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In particolare, le operazioni dolose di cui all’articolo 223, comma 2, n. 2, L. Fall., attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedelta’ ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria della impresa e postulano una modalita’ di pregiudizio patrimoniale discendente non gia’ direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensi’ da un fatto di maggiore complessita’ strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralita’ di atti coordinati all’esito divisato.
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Corte di Cassazione, Sezione 5 penale Sentenza 10 gennaio 2018, n. 633
Integrale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUNO Paolo Antonio – Presidente
Dott. MAZZITELLI Caterina – Consigliere
Dott. SCOTTI Umberto L – rel. Consigliere
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere
Dott. MOROSINI Elisabetta Mar – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
(OMISSIS), nato il (OMISSIS);
(OMISSIS), nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 10/10/2016 della CORTE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI SCOTTI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. MIGNOLO Olga, che ha concluso per l’inammissibilita’.
udito il difensore avv. (OMISSIS), del Foro di Milano, che si e’ riportato al ricorso e ne chiede l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 10/10/2016 la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza del 7/11/2012 del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano, emessa all’esito di giudizio abbreviato e appellata dagli imputati, ha assolto (OMISSIS) e (OMISSIS) dall’imputazione di bancarotta fraudolenta documentale di cui al capo 2) e ha rideterminato la pena loro inflitta in anni 2 e mesi 8 di reclusione, revocando l’interdizione dai pubblici uffici e confermando nel resto la sentenza impugnata.
E’ stata cosi’ confermata la condanna emessa in primo grado nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS) per il reato di cagionato fallimento mediante operazioni dolose di cui al capo 1) di imputazione ex articolo 110 c.p., articoli 223, 216 e 219 L.F. nelle rispettive vesti (OMISSIS) di presidente del consiglio di amministrazione dal 14/12/2000 al 22/10/2001 e (OMISSIS) di consigliere di amministrazione dal 14/12/2000 al 22/10/2001, di presidente del consiglio di amministrazione dal 22/10/2001 al 27/1/2003 e di amministratore unico fino al 8/4/2004.
I due imputati erano accusati di aver cagionato il fallimento di (OMISSIS) s.r.l., dichiarato in data (OMISSIS), omettendo sistematicamente, sin dal 1998, il pagamento di tributi e oneri previdenziali, facendo maturare un debito di Euro 3.046.357,88= nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS) per omesso versamento di imposte dirette, IVA e oneri previdenziali.
2. Ha proposto ricorso il difensore di fiducia degli imputati, avv. (OMISSIS), svolgendo tre motivi.
2.1. Con il primo motivo proposto ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) la ricorrente denuncia violazione di legge in relazione all’articolo 223, comma 2, L.F. e lamenta erronea qualificazione giuridica del fatto, nonche’ vizio di motivazione.
La ricorrente puntualizza che agli imputati era contestato il reato di bancarotta fraudolenta impropria per aver con operazioni dolose cagionato il fallimento e non gia’ quello di aver dolosamente cagionato il fallimento.
A prescindere dall’elemento soggettivo, era quindi necessaria la sussistenza del nesso causale fra le condotte e il fallimento, considerato come evento naturalistico.
Nelle sentenze rese nel procedimento parallelo a carico dei correi (OMISSIS) e altro, con le sentenze del G.U.P. di Milano del 7/2/2013 e della Corte di appello di Milano del 5/2/2014 era stato ritenuto che gli imputati si fossero mossi al fine di “perpetrare” l’attivita’ della societa’ e non gia’ quella di cagionarne il fallimento, che anzi si voleva evitare, e che mancasse una prova rigorosa del nesso causale fra operativita’ e dissesto, gia’ risalente al 1998, e a cui si era posto rimedio con l’anomala modalita’ di finanziamento che aveva aggravato la crisi.
L’articolo 223, comma 2 L.F. non era configurabile posto che la societa’ versava gia’ in stato di obiettivo dissesto fin dal 1998, cui avrebbe dovuto seguire il fallimento, procrastinato e aggravato per effetto delle operazioni di elusione degli obblighi fiscali per rifinanziarsi; era piuttosto configurabile il reato di bancarotta semplice impropria societaria di cui all’articolo 224, comma 2, L. Fall., a cui sarebbe conseguita la dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
2.2. Con il secondo motivo proposto ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) la ricorrente denuncia violazione di legge in relazione al passaggio in giudicato della sentenza 13/445 del 7/2/2013, resa nei confronti dei concorrenti nel reato giudicati separatamente, con la configurazione del meno grave reato di cui all’articolo 224, comma 2, L.F. e alla mancata valutazione dell’effetto estensivo invocato con i motivi aggiunti del 14/5/2016, questione totalmente ignorata nell’ambito della sentenza impugnata.
2.3. Con il terzo motivo proposto ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e) la ricorrente denuncia vizio della motivazione in ordine al diniego del contenimento della pena edittale, motivato sulla base dell’oggettiva gravita’ del fatto e dell’entita’ del debito maturato dalla fallita, ignorando che le condotte contestate avevano solo aggravato l’entita’ del dissesto e che il dolo si atteggiava in termini di mera accettazione del rischio del fallimento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. In via preliminare, e’ opportuno esaminare preventivamente la questione, logicamente prioritaria, proposta con il secondo motivo di ricorso, relativa all’estensibilita’ agli imputati della sentenza n. 445 del 7/2/2013, emessa dal GUP presso il Tribunale di Milano nei confronti dei correi, (OMISSIS) e (OMISSIS), che ha operato una diversa qualificazione dei fatti di causa come bancarotta semplice impropria, ai sensi dell’articolo 224, n. 2, L. Fall..
1.1. In primo luogo occorre constatare che effettivamente la sentenza della Corte d’Appello di Milano non si confronta con tale questione, pur rappresentata dai ricorrenti nei motivi aggiunti, depositati il 14/5/2016, e quindi entro i termini perentori indicati di cui all’articolo 585 cod. proc. pen., ossia 15 giorni prima della data prevista per l’udienza in cui l’imputato e’ stato regolarmente citato (ex multis Sez. 6, n. 25677 del 16/03/2016, P.G., P.C. in proc. Carretta e altri, Rv. 266965), nel caso di specie 30/5/2016.
1.2. Tuttavia, secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimita’, la mancata motivazione in ordine ai motivi di appello non comporta automaticamente la nullita’ della sentenza, ma e’ necessario verificare che non si tratti di motivi manifestamente infondati, o altrimenti inammissibili, o comunque non concernenti un punto decisivo, oppure se la motivazione della sentenza impugnata non contenga argomentazioni e accertamenti che risultino incompatibili con tali motivi o siano tali da consentire alla Corte stessa di procedere ad una integrazione della motivazione sulla base degli argomenti posti a fondamento delle sentenze di primo e di secondo grado. (Sez. 2, n. 10173 del 16/12/2014 – dep. 2015, Bianchetti, Rv. 263157; Sez. 3, n. 10156 del 01/02/2002, Poggi P, Rv. 221114).
1.3. La questione proposta appare manifestamente infondata.
Occorre rilevare, innanzitutto che con i motivi di appello, cosi’ come con il presente ricorso, era stata solamente prospettata la diversa qualificazione giuridica impressa al fatto nel procedimento parallelo, ritenuta estensibile alla posizione dei due imputati e non gia’ fatti specifici e concreti accertati in quel processo, suscettibili di essere fatti valere per la loro specifica posizione.
1.4. Il richiamo all’articolo 587 c.p.p. e all’istituto dell’effetto estensivo dell’impugnazione e’ fuor di luogo.
La disposizione dell’articolo 587 c.p.p., che prevede l’effetto estensivo dell’impugnazione, che presuppone l’unitarieta’ del procedimento (Sez. 1, n. 3366 del 02/06/1995, Gentile, Rv. 202178), e’ dettata dall’esigenza di evitare disarmonie di trattamento tra soggetti in identica posizione, taluno dei quali abbia con esito favorevole proposto valida impugnazione. Tale disposizione non e’ pertanto invocabile al fine di estendere al medesimo imputato gli effetti favorevoli dell’impugnazione da lui stesso proposta avverso una sentenza per un fatto diverso, ancorche’ connesso a quello oggetto di una precedente sentenza (Sez. 1, n. 15288 del 24/03/2005, Manzi, Rv. 231242).
L’effetto estensivo dell’impugnazione opera a favore degli altri imputati soltanto se questi non hanno proposto impugnazione, ovvero se quella proposta sia stata dichiarata inammissibile, non invece quando essa sia stata esaminata nel merito con decisione diversa ed incompatibile con quella di cui si chiede l’estensione (Sez. 3, n. 43296 del 02/07/2014, Garozzo, Rv. 260978; Sez. 6, n. 27701 del 06/02/2008, De Carolis, Rv. 240362).
1.5. Nel nostro ordinamento processuale la sentenza passata in giudicato ha soltanto un’efficacia preclusiva nei confronti del medesimo imputato e quanto al medesimo fatto. Da cio’ consegue che in un processo contro altri imputati, il giudice potra’ accertare nuovamente il medesimo fatto storico e potra’ ritenere che e’ stato commesso con diverse modalita’, o perfino che non e’ esistito, mancando il requisito del “medesimo imputato”.
Nel nostro ordinamento processuale non sussistono rimedi sul contrasto sostanziale di giudicati formatisi in procedimenti diversi, per imputati diversi, seppur attinenti allo stesso fatto. Non esiste infatti nessuna disciplina in ordine alla efficacia del giudicato nell’ambito di un altro procedimento penale, a differenza di quanto avviene per i rapporti fra il giudizio civile, amministrativo e disciplinare, mentre l’articolo 238 bis c.p.p. consente l’acquisizione in dibattimento di sentenze divenute irrevocabili, ma dispone che siano valutate a norma dell’articolo 197 c.p.p. e articolo 192 c.p.p., comma 3, (Sez. 6, n. 14096 del 16/01/2007, Iaculano, Rv. 236142; Sez. 6, n. 5513 del 04/03/1996, Barletta, Rv. 204983; Sez. 1, n. 13235 del 10/02/1986,Zuccaro, Rv. 174394).
Nel caso di specie, inoltre, il presunto contrasto sostenuto dalla ricorrente, attinente alla mera valutazione giuridica dei fatti, non sarebbe neppure rilevante ai fini dell’esperimento dell’istituto della revisione.
Infatti: “Il contrasto di giudicati rilevante ai fini della revisione di un provvedimento definitivo non ricorre nell’ipotesi in cui lo stesso verta sulla valutazione giuridica attribuita agli stessi fatti dai due diversi giudici.” (Sez. 2, n. 14785 del 20/01/2017, Marinacci, Rv. 269671; Sez. 5, n. 10405 del 13/01/2015, PG in proc. Contu, Rv. 262731; Sez. 6, n. 15796 del 03/04/2014, Strappa, Rv. 259804; Sez. 2, n. 12809 del 11/03/2011, Vitale, Rv. 250061).
2. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione di legge in relazione all’articolo 223, comma 2, L.F. e lamenta erronea qualificazione giuridica del fatto, nonche’ vizio di motivazione.
Per la configurazione del delitto di reato di bancarotta fraudolenta impropria per aver con operazioni dolose cagionato il fallimento, a prescindere dall’elemento soggettivo, sarebbe stata necessaria la sussistenza del nesso causale fra le condotte e il fallimento, considerato come evento naturalistico.
L’articolo 223, comma 2 L.F. non sarebbe configurabile posto che la societa’ versava gia’ in stato di obiettivo dissesto fin dal 1998, cui avrebbe dovuto seguire il fallimento, procrastinato e aggravato per effetto delle operazioni di elusione degli obblighi fiscali per rifinanziarsi; sarebbe piuttosto configurabile il reato di bancarotta semplice impropria societaria di cui all’articolo 224, comma 2, L. Fall., a cui sarebbe conseguita la dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
2.1. L’articolo 223, comma 2, n. 2, L.F. sancisce l’applicabilita’ nei confronti degli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di societa’ dichiarate fallite della pena prevista dal primo comma dell’articolo 216, se hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della societa’.
Il successivo articolo 224 prevede l’applicabilita’ delle piu’ lievi pene stabilite nell’articolo 217 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di societa’ dichiarate fallite, i quali hanno concorso a cagionare od aggravare il dissesto della societa’ con inosservanza degli obblighi ad essi imposti dalla legge.
2.2. Secondo l’orientamento costante di questa Corte, a cui il Collegio intende garantir continuita’, in tema di fallimento determinato da operazioni dolose, non interrompono il nesso di causalita’ tra l’operazione dolosa e l’evento fallimentare ne’ la preesistenza alla condotta di una causa in se’ efficiente verso il dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all’articolo 41 c.p., ne’ il fatto che l’operazione dolosa contestata abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto gia’ in atto (Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Concu e altro, Rv. 262189; Sez. 5, n. 8413 del 16/10/2013, dep. 2014, Besurga, Rv. 259051; Sez. 5, n. 17690 del 18/272010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a. e altri, Rv. 247316; Sez. 5, n. 19806 del 28/3/2003, Negro ed altri, Rv. 224947).
2.3. Un costante orientamento di questa Corte, dedicato alla tecnica di autofinanziamento mediante sistematico ricorso all’omissione del pagamento di imposte e contributi, afferma che in tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’articolo 223, comma 2, n. 2, L.F. possono consistere nel mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di sistematicita’ (Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016 – dep. 2017, Bottiglieri, Rv. 270046; Sez. 5, n. 12426 del 29/11/2013 – dep. 2014, P.G. e p.c. in proc. Beretta e altri, Rv. 259997).
In particolare, le operazioni dolose di cui all’articolo 223, comma 2, n. 2, L. Fall., attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedelta’ ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria della impresa e postulano una modalita’ di pregiudizio patrimoniale discendente non gia’ direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensi’ da un fatto di maggiore complessita’ strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralita’ di atti coordinati all’esito divisato. (In applicazione del principio, e’ stata ritenuta corretta la qualificazione di operazione dolosa data nella sentenza impugnata al protratto, esteso e sistematico inadempimento delle obbligazioni contributive, che, aumentando ingiustificatamente l’esposizione nei confronti degli enti previdenziali, rendeva prevedibile il conseguente dissesto della societa’; Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Prandini e altri, Rv. 261684).
Il fallimento determinato da operazioni dolose configura un’eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale; l’onere probatorio dell’accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volonta’ della natura dolosa dell’operazione alla quale segue il dissesto, nonche’ dell’astratta prevedibilita’ di tale evento quale effetto dell’azione antidoverosa, non essendo necessarie, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo, la rappresentazione e la volonta’ dell’evento fallimentare. (Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a. e altri, Rv. 247315; Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015, Lubrina e altri, Rv. 265510).
2.4. L’assunto della ricorrente secondo cui la societa’ (OMISSIS) s.r.l. sarebbe stata in situazione di dissesto gia’ nel 1998 e’ inoltre priva di adeguato supporto probatorio, neppure indicato, ed e’ palesemente smentita dalle sentenze di merito.
Dalle due sentenze del G.i.p. di Milano e della Corte di appello di Milano risulta infatti che la societa’, inizialmente denominata (OMISSIS) s.r.l. era una societa’ molto piccola, priva di debiti, in liquidazione volontaria dal 1997, che era stata acquisita nel 1998 dai (OMISSIS) e utilizzata per la prosecuzione della loro attivita’ sotto nuovo nome, (OMISSIS) s.r.l., proprio perche’ la societa’ di famiglia, la (OMISSIS) s.r.l., era in stato di dissesto e sarebbe poi fallita.
La nuova societa’ ha perseguito sin dall’origine e con premeditazione la strategia di autofinanziamento mediante sistematica omissione di pagamento di tributi e oneri previdenziali: non e’ dato quindi discorrere di aggravamento di un dissesto e di prosecuzione di attivita’ in situazione di insolvenza, ma di una deliberata strategia di operare sottraendosi agli obblighi di legge e utilizzando un veicolo societario inizialmente sano e acquisito a quello scopo.
Il ragionamento della ricorrente confonde infatti la nuova societa’ (OMISSIS) s.r.l., nata dalla trasformazione di (OMISSIS) s.r.l. e la preesistente (OMISSIS) s.r.l..
3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce vizio della motivazione in ordine al diniego del contenimento della pena edittale, motivato sulla base dell’oggettiva gravita’ del fatto e dell’entita’ del debito maturato dalla fallita, ignorando che le condotte contestate avevano solo aggravato l’entita’ del dissesto e che il dolo si atteggiava in termini di mera accettazione del rischio del fallimento.
Tale motivo e’ inammissibile, in quanto mira ad ottenere dalla Corte di Cassazione una nuova valutazione sulla congruita’ della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione. La gradazione della pena, infatti, rientra nella discrezionalita’ del giudice di merito, che la esercita, cosi’ come per fissare la pena base, ai sensi degli articoli 132 e 133 c.p. (ex multis Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, Ferrario, Rv. 259142).
Inoltre, sempre secondo giurisprudenza consolidata in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, come nel caso di specie anche a non tener conto della diminuente per il rito, non e’ necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’articolo 133 c.p. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283).
Infine la Corte territoriale ha motivato in ordine alla gravita’ oggettiva del fatto, anche in relazione all’entita’ assai consistente del debito, oltre 3 milioni di Euro, mentre la tesi del dolo eventuale e’ assolutamente incompatibile con la ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza di merito, che parla addirittura di premeditazione e che comunque accerta il ricorso sistematico, sin dall’inizio della nuova attivita’, al finanziamento mediante omissione dei pagamenti di imposte e oneri previdenziali.
4. I ricorsi devono quindi essere dichiarati inammissibili e i ricorrenti devono essere condannati, ciascuno, al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00= in favore della Cassa delle Ammende, cosi’ equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere la parte ricorrente in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita’ (Corte cost. 13/6/2000 n.186).
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00= a favore della Cassa delle ammende.