Corte di Cassazione, Sezione U civile Sentenza 11 gennaio 2008, n. 576
Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell’articolo 2935 c.c., e articolo 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui viene percepita o puo’ essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche.
Corte di Cassazione, Sezione U civile Sentenza 11 gennaio 2008, n. 576
Integrale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente
Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe – Presidente di sezione
Dott. DI NANNI Luigi Francesco – consigliere
Dott. VITRONE Ugo – Consigliere
Dott. VIDIRI Guido – Consigliere
Dott. SETTIMJ Giovanni – Consigliere
Dott. SEGRETO Antonio – rel. Consigliere
Dott. RORDORF Renato – Consigliere
Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
VO. PI., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 61, presso lo studio dell’avvocato COSTANTINI MARIA PAOLA, rappresentato e difeso dagli avvocato SCIAUDONE ANTONIO, DI DONATO FABRIZIO, giusta delega in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA SALUTE, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
e contro
LIQUIDAZIONE EX U.S.L. n. (OMESSO), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, P.ZZA DEI MARTIRI DI BELFIORE 2, presso lo studio dell’avvocato COLETTI PIERFILIPPO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAZZEO LORENZO, giusta delega in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1093/02 della Corte d’Appello di NAPOLI, depositata il 05/04/02;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/11/07 dal Consigliere Dott. SEGRETO Antonio;
uditi gli avvocati DI DONATO Fabrizio, COLETTI Pierfilippo, SALVATORELLI Massimo, e D’ELIA Gesualdo, dell’Avvocatura Generale dello Stato;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso nei confronti della Usl/(OMESSO) Napoli, accoglimento per quanto di ragione del primo e secondo motivo del ricorso nei confronti del Ministero della Salute.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione notificata il 7.11.1991 Vo. Pi., emofiliaco, conveniva davanti al tribunale di Napoli la Usl (OMESSO) per ottenere il risarcimento dei danni per aver contratto l’Aids a seguito della somministrazione di emoderivati e delle trasfusioni praticate presso l’ospedale (OMESSO).
Si costituiva la convenuta, contestando la sussistenza del nesso di causalita’ tra le somministrazioni di emoderivati e trasfusioni avvenute presso la propria struttura ospedaliera, eccepiva la prescrizione del danno, poiche’ l’ultima somministrazione praticata risaliva al 1984 ed assumeva che, in ogni caso, essa aveva utilizzato emoderivati e sangue la cui commercializzazione era stata autorizzata dal Ministero della Sanita’. Il 17.12.1994, in esecuzione di ordinanza del g.i., l’attore chiamava in causa il Ministero della Sanita’, chiedendone la condanna in solido.
Il Ministero si costituiva, assumeva il proprio difetto di legittimazione passiva ed eccepiva la prescrizione ex articolo 2947 c.c., Il tribunale rigettava la domanda.
La Corte di appello di Napoli, adita dall’attore, con sentenza depositata il 5.4.2002, rigettava l’appello.
Riteneva la corte di merito che non era provato che il Vo. avesse effettuato le trasfusioni solo presso l’ospedale (OMESSO) e non anche in altre strutture, poiche’ egli aveva dichiarato che a partire del 1985 era stato sottoposto a trasfusioni presso strutture pubbliche venete; che, in ogni caso, risultava che le patologie del Vo. furono accertate dalle strutture venete nel novembre 1986, con conseguente prescrizione del diritto al risarcimento dei danni nei confronti dello Stato, citato nel 1994; che, quanto alla responsabilita’ della regione, la stessa era da escludere anche per mancanza di colpevolezza della stessa.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’attore, che ha anche presentato memoria.
Resistono con rispettivi controricorsi la gestione liquidatoria della Usl (OMESSO) di Napoli ed il Ministero della Salute.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1. La causa e’ stata rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di particolare importanza relative: al nesso causale in tema di responsabilita’ civile, segnatamente da condotta omissiva; al dies a quo della prescrizione per il risarcimento dei danni lungolatenti.
Con il primo articolato motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’articolo 2050 c.c., per non avere la Corte di merito ritenuto che la responsabilita’ del Ministero della Salute nei compiti relativi ad attivita’ connesse ad emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati integrasse attivita’ pericolosa ai sensi dell’articolo 2050 c.c., per cui competeva al Ministero dimostrare un diverso meccanismo causale rispetto a quello prospettato e dimostrato dal ricorrente.
1.2. Lamenta, inoltre, il ricorrente che la sentenza impugnata ha effettuato una non corretta applicazione dei principi in tema di nesso causale, poiche’ ha negato l’esistenza del nesso causale, sul rilievo che non poteva escludersi che il contagio da HIV fosse dovuto ad altre emotrasfusioni effettuate successivamente in (OMESSO) presso altre strutture, oltre quelle precedentemente effettuate presso l’Ospedale (OMESSO), senza che fosse stata fornita alcuna prova di un diverso meccanismo eziologico delle patologie.
Secondo il ricorrente la motivazione in tema di nesso causale e’ insufficiente e contraddittoria e la mancata ammissione di una consulenza tecnica ha impedito un accertamento in merito.
1.3. Si duole poi il ricorrente che non sia stato conferito valore probatorio all’accertamento della Commissione medica ospedaliera, che aveva riconosciuto tale nesso eziologico con le trasfusioni effettuate presso l’ospedale (OMESSO).
2.1. Con la prima censura del secondo motivo il ricorrente lamenta che non sia stata affermata la natura contrattuale del rapporto tra Ministero e paziente assistito, atteso che la normativa attribuisce al Ministero della Salute specifici funzioni e ruoli in relazione all’uso di sangue umano e di emoderivati.
Secondo il ricorrente, pertanto, il Ministero non avendo provveduto a tali controlli, era incorso in un inadempimento contrattuale, con conseguente prescrizione decennale.
3. Preliminarmente va dichiarata l’inammissibilita’ del ricorso nei confronti della Usi per carenza di interesse.
Infatti la sentenza impugnata, che ha inquadrato la questione nell’ambito della responsabilita’ extracontrattuale ex articolo 2043 c.c., ha rigettato la domanda nei confronti della Usl non solo perche’ non era stato provato con certezza che il contagio fosse avvenuto a seguito delle trasfusioni effettuate presso l’ospedale di tale Usl (OMESSO) di Napoli, ma anche perche’ appariva dubbio il profilo della colpevolezza a carico della Usl.
Il ricorrente, che pure ha impugnato la sentenza in merito alla pretesa violazione dell’articolo 2050 c.c., in relazione alla posizione del Ministero, eguale impugnazione non ha effettuato in relazione alla posizione della Usl. Ne consegue per la Usi, che, essendo stata esclusa la fattispecie di responsabilita’ oggettiva extracontrattuale (ove tale si volesse considerare l’ipotesi di cui all’articolo 2050 c.c.), la statuizione di mancanza di colpevolezza della stessa e’ idonea a sorreggere il rigetto della domanda sotto il profilo della responsabilita’ extracontrattuale (peraltro il ricorrente non impugna la sentenza per mancato esame della domanda nei confronti della Usl sotto il profilo della responsabilita’ contrattuale, ma solo nei confronti del Ministero).
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralita’ di ragioni, tra loro distinte ed autonome e singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, l’omessa impugnazione di tutte le “rationes decidendi” rende inammissibili, per difetto di interesse, le censure relative alle singole ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime, quand’anche fondate, non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitivita’ delle altre non impugnate, all’annullamento della decisione stessa (ex multis, Cass. 18/09/2006, n. 20118).
4.1. Passando a valutare la natura della possibile responsabilita’ del Ministero, va anzitutto esaminata la normativa che regolava l’attivita’ dello stesso in tema di emotrasfusione all’epoca dei fatti.
La Legge n. 592 del 1967 (articolo 1) attribuisce al Ministero le direttive tecniche per l’organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti alla raccolta, preparazione, conservazione, e distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, alla preparazione dei suoi derivati e ne esercita la vigilanza, nonche’ (articolo 21) il compito di autorizzare l’importazione e l’esportazione di sangue umano e dei suoi derivati per uso terapeutico.
Il Decreto del Presidente della Repubblica n. 1256 del 1971 contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la funzione di controllo e vigilanza in materia (articoli 2, 3, 103, 112).
La Legge n. 519 del 1973 attribuisce all’Istituto superiore di sanita’ compiti attivi a tutela della salute pubblica.
La Legge 23 dicembre 1978, n. 833, che ha istituito il Servizio sanitario Nazionale conserva al Ministero della Sanita’, oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario nazionale ed a compiti di indirizzo e coordinamento delle attivita’ amministrative regionali delegate in materia sanitaria, importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione e commercio dei prodotti farmaceutici e degli emoderivati (articolo 6 lettera b, c), mentre l’articolo 4, n. 6, conferma che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interesse nazionale.
Il Decreto Legge n. 443 del 1987 stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla c.d. “farmacosorveglianza” da parte del Ministero della Sanita’, che puo’ stabilire le modalita’ di esecuzione del monitoraggio sui farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelari sui prodotti in commercio.
Ne consegue che, anche prima dell’entrata in vigore della Legge 4 maggio 1990, n. 107, contenente la disciplina per le attivita’ trasfusionali e la produzione di emoderivati, deve ritenersi che sussistesse in materia, sulla base della legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di sangue umano da parte del Ministero della sanita’, anche strumentale alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria. L’omissione da parte del Ministero di attivita’ funzionali alla realizzazione dello scopo per il quale l’ordinamento attribuisce il potere (qui concernente la tutela della salute pubblica) lo espone a responsabilita’ extracontrattuale, quando, come nella fattispecie, dalla violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza nell’interesse pubblico, il quale e’ strumentale ed accessorio a quel potere, siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi.
4.2. Sennonche’, indipendentemente dal punto se l’attivita’ di produzione, commercializzazione ed effettiva trasfusione sui singoli pazienti del sangue costituisca attivita’ pericolosa ex articolo 2050 c.c., (come pure sostenuto da gran parte della dottrina e da questa Cass. n. 1138/1995, Cass. n. 814/1997, Cass. n. 8069/1993), non altrettanto puo’ dirsi dell’attivita’ esercitata rispetto ad esse dal Ministero, che attiene alla sfera non direttamente gestionale, ma piuttosto di supervisione e controllo. La pericolosita’ della pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati (riconosciuta nel Decreto Ministeriale sanita’ 15 gennaio 1991, articolo 19, come non esente da rischi e gia’ indicata nella remota sentenza delle S.U. 19.6.1936, in giur. it. 1936, 866, con riferimento al sangue quale possibile veicolo di infezioni) non rende ovviamente pericolosa l’attivita’ ministeriale, la cui funzione apicale, e’ solo quella di controllare e vigilare a tutela della salute pubblica. Anche gli interventi per la distribuzione e ripartizione del plasma tra le strutture sanitarie o le autorizzazioni per l’importazione del plasma non possono considerarsi elementi di conferma di un’attivita’ in senso lato imprenditoriale (ritenuto da parte della dottrina, elemento necessario per la responsabilita’ ex articolo 2050 c.c.), in quanto si tratta di incombenze meramente complementari e funzionali all’organizzazione generale di un settore vitale per la collettivita’.
La responsabilita’ del Ministero della Salute per i danni conseguenti ad infezioni da HIV e da epatite, contratte da soggetti emotrasfusi per l’omessa vigilanza esercitata dall’Amministrazione sulla sostanza ematica negli interventi trasfusionali e sugli emoderi vati appare inquadrabile nella violazione della clausola generale di cui all’articolo 2043 c.c.,
4.3. Va esclusa anche una responsabilita’ del Ministero ex articolo 2049 c.c., non potendo il Ministero rispondere degli eventuali fatti dannosi delle strutture sanitarie, in quanto manca un rapporto di preposizione tra il Ministero e le persone giuridiche pubbliche (Asl, Aziende ospedaliere), tutte dotate di piena autonomia, capacita’ e responsabilita’.
4.5. Proprio per la piena autonomia giuridica, rispetto allo Stato, dell’Ente erogatore dei servizi sanitari va esclusa una responsabilita’ contrattuale del Ministero.
Tale rapporto contrattuale si instaura solo tra il paziente e la struttura sanitaria e dalla giurisprudenza piu’ recente viene considerato in termini autonomi dallo stesso rapporto tra paziente e medico (fondato su altro “fatto idoneo” di cui all’articolo 1173 c.c., e cioe’ il contatto sociale) e qualificato come contratto atipico di “spedalita’” o di “assistenza sanitaria”. La prestazione articolata di assistenza sanitaria, dovuta dalla struttura sanitaria ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cosiddetti di protezione ed accessori (cfr. Cass. S.U. 1.2.2002, n. 9556).
Sennonche’ a tale contratto e’ completamente estraneo il Ministero della Sanita’ (ora della Salute).
5.1. Inquadrata, quindi, la responsabilita’ del Ministero nell’ambito della responsabilita’ aquiliana ex articolo 2043 c.c., da omessa vigilanza, va ora esaminata la questione del nesso causale in siffatto tipo di responsabilita’.
Osserva preliminarmente questa Corte che l’insufficienza del tradizionale recepimento in sede civile dell’elaborazione penalistica in tema di nesso causale e’ emersa con chiarezza nelle concezioni moderne della responsabilita’ civile, che costruiscono la struttura della responsabilita’ aquiliana intorno al danno ingiusto, anziche’ al “fatto illecito”, divenuto “fatto dannoso”.
In effetti, mentre ai fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto – reato (il cui elemento materiale e’ appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento naturalistico o giuridico), ai fini della responsabilita’ civile cio’ che si imputa e’ il danno e non il fatto in quanto tale.
E tuttavia un “fatto” e’ pur sempre necessario perche’ la responsabilita’ sorga, giacche’ l’imputazione del danno presuppone l’esistenza di una delle fattispecie normative di cui all’articolo 2043 c.c. e segg., le quali tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto chiamato a rispondere.
Il “danno” rileva cosi’ sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalita’ materiale ed il secondo da quella giuridica.
Il danno oggetto dell’obbligazione risarcitoria aquiliana e’ quindi esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui e’ un elemento l’evento lesivo).
Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi e’ un danno – conseguenza, non vi e’ l’obbligazione risarcitoria.
5.2. Proprio in conseguenza di cio’ si e’ consolidata nella cultura giuridica contemporanea l’idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilita’ (per la quale la problematica causale, detta causalita’ materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, articoli 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbigazione risarcitoria.
A questo secondo momento va riferita la regola dell’articolo 1223 c.c.(richiamato dall’articolo 2056 c.c.), per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite “che siano conseguenza immediata e diretta” del fatto lesivo (c.d. causalita’ giuridica), per cui esattamente si e’ dubitato che la norma attenga al nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento, selezionando le conseguenze dannose risarcibili.
Secondo l’opinione assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perche’ possa configurarsi, a monte, una responsa.bilita’ “strutturale” (Haftungsbegrundende Kausalitat) e, dall’altro, il nesso che, collegando l’evento al danno, consente l’individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (gia” accertata) responsabilita” risarcitoria (Haftungsausfkllende Kausalitat). Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, tale distinzione e’ ravvisabile, rispettivamente, nell’articolo 1227 c.c., commi 1 e 2: il comma 1, attiene al contributo eziologico del debitore nella produzione dell’evento dannoso, il secondo comma attiene al rapporto evento- danno conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni.
Nel macrosistema civilistico l’unico profilo dedicato al nesso eziologico, e’ previsto dall’articolo 2043 c.c., dove l’imputazione del “fatto doloso o colposo” e’ addebitata a chi “cagiona ad altri un danno ingiusto”, o, come afferma l’articolo 1382, Code Napoleon “qui cause au autrui un dommage”.
Un’analoga disposizione, sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non e’ richiesta in tema di responsabilita’ cd. contrattuale o da inadempimento, perche’ in tal caso il soggetto responsabile e’, per lo piu’, il contraente rimasto inadempiente, o il debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. E questo e’ uno dei motivi per cui la stessa giurisprudenza di legittimita’ partendo dall’ovvio presupposto di non dover identificare il soggetto responsabile del fatto dannoso, si e’ limitata a dettare una serie di soluzioni pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di campo, tesa a coniugare il “risarcimento del danno”, cui e’ dedicato l’ articolo 1223 c.c., con il rapporto di causalita’. Solo in alcune ipotesi particolari, in cui l’inadempimento dell’obbligazione era imputabile al fatto illecito del terzo, il problema della causalita’ e’ stato affrontato dalla giurisprudenza, sia sotto il profilo del rapporto tra comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili.
Il sistema di valutazione e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in virtu’ del rinvio operato dall’articolo 2056 c.c., e’ composto dagli articoli 1223, 1226 e 1227 c.c., e, in tema di responsabilita’ da inadempimento, anche dalla disposizione dell’articolo 1225 c.c.. A queste norme si deve aggiungere il principio ricavabile dall’articolo 1221 c.c., che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la situazione, quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella effettivamente avvenuta.
5.3. Ai fini della causalita’ materiale nell’ambito della responsabilita’ aquiliana la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in applicazione dei principi penalistici, di cui agli articoli 40 e 41 c.p., ritengono che un evento e’ da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’articolo 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso e’ riferibile a piu’ azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalita’ efficiente, desumibile dall’articolo 41 c.p., comma 2, in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale gia’ in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268).
Nel contempo non e’ sufficiente tale relazione causale per determinare una causalita’ giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali cosi’ determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalita’ adeguata o quella similare della ed. regolarita’ causale (ex multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).
5.4. Quindi, per la teoria della regolarita’ causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti di common law, ciascuno e’ responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilita’ per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. Sulle modalita’ con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza, se cioe’ con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex posi, al momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si e’ interrogata la dottrina tedesca ben piu’ di quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilita’ obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta e’ stata posta in essere, operandosi una “prognosi postuma”, nel senso che si deve accertare se, al momento in cui e’ avvenuta l’azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe potuta discendere una data conseguenza. La teoria della regolarita’ causale, pur essendo la piu’ seguita dalla giurisprudenza, sia civile che penale, non e’ andata esente da critiche da parte della dottrina italiana, che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalita’ adeguata, ove venisse compiuto con valutazione ex ante verrebbe a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza dell’elemento soggettivo. Ma la censura non pare condivisibile, in quanto tale prevedibilita’ obbiettiva va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro di valutazione da adottare non e’ quello della conoscenza dell’uomo medio ma delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poiche’ non si tratta di accertare l’elemento soggettivo, ma il nesso causale).
In altri termini cio’ che rileva e’ che l’evento sia prevedibile non da parte dell’agente, ma (per cosi’ dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale prevedibilita’ discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilita’ dell’evento.
Il principio della regolarita’ causale diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto cio’ che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andra’ piu’ propriamente ad iscriversi entro l’elemento soggettivo (la colpevolezza) dell’illecito.
Inoltre se l’accertamento della prevedibilita’ dell’evento, ai fini della regolarita’ causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento, nel senso che quanto maggiore e’ quel tempo tanto maggiore e’ la possibilita’ di sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi dell’accertamento positivo del nesso causale (con la conseguenza illogica che della lunghezza del processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilita’ oggettiva, potrebbe giovarsi l’attore, sul quale grava l’onere della prova del nesso causale).
5.5. Nell’imputazione per omissione colposa il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516 del 2004; Cass. 22/10/2003, n. 15789) : rilievo che si traduce a volte nell’affermazione dell’esigenza, per l’imputazione della responsabilita’, che il danno sia una concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire.
E’ questa l’ipotesi per la quale in parte della dottrina si parla anche di mancanza di nesso causale di antigiuridicita’ e che effettivamente non sembra estranea ad una corretta impostazione del problema causale, anche se nei soli limiti di supporto argomentativo ed orientativo nell’applicazione della regola di cui all’articolo 40 c.p., comma 2.
Poiche’ l’omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l’omissione, siccome implicante l’esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell’evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione generica) in funzione dell’impedimento di quell’evento, il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non puo’ limitarsi alla mera valutazione della materialita’ fattuale, bensi’ postula la preventiva individuazione dell’obbligo specifico o generico di tenere la condotta omessa in capo al soggetto. L’individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l’apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalita’, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non e’ possibile apprezzare l’omissione del comportamento sul piano causale.
La causalita’ nell’omissione non puo’ essere di ordine strettamente materiale, poiche’ ex nihilo nihil fit.
Anche coloro (corrente minoritaria) che sostengono la causalita’ materiale nell’omissione e non la causalita’ normativa (basata sull’equiparazione disposta dall’articolo 40 c.p.) fanno coincidere l’omissione con una condizione negativa perche’ l’evento potesse realizzarsi.
La causalita’ e’ tuttavia accertabile attraverso un giudizio ipotetico: l’azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l’evento? In altri termini non puo’ riconoscersi la responsabilita’ per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l’evento prospettato: la responsabilita’ non sorge non perche’ non vi sia stato un comportamento antigiuridico (l’omissione di un comportamento dovuto e’ di per se’ un comportamento antigiuridico), ma perche’ quell’omissione non e’ causa del danno lamentato.
Il Giudice pertanto e’ tenuto ad accertare se l’evento sia ricollegabile all’omissione (causalita’ omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalita’ ipotetica) l’agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori alternativi. L’accertamento del rapporto di causalita’ ipotetica passa attraverso l’enunciato “controfattuale” che pone al posto dell’omissione il comportamento alternativo dovuto, onde verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal danneggiato.
5.6. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la causalita’ di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli articoli 40 e 41 c.p., e dalla “regolarita’ causale”, in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza.
Tanto vale certamente allorche’ all’inizio della catena causale e’ posta una condotta omissiva o commissiva, secondo la norma generale di cui all’articolo 2043 c.c..
Ne’ puo’ costituire valida obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze morfologiche e funzionali tra accertamento dell’illecito civile ed accertamento dell’illecito penale, essendo il primo fondato sull’atipicita’ dell’illecito, essendo possibili ipotesi di responsabilita’ oggettiva ed essendo diverso il sistema probatorio.
La dottrina, che sostiene tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione
che non puo’ definirsi in modo unitario il nesso di causalita’ materiale in civile, potendo avere tante sfaccettature quante l’atipicita’ dell’illecito.
Altra parte della dottrina, sulla base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni questione sulla causalita’ materiale in una questione di causalita’ giuridica (in diversa accezione da quella sopra esposta, con riferimento all’articolo 1223 c.c.), per cui un certo danno e’ addebitato ad un soggetto chiamato a risponderne ed il legame “causale” tra responsabile e danno e’ tutto normativo.
5.7. Ritengono queste S.U. che le suddette considerazioni non sono decisive ai fini di un radicale mutamento di indirizzo, dovendosi solo specificare che l’applicazione dei principi generali di cui agli articoli 40 e 41 c.p., temperati dalla “regolarita’ causale”, ai fini della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata alle peculiarita’ delle singole fattispecie normative di responsabilita’ civile.
Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che e’ successiva al verificarsi ontologico del fatto dannoso e che puo’ anche mancare. Di questo si vedra’ piu’ ampiamente in seguito.
E’ vero che la responsabilita’ civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale intorno alla figura dell’autore del reato, ma come e’ stato acutamente rilevato, un responsabile e’ pur sempre necessario, se non si vuole trasformare la responsabilita’ civile in un’assicurazione contro i danni, peraltro in assenza di premio.
L’atipicita’ dell’illecito attiene all’evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e l’elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione.
E’ vero, altresi’, che, contrariamente alla responsabilita’ penale, il criterio di imputazione della responsabilita’ civile non sempre e’ una condotta colpevole; cio’ comporta solo una varieta’ di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la necessita’ del nesso di causalita’ di fatto e dall’altra non modifica le regole giuridico – logiche che presiedono all’esistenza del rapporto eziologico.
Il problema si sposta sul criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilita’ oggettiva. E’ esatto che tale criterio di imputazione e’ segnato spesso da un’allocazione del costo del danno a carico di un soggetto che non necessariamente e’ autore di una condotta colpevole (come avviene generalmente e come e’ previsto dalla clausola generale di cui all’articolo 2043 c.c., secondo il principio classico, per cui non vi e’ responsabilita’ senza colpa: “ohne schuld keine haftung), ma ha una determinata esposizione a rischio ovvero costituisce per l’ordinamento un soggetto piu’ idoneo a sopportare il costo del danno (dando attuazione, anche sul terreno dell’illecito, al principio di solidarieta’ accolto dalla nostra Costituzione) ovvero e’ il soggetto che aveva la possibilita’ della cost – benefit analysis, per cui deve sopportarne la responsabilita’, per essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione piu’ adeguata per evitarlo nel modo piu’ conveniente, sicche’ il verificarsi del danno discende da un’opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.
Sennonche’ il criterio di imputazione nella fattispecie (con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad indicare quale e’ la sequenza causale da esaminare e puo’ anche costituire un supporto argomentativo ed orientativo nell’applicazione delle regole proprie del nesso eziologico, ma non vale a costituire autonomi principi della causalita’. Sostenere il contrario implica riportare sul piano della causalita’ elementi che gli sono estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilita’ o l’ingiustizia del danno.
5.8. Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all’infinito. La responsabilita’ oggettiva non puo’ essere pura assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensi’ sostituzione di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalita’ la medesima funzione che da sempre e’ propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre nella responsabilita’ per colpa quest’ultima si asside su un nesso causale tra evento e condotta ai fini della qualificazione di quest’ultima in funzione della responsabilita’, nella responsabilita’ oggettiva sono i criteri di imputazione ad individuare il segmento della sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della responsabilita’.
Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica “da fare responsabile”. Cio’ perche’ nella fattispecie di responsabilita’ oggettiva il nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico tra evento e condotta di un agente candidato alla responsabilita’, bensi’ o si riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con una condotta, bensi’ con una concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a risolvere la questione della responsabilita’. Tale questione la norma di volta in volta risolve mediante qualcosa di ulteriore, che e’ costituito da una qualificazione, espressiva appunto del criterio di imputazione. Esso in questo caso non si limita a stabilire quale segmento di una certa catena causale debba ritenersi rilevante ai fini della responsabilita’, ma addirittura serve ad individuare la catena causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la sfera soggettiva sulla quale deve gravare il costo del danno.
5.9. Sennonche’ detto cio’, ai fini dell’individuazione del soggetto chiamato alla responsabilita’ dal criterio di imputazione, un nesso causale e’ pur sempre necessario tra l’evento dannoso e, di volta in volta, la condotta del soggetto responsabile (in ipotesi di responsabilita’ per colpa) o la condotta di altri (ad es. articolo 2049 c.c.) o i fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. articoli 2051, 2052 c.c., e articolo 2054 c.c., comma 4), posti all’inizio della serie causale.
Rimane il problema di quando e come rilevi giuridicamente tale “concatenazione causale” tra la condotta di altri e l’evento ovvero tra il fatto di altra natura e l’evento (di cui debba rispondere il soggetto gravato della responsabilita’ oggettiva).
In assenza di norme civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far riferimento ai principi generali di cui agli articoli 40 e 41 c.p., con la particolarita’ che in questo caso il nesso eziologico andra’ valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra l’elemento individuato dal criterio di imputazione e l’evento dannoso.
In altri termini, mentre nella responsabilita’ penale il rapporto eziologico ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell’agente, in tema di responsabilita’ civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante puo’ essere anche altro, se in questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale tra tale elemento e l’evento dannoso, in assenza di altre disposizioni normative, rimangono quelle fissate dagli articoli 40 e 41 c.p.. Il rischio o il pericolo, considerati eventualmente dalla ratio dello specifico paradigma normativo ai fini dell’allocazione del costo del danno, possono sorreggere la motivazione che porta ad accertare la causalita’ di fatto, ma restano categorie di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria della causalita’ nell’illecito civile.
5.10. Essendo questi i principi che regolano il procedimento logico – giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, cio’ che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile e’ la regola probatoria, in quanto nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del piu’ probabile che non”, stante la diversita’ dei valori in gioco nel processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato l’identita’ di tali standars delle prove in tutti gli ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e penale (in questo senso vedami: la recentissima Cass. 16.10.2007, n. 21619; Cass. 18.4.2007, n. 9238; Cass. 5.9.2006, n. 19047; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 21.1.2000 n. 632). Anche la Corte di Giustizia CE e’ indirizzata ad accettare che la causalita’ non possa che poggiarsi su logiche di tipo probabilistico (CGCE, 13/07/2006, n. 295, ha ritenuto sussistere la violazione delle norme sulla concorrenza in danno del consumatore se “appaia sufficientemente probabile” che l’intesa tra compagnie assicurative possa avere un’influenza sulla vendita delle polizze della detta assicurazione; Corte giustizia CE, 15/02/2005, n. 12, sempre in tema di tutela della concorrenza, ha ritenuto che “occorre postulare le varie concatenazioni causa – effetto, al fine di accogliere quelle maggiormente probabili”).
Detto standard di “certezza probabilistica” in materia civile non puo’ essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa – statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilita’ quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilita’ logica o baconiana). Nello schema generale della probabilita’ come relazione logica va determinata l’attendibilita’ dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni).
5.11. Le considerazioni sopra esposte, maturate in relazione alla problematica del nesso di causalita’, portano ad enunciare il seguente principio di diritto per la decisione del caso concreto, attinente alla responsabilita’ del Ministero della Sanita’ (oggi della Salute) da omessa vigilanza:
“Premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinche’ fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standars di esclusione di rischi, il Giudice, accertata l’omissione di tali attivita’, accertata, altresi’, con riferimento all’epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai piu’ alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata – infine – l’esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, puo’ ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la versificazione dell’evento”.
6. Ne consegue che nella fattispecie va rigettata la prima censura del primo e del secondo motivo di ricorso attinente alla natura della responsabilita’ del Ministero, come responsabilita’ da attivita’ pericolosa o come responsabilita’ contrattuale, mentre va accolta la seconda censura, relativa alla ritenuta mancata sussistenza del nesso causale.
Poiche’ il Ministero aveva obblighi di farmaco sorveglianza in materia di produzione, commercializzazione e consumo di sangue umano e dei suoi derivati, sull’intero territorio nazionale, avendo ritenuto il Giudice di appello che il contagio da HIV sia dovuto ad emotrasfusione di sangue infetto, e’ irrilevante, ai fini della responsabilita’ del Ministero se tali trattamenti sanitari siano avvenuti presso strutture della Usl (OMESSO) di Napoli o presso altre strutture nazionali. In questi termini, quindi, e’ irrilevante la censura del ricorrente, secondo cui la corte di merito non avrebbe conferito valore probatorio all’accertamento della Commissione medica ospedaliera, che aveva riconosciuto tale nesso eziologico con le trasfusioni effettuate presso l’ospedale (OMESSO).
Il Giudice di rinvio in applicazione dei suddetti principi di diritto dovra’ valutare se esista nesso eziologico tra il comportamento omissivo di controllo e vigilanza sul sangue utilizzato per emotrasfusioni o emoderivati e la patologia infettiva, riportata dall’attore a seguito della sottoposizione a tali trattamenti sanitari.
7.1. Dai principi sopra esposti in tema di nesso causale da comportamento omissivo, emerge anche il criterio per la delimitazione temporale della responsabilita’ del Ministero. Questa Corte, con sentenza 31/05/2005, n. 11609, osservava che, finche’ non erano conosciuti dalla scienza medica mondiale, i virus della HIV, HBC ed HCV, proprio perche’ l’evento infettivo da detti virus era gia’ astrattamente inverosimile, in quanto addirittura anche astrattamente sconosciuto, mancava il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e l’evento lesivo, in quanto all’interno delle serie causali non poteva darsi rilievo che a quelle soltanto che, nel momento in cui si produsse l’omissione causante e non successivamente, non apparivano del tutte inverosimili, tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che imponeva l’attivita’ omessa. La corte di legittimita’, quindi, riteneva esente da vizi logici la sentenza della Corte di appello, che aveva ritenuto di delimitare la responsabilita’ del Ministero a decorrere dal 1978 per l’HBC (epatite B), dal 1985 per l’HIV e dal 1988 per l’HCV (epatite C), poiche’ solo in tali rispettive date erano stati conosciuti dalla scienza mondiale rispettivamente i virus ed i tests di identificazione.
7.2. Ritengono, invece, queste S.U. (in conformita’ a quanto ritenuto da una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina) che non sussistono tre eventi lesivi, come se si trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un unico evento lesivo, cioe’ la lesione dell’integrita’ fisica (essenzialmente del fegato), per cui unico e’ il nesso causale: trasfusione con sangue infetto – contagio infettivo – lesione dell’integrita’.
Pertanto gia’ a partire dalla data di conoscenza dell’epatite B (la cui individuazione, costituendo un accertamento fattuale, rientra nell’esclusiva competenza del Giudice di merito) sussiste la responsabilita’ del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell’integrita’ fisica da virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato, come pure era obbligato per legge.
Non puo’, invece, ritenersi la responsabilita’ del Ministero a norma dell’articolo 1225 c.c., per cui il responsabile risponde anche dei danni imprevedibili. Infatti tale norma attiene, secondo la condivisibile dottrina prevalente, non al nesso di causalita’ materiale, ma a quella giuridica, relativa alla valutazione e determinazione dei danni.
8. Con il secondo articolato motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione di legge in tema di prescrizione. Anzitutto il ricorrente lamenta che non sia stata riconosciuta la responsabilita’ contrattuale del Ministero, con conseguente durata decennale della prescrizione.
Assume poi il ricorrente che nella fattispecie e’ configurabile una fattispecie di rilevanza penale, e segnatamente un’ipotesi di epidemia colposa o di lesioni colpose plurime, con la conseguenza che opererebbe il piu’ lungo termine di prescrizione penale di tali reati, che e’ decennale (con riferimento all’epoca dei fatti).
In ogni caso il ricorrente lamenta che ha errato la corte territoriale nel far decorrere il termine prescrizionale dalla data delle trasfusioni di sangue, dovendo il dies a quo coincidere con quello in cui la malattia si era esteriorizzata ed in cui egli aveva avuto conoscenza non solo della patologia, ma anche della causa della stessa.
Infine il ricorrente lamenta che non sia stato riconosciuto effetto interruttivo alla sua richiesta di equo indennizzo, ai sensi della legge 2120/1992, avanzata il 31.3.1992.
9.1. Il motivo e’ parzialmente fondato.
Anzitutto il ricorrente assume che, essendo di natura contrattuale la responsabilita’ del Ministero, la prescrizione nella fattispecie era decennale e non quinquennale, come ritenuto dalla corte di merito, sulla base della ritenuta natura extracontrattuale di tale responsabilita’.
Tale censura e’ infondata, in quanto, come sopra rilevato, l’astratta possibile responsabilita’ del Ministero e’ configurabile solo quale responsabilita’ extracontrattuale, a norma dell’articolo 2043 c.c..
9.2. Va poi escluso che nella fattispecie il fatto possa costituire un reato di epidemia colposa o di lesioni colpose plurime.
Premesso che il regime della prescrizione penale e’ cambiato (Legge 5 dicembre 2005, n. 251), la prescrizione da considerare, ai fini civilistici di cui all’articolo 2947, comma 3, e’ quella prevista alla data del fatto, mentre il principio di cui all’articolo 2 c.p., (legge piu’ favorevole) attiene solo agli aspetti penali.
Per poter usufruire di un termine piu’ congruo di prescrizione sarebbe necessario ritenere ipotizzabili i reati di lesioni colpose plurime o di epidemia colposa, o omicidio colposo, per i quali i termini prescrizionali erano di dieci anni.
Nella fattispecie e’ anzitutto da escludere il reato di omicidio colposo, non essendo intervenuto alcun decesso.
E’ da escludere anche il reato di epidemia colposa (articoli 438 e 452 c.p.), in quanto quest’ultima fattispecie, presupponente la volontaria diffusione di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza o imperizia, con conseguente incontrollabilita’ dell’eventuale patologia in un dato territorio e su un numero indeterminabile di soggetti, non appare conciliarsi con l’addebito di responsabilita’ a carico del Ministero, prospettato in termini di omessa sorveglianza sulla distribuzione del sangue e dei suoi derivati: in ogni caso, la posizione del Ministero e’ quella di un soggetto non a diretto contatto con la fonte del rischio. A cio’ si aggiunga che elementi connotanti il reato di epidemia sono:
a) la sua diffusivita’ incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti, mentre nel caso dell’HCV e dell’HBV non si e’ al cospetto di malattie a sviluppo rapido ed autonomo verso un numero indeterminato di soggetti;
b) l’assenza di un fattore umano imputabile per il trasferimento da soggetto a soggetto, mentre nella fattispecie e’ necessaria l’attivita’ di emotrasfusione con sangue infetto;
c) il carattere contagioso e diffuso del morbo, la durata cronologicamente limitata del fenomeno (poiche’ altrimenti si verserebbe in endemia).
Va esclusa anche la configurabilita’ del reato di lesioni colpose plurime stante l’impossibilita’ di individuare in capo al Ministero una condotta omissiva unica dalla quale scaturirebbero le lesioni sofferte dai vari danneggiati, tanto piu’ se si tiene conto che le singole attivita’ di omissioni di controllo e vigilanza fanno capo a diversi soggetti (persone fisiche) succedutisi nel tempo con diversi e successivi atti di autorizzazione alla commercializzazione ed al consumo di partite di sangue.
9.3. Rimane, quindi, solo la configurabilita’ del reato di lesioni, anche gravissime, non potendosi negare, che per le ragioni sopra dette, il comportamento colposamente omissivo da parte degli organi del Ministero preposti alla farmacosorveglianza sia stata una causa, quanto meno concorrente, nella produzione dell’evento dannoso.
Sennonche’ anche la prescrizione del reato di lesioni colpose e’ pari a cinque anni e quindi non comporta alcun effetto degno di rilievo. 10.1. Il punto di maggior rilievo e’ l’individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione in ipotesi di fatto dannoso lungolatente, quale e’ quello relativo a malattia da contagio.
Si puo’ ora cominciare con l’osservare come il legislatore italiano del â€Ü42 ebbe ad affidare la soluzione del problema dell’individuazione del dies a quo (exordium praescriptionis) ad indicazioni piuttosto scarne e molto generiche.
Come noto, in base all’articolo 2935 c.c., norma assolutamente aperta a molteplici e contrapposte interpretazioni, la prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto puo’ essere fatto valere. L’ articolo 2947 c.c., comma 1, aggiunge che il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il “fatto si e’ verificato”. Quest’ultima norma, pur riferendosi al solo campo della responsabilita’ aquiliana, ha finito per costituire il terreno elettivo dell’indagine e dell’elaborazione giurisprudenziale sul dies a quo in tutte le azioni risarcitone: a ben vedere, l’individuazione del momento iniziale della prescrizione e’ infatti sempre stata affrontata partendo dalla specificazione contenuta all’articolo 2947 c.c., e dunque con riferimento al fatto originatore del danno, con un ruolo piuttosto defilato da quanto riportato nella prima norma menzionata.
Il codice del 1942 opto’ per una netta cesura con la tradizione francese e l’impostazione del codice civile del 1865, in cui le azione risarcitorie, sia contrattuali che extracontrattuali, erano sottoposte ad un unico termine prescrizionale, individuato, sul modello francese, in trenta anni. Nel nuovo codice civile il sistema della prescrizione si poneva dunque nettamente sbilanciato a favore dei convenuti, con ovvie ricadute negative per gli attori, soprattutto nei casi aventi per oggetto la violazione di un bene tanto importante quanto quello costituito dalla salute: nel segno della certezza dei rapporti giuridici, si prescindeva infatti da qualsiasi considerazione che riguardasse le ragioni oggettive e soggettive del ritardo della vittima nell’instaurazione della sua pretesa risarcitoria; risultava inoltre esclusa qualsiasi operazione di bilanciamento tra gli interessi della vittima e quelli facenti capo al soggetto evocato in giudizio, la quale operazione permettesse di verificare in concreto la sussistenza in capo al responsabile di un effettivo pregiudizio sul piano della disponibilita’ della prova in conseguenza del decorso del tempo. Peraltro, il dies a quo fu inizialmente concepito come coincidente con il momento della verificazione dell’evento dannoso. Il quadro codicistico della prescrizione fu cosi’ successivamente avversato dagli interpreti sin dagli anni sessanta proprio per la sua rigidita’ e sostanziale indifferenza alla posizione degli attori. Cio’ ebbe a verificarsi soprattutto nel campo del danno alla persona e non fu certo un caso che tale processo di revisione delle norme del codice ando’ incontro ad una vera e propria svolta negli anni settanta in concomitanza con l’ingresso dirompente del danno biologico nella giurisprudenza italiana: il nuovo modo di concepire la tutela risarcitoria della salute fini’ per riflettersi non solo sul versante dei danni risarcibili con lo sgretolamento progressivo del 2059 c.c., ma anche sul piano delle regole relative all’an debeatur e della prescrizione. 10.2. Negli ultimi tre decenni si e’ quindi assistito al sostanziale ribaltamento degli schemi introdotti dal legislatore del â€Ü42: cio’ a tal punto che oggi l’istituto della prescrizione presenta ormai una vistosa differenza tra le regole operazionali ed il formante legislativo (principalmente, l’ articolo 2947 c.c., comma 1), rimasto invariato nella forma. In particolare, a partire dagli anni settanta, la dottrina e le corti, in primis la Cassazione (24.3.1979, n. 1716), vennero a spostare il dies a quo dal verificarsi del «fatto» all’esteriorizzazione del danno, finendo cosi’ per soppiantare in larga misura lo schema codicistico o, perlomeno, l’interpretazione tradizionale di detto schema: se infatti, in virtu’ della regola della decorrenza dal momento della “manifestazione del danno”, l’orizzonte della prescrizione puo’ dilatarsi, e’ di tutta evidenza come lo schema delineato dal legislatore venga di fatto rovesciato, poiche’ il limite diventa “mobile”.
Il principio della conoscibilita’ del danno venne infatti ampiamente ripreso, sviluppato ed affinato dalla giurisprudenza successiva proprio all’insegna di una rilettura dell’articolo 2947 c.c. alla luce del principio generale sul dies a quo(Cass. n. 8845/1995; 5913/2000). Nell’evoluzione giurisprudenziale questa Corte (Cass. 10.6.1999, n. 5701;Cass. n. 12666 del 2003; Cass. n. 9927 del 2000) ha nuovamente affrontato il significato da attribuirsi all’espressione “verificarsi del danno”, specificando che il danno si manifesta all’esterno quando diviene “oggettivamente percepibile e riconoscibile” anche in relazione alla sua rilevanza giuridica. Nei casi sopra citati emerge peraltro come la Suprema Corte sia tendenzialmente incline a ritenere che il parametro della “conoscibilita’ del danno” debba necessariamente interpretarsi nel senso che, ai fini del decorso della prescrizione, non e’ sufficiente la mera consapevolezza della vittima di “stare male”, bensi’ occorre che quest’ultima si trovi nella possibilita’ di apprezzare la “gravita’” delle conseguenze lesive della sua salute anche con riferimento alla loro “rilevanza giuridica”.
10.3. Tuttavia il solo modello ancorato al parametro della “conoscibilita’ del danno” puo’, in taluni casi, rilevarsi del tutto insoddisfacente e fuorviante: infatti, sviluppare una malattia irreversibile (ad esempio, un’epatite cronica) o comunque duratura, oppure trovarsi permanentemente menomati a livello di integrita’ psicofisica sono tutte situazioni che, se da un lato sostanziano la “conoscibilita’ del danno”, dall’altro lato non necessariamente danno luogo alla “conoscibilita’ del fatto giuridicamente rilevante ai fini di un’azione risarcitoria”, ovvero alla “conoscibilita’ del fatto illecito”; in tutta una serie di casi, infatti, la vittima, senza sua negligenza, si trova ad ignorare la causa del suo stato psicofisico o, al massimo, puo’ sul punto formulare mere ipotesi, prive tuttavia di riscontri sufficientemente oggettivi anche ai fini dell’istruzione di una causa sul piano probatorio e certo tali da escludere che l’inattivita’ della stessa possa esplicare effetti negativi sotto il profilo dell’interruzione della prescrizione.
Queste esigenze sono state recepite in un nuovo orientamento della Corte che ha ritenuto che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di avere contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere, a norma dell’articolo 2947 c.c., comma 1, non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che produce danno all’altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui la malattia viene percepita o puo’ essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche. Qualora invece non sia conoscibile la causa del contagio, la prescrizione non puo’ iniziare a decorrere, poiche’ la malattia, sofferta come tragica fatalita’ non imputabile ad un terzo, non e’ idonea in se’ a concretizzare il “fatto” che l’ articolo 2947 c.c., comma 1, individua quale esordio della prescrizione (Cass. 21/02/2003, n. 2645; Cass. 05/07/2004, n. 12287; Cass. 08/05/2006, n. 10493).
Viene applicato, unitamente al principio della “conoscibilita’ del danno”, quello della “rapportabilita’ causale”.
Egualmente e’ a dirsi per le malattie professionali e per talune ipotesi di lesioni fisiche cagionate da infortuni sul lavoro. Anzi, proprio in relazione a quest’ultimo specifico ambito la Sezione lavoro della Suprema Corte, rapportando l’esigenza di certezza in capo alla vittima, ha ritagliato, attraverso una serie innumerevole di decisioni, una nozione piuttosto precisa di che cosa si debba intendere per “manifestazione del danno” comprensiva, anche della conoscenza della causa professionale della lesione (Cass. n. 2002 del 2005; Cass. n. 19575 del 2004; Cass. n. 23110 del 2004).
10.4. Ritengono queste Sezioni Unite di dover condividere tale ultimo orientamento. L’individuazione del dies a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro dell'”esteriorizzazione del danno” puo’, come visto, rivelarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l’inattivita’ (incolpevole) della vittima rispetto all’esercizio dei suoi diritti.
E’ quindi del tutto evidente come l’approccio all’individuazione del dies a quo venga a spostarsi da una mera disamina dell’evolversi e dello snodarsi nel tempo delle conseguenze lesive del fatto illecito o dell’inadempimento – e cioe’ delle diverse tappe che caratterizzano il passaggio dal danno “occulto” a quello che si manifesta nelle sue componenti essenziali ed irreversibili – ad una rigorosa analisi delle informazioni, cui la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta diligentemente attivare, della loro idoneita’ a consentire al danneggiato una conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per l’instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa e le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilita’ in capo al convenuto, con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest’ultimo eventualmente colpevole di non avere fornito quelle informazioni alla vittima, nei casi in cui era a cio’ tenuto (cio’ e’ pacifico negli ordinamenti anglosassoni, in tema di medical malpractice).
Va osservato che l’interpretazione dell’articolo 2947 c.c., comma 1, nel senso di dar rilievo alla percepibilita’ e riconoscibilita’ del danno, nonche’ alla sua rapportabilita’ causale, trova conferma nell’espressa disciplina normativa in tema di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni derivanti dall’impiego di energia nucleare e da prodotti difettosi. La Legge 31 dicembre 1962, n. 1860, articolo 23, comma 1, (“impiego pacifico dell’energia nucleare”), nel testo novellato dal Decreto del Presidente della Repubblica 10 maggio 1975, n. 519, dispone che “le azioni per il risarcimento dei danni alle cose e alle persone dipendenti da incidenti nucleari si prescrivono nel termine di tre anni dal giorno in cui il danneggiato abbia avuto conoscenza del danno e dell’identita’ dell’esercente responsabile oppure avrebbe dovuto ragionevolmente esserne venuto a conoscenza”. Inoltre il Decreto del Presidente della Repubblica 24 maggio 1988, n. 224, articolo 13, commi 1 e 2, (recante “attuazione della direttiva CEE numero 85/374 relativa al riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di responsabilita’ per danno da prodotti difettosi, ai sensi della Legge 16 aprile 1987, n. 183, articolo 15”) prescrive che “Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in tre anni dal giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza del danno, del difetto e dell’identita’ del responsabile. Nel caso di aggravamento del danno, la prescrizione non comincia a decorrere prima del giorno in cui il danneggiato ha avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza di un danno di gravita’ sufficiente a giustificare l’esercizio di un’azione giudiziaria”.
10.5. Va specificato che il suddetto principio in tema di exordium praescriptionis, non apre la strada ad una rilevanza della mera conoscibilita’ soggettiva del danneggiato. Esso deve essere saldamente ancorato a due parametri obiettivi, l’uno interno e l’altro esterno al soggetto, e cioe’ da un lato al parametro dell’ordinaria diligenza, dall’altro al livello di conoscenze scientifiche dell’epoca, comunque entrambi verificabili dal Giudice senza scivolare verso un’indagine di tipo psicologico. In particolare, per quanto riguarda l’elemento esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non andra’ apprezzato in relazione al soggetto leso, in relazione al quale l’ordinaria diligenza dell’uomo medio si esaurisce con il portarlo presso una struttura sanitaria per gli accertamenti sui fenomeni patologici avvertiti, ma in relazione alla comune conoscenza scientifica che in merito a tale patologia era ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui si e’ rivolta (o avrebbe dovuto rivolgersi) la persona lesa.
Cio’ comporta una rigorosa analisi da parte del Giudice di merito sul contenuto della diligenza esigibile dalla vittima nel caso concreto, ovvero sulle informazioni che erano in suo possesso, o alle quali doveva esser messa in condizioni di accedere, o che doveva attivarsi per procurarsi. Ugualmente dovra’ essere accuratamente ricostruito ai fini di una motivazione completa e corretta sul punto della prescrizione, lo stato delle conoscenze scientifiche dell’epoca, onde inferirne se la riconducibilita’ della possibilita’ di un determinato tipo di contagio dalla trasfusione fosse nota alla comunita’ scientifica ed ai comuni operatori professionali del settore.
10.6. Il principio, quindi, che va affermato, e’ il seguente, allorche’ si versi, come nella fattispecie in tema di responsabilita’ aquiliana: “Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell’articolo 2935 c.c., e articolo 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui viene percepita o puo’ essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche”.
11. Il problema che si pone, anche con riferimento al giudizio in esame, e’ la valenza del responso delle Commissioni mediche ospedaliere, istituite presso ospedali militari, di cui alla Legge n. 210 del 1992 articolo 4 ai fini della decorrenza della prescrizione.
In linea generale non puo’ ritenersi che solo con la comunicazione di tale responso inizi a decorrere la prescrizione, come pure sostenuto da parte della giurisprudenza di merito.
Tale tesi non pare convincente, per diversi ordini di motivi: perche’ offre effettivamente il destro al creditore per dilatare a suo piacere il corso della prescrizione; perche’ potrebbe portare ad affermare che il dies a quo inizi anche a decorrere a causa gia’ iniziata, negando l’effetto interrartivo connaturato alla proposizione dell’azione; perche’ rischia di enfatizzare il ruolo della consulenza medico – legale (effettuata peraltro in riferimento al diverso procedimento di liquidazione dell’indennizzo). Inoltre e’ illogico ritenere che il decorso del termine di prescrizione possa iniziare dopo che la parte si e’ comunque attivata per chiedere un indennizzo per lo stesso fatto lesivo, pur nella diversita’ tra diritto all’indennizzo e diritto al pieno risarcimento di tutte le conseguenze del fatto dannoso.
Tenuto conto che l’indennizzo e’ dovuto solo in presenza di danni irreversibili da vaccinazioni, emotrasfusioni o somministrazioni di emoderivati, appare ragionevole ipotizzare che dal momento della proposizione della domanda amministrativa la vittima del contagio deve comunque aver avuto una sufficiente percezione sia della malattia, sia del tipo di malattia che delle possibili conseguenze dannose, percezione la cui esattezza viene solo confermata con la certificazione emessa dalle commissioni mediche. Occorre che il giudice proceda ad un’accurata disamina, puntualmente motivata per sottrarsi al sindacato di legittimita’, della diligenza che ha contrassegnato l’atteggiamento della vittima a fronte della sua sofferenza, ovvero alla verifica, avuto riguardo alle particolarita’ della fattispecie, della diligenza impiegata dalla vittima nell’accedere alle informazioni necessarie per risalire dalla malattia esteriorizzatasi alle sue cause, e, infine, al responsabile del danno.
12. Ne consegue che nella fattispecie sono infondate le censure relative alla decorrenza decennale della prescrizione del diritto al risarcimento del danno per pretesa responsabilita’ contrattuale del Ministero, ovvero perche’ il fatto costituisca un’ipotesi di reato di epidemia colposa o lesioni personali plurime, mentre e’ fondata la censura (punto 2.3. del ricorso) relativamente al dies a quo della decorrenza della prescrizione quinquennale, avendo il Giudice di merito fatto decorrere la stessa dalla data della trasfusione in luogo di quella in cui il danneggiato ha percepito (o avrebbe dovuto percepire) non solo la malattia, ma anche che essa era conseguenza della trasfusione con sangue infetto.
13. Quanto alla censura sollevata con il presente ricorso, (motivo 2.4.) secondo cui la richiesta di indennizzo ha effetto interruttivo della prescrizione, essa e’ infondata.
Tale richiesta non puo’ avere alcun effetto interruttivo della diversa domanda di risarcimento danni, attesa l’ontologica diversita’ tra l’indennizzo – indifferente a qualsiasi rilievo sotto il profilo della colpa, e il danno. Come e’ giurisprudenza pacifica di questa Corte, ai sensi dell’articolo 2943 c.c., comma 1, non ogni domanda ha effetto interruttivo della prescrizione, ma soltanto quella con cui l’attore chieda il riconoscimento e la tutela del diritto di cui si eccepisca la prescrizione (Cass. 16/01/2006, n. 726; Cass. 08/02/2006, 2811). Cio’ vale a maggior ragione per la domanda avanzata in sede amministrativa di indennizzo, nei confronti della prescrizione della domanda di risarcimento del danno.
14. In definitiva va dichiarato inammissibile il ricorso nei confronti della USL (OMESSO) di Napoli. Esistono giusti motivi per compensare le spese di questo giudizio tra il ricorrente e la Usl (OMESSO).
Vanno accolti parzialmente il primo ed il secondo motivo di ricorso nei confronti del Ministero della Salute; va cassata, in relazione, l’impugnata sentenza, con rinvio, anche per le spese del giudizio di cassazione ad altra sezione della Corte di appello di Napoli, che si uniformera’ ai principi di cui ai punti 5.11. e 10.6.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso nei confronti della USL (OMESSO) di Napoli e compensa le spese di questo giudizio tra il ricorrente e la Usl.
Accoglie nei termini di cui in motivazione il primo ed il secondo motivo di ricorso nei confronti del Ministero della Salute. Cassa, in relazione, l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.