.u. definitiva ritenendo il ripristino del piano di sottofondo del rivestimento e la demolizione dello strato superficiale due distinti lavori.
Si tratterebbe quindi di “un palese errore materiale” avendo sommato i due diversi importi che quantificano i medesimi lavori, in quanto l’importo liquidato in sentenza non sarebbe altrimenti spiegabile richiamando espressamente le risultanze della c.t.u.
4.3. – D’altro canto invece la parte appellata ritiene che il tribunale avrebbe correttamente operato partendo dalla motivazione ove si precisa che: “Le conseguenze dannose di natura patrimoniale, di cui l’attrice ha chiesto di essere reintegrata, attengono ai costi sostenuti, con la diversa impresa (…) s.p.a., per il ripristino del piano di sottofondo del rivestimento nonché per la demolizione dello strato superficiale del pigmento colorato a mezzo di sabbiatura” (pag. 9 della sentenza).
Si tratterebbe, secondo tale prospettiva, di due interventi, cronologicamente e logicamente distinti, ed entrambi necessari al conseguimento del risultato finale.
4.4. – La contestazione sollevata dalla parte appellante – come per il primo motivo di impugnazione – appare incentrata su un errore (materiale) nel quale sarebbe incorso il giudice di primo grado. In sostanza, pur volendo riconoscere il danno nella misura quantificata dal c.t.u. avrebbe poi errato sommando due importi che rappresentavano la stessa voce di danno calcolata diversamente in due fasi diverse dell’attività peritale. In ogni caso, il tribunale avrebbe errato nel determinare il quantum sulla base della relazione del c.t.u. cui pure invece espressamente si riferisce in motivazione.
4.4.1. – In primo luogo, occorre precisare che il fascicolo di primo grado non risulta acquisito agli atti del processo d’appello pur essendone stata richiesta l’acquisizione.
Tuttavia, la parte appellante nel costituirsi in questa sede il 15 luglio 2013 ha depositato copia della relazione tecnica d’ufficio svolta dal c.t.u. arch. Ga.Pa. depositata il 20 settembre 2010 (doc. 4) e la relazione contenente i chiarimenti resi dal medesimo tecnico depositata il 28 settembre 2011 (doc. 5). In assenza di ogni contestazione della parte appellata la documentazione in questione può essere posta a base della valutazione del Collegio risultando del tutto pacifica tra le parti la conformità della stessa rispetto a quella originale.
4.4.2.- Effettivamente il conteggio proposto dal c.t.u. nella relazione e nei successivi chiarimenti non brilla per chiarezza e può aver indotto in errore nella determinazione dell’importo stimato secondo quanto stabilito dal giudice di primo grado che, come si è già rilevato, nella valutazione circa l’inadempimento non è oggetto di gravame.
Ad avviso del Collegio il c.t.u. in sede di chiarimenti effettivamente esegue un diverso computo per dare risposta al quesito n. 3 giungendo ad una diversa conclusione rispetto alla relazione e, perciò, ad un diverso importo totale. E ciò sia perché redige il computo “a misura” e non “a corpo”, sia perché decurta la voce delle “rasature” sulla base di errate valutazioni di rilievo giuridico (in quanto tale lavoro sarebbe stato già appaltato e preventivato dalla (…) S.p.A., circostanza del tutto ininfluente ai fini del computo), sia perché applica un incremento del 65% trattandosi di lavori dalle particolari caratteristiche da svolgersi sull’Isola di Capri (pag. 8 della relazione contenente i chiarimenti del c.t.u.).
Alla luce di tali modifiche il c.t.u. quantifica l’importo totale in Euro 12.507,00 anziché in Euro 20.791,68.
Tuttavia, alla luce di quanto disposto dal tribunale e non oggetto di impugnazione, occorre quantificare il risarcimento sulla base di un conteggio che includa anche la voce di lavori espunta in sede di chiarimenti dal c.t.u. (pari ad Euro 6.500,00) e che consideri anche l’incremento dei costi del 65% “per tenere conto delle particolari caratteristiche dell’Isola di Capri” (pag. 7 rel. chiarimenti c.t.u.).
Per cui se è vero che il primo giudice ha errato nel sommare i due importi è pur vero che la somma ritenuta congrua dal tribunale e che anche questo Collegio ritiene congrua è quella indicata nella relazione del c.t.u. del 20 settembre 2010 pari ad Euro 17.326,40 (si tratta della somma di Euro 20.791,68 decurtata del 20% di utile di impresa dovendosi invece più correttamente applicare l’aumento del 65% sulla somma finale che si riterrà dovuta).
All’importo indicato dal c.t.u. occorre sommare quelli dedotti dall’appellata e che erroneamente il c.t.u. non ha conteggiato e che attengono al montaggio e smontaggio di una struttura di copertura per proteggere la posa in opera da quantificare in Euro 4.870,00 come indicata in fattura dalla ditta (…) S.n.c. (fattura n. (…) del 14 gennaio 2005).
L’importo totale di Euro 22.196,40 (Euro 17.326,40 + Euro 4.870,00) deve essere aumentato del 65% (pari ad Euro 14.427,66) per un totale di Euro 36.624,06.
Tale importo è più elevato rispetto a quello riconosciuto dal tribunale che è parti ad Euro 35.529,69 e che in assenza di appello da parte della (…) S.p.A. deve quindi essere mantenuto ferma nella determinazione anche in questo questa sede.
Per cui sia pur con una diversa motivazione la determinazione del tribunale deve essere confermata.
5.- Con il terzo ed ultimo motivo di impugnazione (capo IV dell’atto di appello), la società appellante lamenta l’erroneità del calcolo degli interessi e della rivalutazione monetaria per quanto attiene alla somma alla stessa spettante.
5.1.- Sul punto si afferma infatti che mentre il tribunale correttamente rivaluta la somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno considerandolo un debito di valore (dal deposito dell’elaborato peritale al deposito della sentenza) per poi devalutarla e sulla somma devalutata riconoscere gli interessi da lucro cessante, non riconosce alcun interesse e rivalutazione monetaria alla somma dovuta dalla (…) S.p.A. alla (…) S.r.l. sul corrispettivo dovuto.
Pur essendo quest’ultimo un debito di valuta e non di valore afferma che nel caso di ritardato pagamento di un obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224 comma 2, c.c. può ritenersi presunto in base alla notoria circostanza della perdita di potere di acquisto del denaro, con l’unica sostanziale differenza che nel mentre nel debito di valore la svalutazione monetaria e gli interessi possono essere riconosciuti anche d’ufficio, nel debito di valuta devono essere espressamente richiesti.
Il primo giudice invece calcola in sede di compensazione la somma di Euro 35.247,84 (come portata da fatture del 03.04.2004), senza riconoscere alla odierna appellante gli interessi e la rivalutazione dovuti in virtù del ritardato pagamento come espressamente richiesti e senza dare al riguardo alcuna motivazione.
5.2.- Dall’esame degli atti di primo grado, effettivamente la odierna appellante ha richiesto oltre all’importo pattuito per i lavori anche la generica liquidazione di interessi e rivalutazione monetaria.
5.3. – L’originaria prestazione pecuniaria del pagamento del corrispettivo ha evidentemente natura di debito di valuta e, come tale, non è soggetto a rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior danno – da allegarsi e provarsi dal creditore – rispetto a quello soddisfatto dagli interessi legali, ai sensi dell’art. 1224 c.c.
Nelle obbligazioni pecuniarie, infatti, il fenomeno inflattivo non consente un automatico adeguamento dell’ammontare del debito, né costituisce di per sé un danno risarcibile, ma può implicare – in applicazione dell’art. 1224, comma 2, c.c. – soltanto il riconoscimento in favore del creditore, oltre che degli interessi, del maggior danno che sia derivato dall’impossibilità di disporre della somma durante il periodo della mora, nei limiti in cui – tuttavia – il creditore medesimo deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre quegli effetti economici depauperativi che l’inflazione produce a carico di tutti i possessori di denaro (Cass. civ., Sez. III, sent. n. 255 del 11/01/2006).
Sul punto, le Sezioni Unite hanno avuto modo di precisare che il creditore di una obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l’onere di domandare il risarcimento del “maggior danno” ai sensi dell’art. 1224, comma 2, c.c. e non può limitarsi a domandare semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest’ultima una conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta (Cass., Sez. Un., sent. n. 5743 del 23/03/2015); e che, nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224, comma 2, c.c. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali, fermo restando l’onere del creditore – che domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato – di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva (Cass., Sez. Un., sent. n. 19499 del 16/07/2008; nello stesso senso, Cass. civ. Sez. II, sent., 05/11/2015, n. 22664).
5.4.- Nel caso, di specie, con la comparsa di costituzione in primo grado ed anche successivamente, l’odierna appellante non ha presentato alcuna specifica deduzione o allegazione utile a rilevare sia pur in via presuntiva il maggior danno. Per cui il terzo motivo di appello è solo in parte fondato in quanto devono riconoscersi sull’importo di Euro 35.247,84 soltanto gli interessi legali dalla data del 24 giugno 2004 (data del deposito della comparsa di costituzione contenente la domanda riconvenzionale) sino al 18 febbraio 2013 (data della sentenza di primo grado).
Pertanto, gli interessi maturati ammontano ad Euro 7.103,17, risultando dovuta alla parte appellante la somma complessiva di Euro 42.351,01.
5.5.- Resta fermo l’importo calcolato per il risarcimento del danno dal giudice di primo grado con interessi e rivalutazione calcolati sino alla data della sentenza di primo grado per un importo complessivo di Euro 42.368,61 (non oggetto di impugnazione per quanto attiene alle modalità del computo degli accessori).
5.6.- La sentenza impugnata deve essere dunque riformata parzialmente nella parte in cui non riconosce nel computo del dovuto in favore dell’appellante l’importo maturato degli interessi legali al fine del corretto computo della compensazione disposta ai sensi dell’art. 1243, comma 2, c.c.
Infatti, gli effetti della compensazione giudiziale, a differenza di quella legale, non retroagiscono al momento della coesistenza dei due crediti, ma si verificano ex nunc, nel momento in cui viene pronunciata la sentenza che la dichiari (Cass. civ., 21/02/1985, n. 1536).
Per cui alla data della sentenza di primo grado (18 febbraio 2013) risultavano dovute reciprocamente i seguenti importi che devono essere compensati parzialmente: Euro 42.368,61 (somma dovuta da (…) S.r.l. in favore di (…) S.p.A.) e Euro 42.351,01 (somma dovuta da (…) S.p.A. in favore di (…) S.r.l.).
Pertanto, residua quale importo dovuto dalla (…) S.r.l. in favore della (…) S.p.A. l’importo di Euro 17,60.
6.- Pertanto, all’esito dell’esame dei motivi proposti con il gravame, l’appello risulta parzialmente fondato e domanda principale e quella riconvenzionale meritano di essere accolte nei limiti di cui in motivazione.
6.1. – Con la parziale riforma della sentenza impugnata la Corte è tenuta a procedere (d’ufficio), quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali, il cui onere va attribuito e ripartito tenendo presente l’esito complessivo della lite poiché la valutazione della soccombenza opera, ai fini della liquidazione delle spese, in base ad un criterio unitario e globale, sicché violerebbe il principio di cui all’art. 91 c.p.c., il giudice di merito che ritenesse la parte soccombente in un grado di giudizio e, invece, vincitrice in un altro grado (Cass. 28 settembre 2015, n. 19122; Cass. n. 6259/2014; in senso conforme: Cass. n. 23226/2013, Cass. n. 18837/2010, Cass. n. 15483/2008).
6.2.- Tuttavia, occorre rilevare nel caso di specie una situazione di parziale reciproca soccombenza delle parti.
D’altronde la S.C. ha precisato che la nozione di soccombenza è unica dovendosi ammettere che anche in caso di solo parziale accoglimento dell’unica domanda proposta dall’attore si verifichi una situazione di parziale soccombenza reciproca delle parti (Cass. civ. Sez. III, Sent., 22/02/2016, n. 3438).
Si deve infatti accogliere il principio di diritto secondo cui “la nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali (art. 92, comma 2, c.p.c.), sottende – anche in relazione al principio di causalità – una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti ovvero anche l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri ovvero quando la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo” (Cass., sez. 3, ord. 21 ottobre 2009 n. 22381; in senso conforme, successivamente: Cass., sez. 6-3, 23 gennaio 2012 n. 901; sez. 2, 23 settembre 2013 n. 21684; cfr. anche Cass., sez. 3, 10 novembre 2015 n. 22871, che richiama espressamente tali precedenti; il principio risulta già affermato, in precedenza, da Cass., sez. 1, 26 maggio 1976 n. 1906; da ultima, Cass. civ. Sez. 3, Sent., 22 febbraio 2016, n. 3438).
La pronuncia cui il Collegio intende conformarsi, invero, pur ribadendo che l’onere delle spese giudiziali va regolamentato anche in ragione del c.d. principio di causalità (per cui chi è stato costretto ad agire fondatamente in giudizio contro altro soggetto non può essere condannato a rimborsare a quest’ultimo le spese sostenute, neanche in parte), precisa che non può comunque negarsi, in caso di parziale accoglimento dell’unica domanda proposta (come in caso di accoglimento di solo alcune delle domande proposte dall’attore), che sussista parziale soccombenza reciproca delle parti.
Ciò per la semplice ma insuperabile ragione che, in caso contrario, l’attore, in quanto non soccombente, non potrebbe essere neanche considerato legittimato ad impugnare la pronunzia che abbia accolto la sua domanda solo in parte (Cass. civ. Sez. III, Sent., 22/02/2016, n. 3438; nello stesso senso, App. Napoli, I sez. civ. bis, sent. n. 1269/2017).
Pertanto, là dove sia disposta la compensazione parziale delle spese di lite, è la parte che abbia dato causa in misura prevalente agli oneri processuali, e alla quale quindi questi siano in maggior misura imputabili, quella che può essere condannata al pagamento di tale corrispondente maggior misura.
Ed al fine di individuare la parte alla quale siano imputabili in misura prevalente gli oneri processuali, il giudice di merito deve effettuare una valutazione discrezionale, sebbene non arbitraria ma fondata sul criterio costituito dal principio di causalità, il quale si specifica nell’imputare idealmente a ciascuna parte gli oneri processuali causati all’altra per avere resistito a pretese fondate ovvero per avere avanzato pretese infondate, e nell’operare una ideale compensazione tra essi (con la precisazione che, in tale ideale compensazione, alla parte che agisce vanno riconosciuti per intero gli oneri necessari per la proposizione delle pretese fondate, ridotti in ragione della maggior quota differenziale degli oneri necessari alla controparte per resistere anche alle pretese infondate), e ciò sempre che non sussistano particolari motivi (da esplicitare in motivazione) tali da giustificare la integrale compensazione, o comunque una modifica del carico delle spese (sotto il profilo della esclusione della ripetibilità di una quota di esse in favore della parte pur vittoriosa) in base alle circostanze di cui è possibile legittimamente tener conto (Cass. civ. Sez. III, Sent., 22/02/2016, n. 3438).
6.3. – Ne consegue l’accoglimento parziale dell’appello con la riforma delle spese di lite con l’applicazione dei princìpi di cui agli artt. 91 e 92 c.p.c., nel loro testo temporalmente vigente.
In conclusione, la Corte ritiene di dover compensare integralmente le spese di lite di primo e di secondo grado, fatta eccezione per le spese di c.t.u. che restano interamente a carico della (…) S.r.l. per aver dato origine al contenzioso a causa del suo accertato inadempimento.
6.4.- Nulla può disporsi invece in ordine alle spese nei confronti della (…) S.a.s. rimasta contumace in questa sede poiché la condanna alle spese processuali si fonda sull’esigenza di evitare una diminuzione patrimoniale alla parte che abbia dovuto svolgere un’attività processuale per ottenere il riconoscimento e l’attuazione di un suo diritto; pertanto, la stessa non può essere pronunciata in favore del contumace vittorioso che non abbia espletato alcuna attività processuale, per cui abbia sopportato spese delle quali debba essere rimborsato (Cass. civ. Sez. lavoro, 13/06/2014, n. 13491).
P.Q.M.
La Corte di Appello di Napoli, definitivamente pronunciando sull’appello proposto dalla (…) S.r.l. (iscritto al n. 3085/2013 R.G.) avverso la sentenza n. 16/2013 del Tribunale di Napoli – Sezione distaccata di Capri nei confronti della (…) S.p.A. e della (…) S.a.s., con atto notificato il 5 luglio 2013, così provvede:
a) accoglie parzialmente l’appello e per l’effetto in riforma della sentenza impugnata dichiara fondata la domanda riconvenzionale proposta dalla (…) S.r.l.;
b) inoltre, per l’effetto in accoglimento parziale della domanda principale proposta dalla (…) S.p.A. condanna la P. S.r.l. al pagamento in suo favore dell’importo di Euro 17,60, oltre agli interessi al tasso legale con decorrenza dal 18 febbraio 2013 al completo soddisfo;
c) compensa interamente le spese di lite di entrambi i gradi del processo tra la (…) S.r.l. e la (…) S.p.A.;
d) nulla per le spese del grado di appello nei confronti della (…) S.a.s..
Così deciso in Napoli il 2 febbraio 2023.
Depositata in Cancelleria il 6 febbraio 2023.
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