Corte di Cassazione, Sezione 3 civile Sentenza 12 aprile 2018, n. 9048
In merito alla liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa la Corte ha enunciato i seguenti principi di diritto.
Il danno da perdita della capacita’ di lavoro deve essere liquidato:
1) sommando e rivalutando i redditi gia’ perduti dalla vittima tra il momento del fatto illecito e il momento della liquidazione;
2) capitalizzando i redditi che la vittima perdera’ dal momento della liquidazione in poi, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’eta’ della vittima al momento della liquidazione.
Quando il danno da perdita della capacita’ di lavoro sia patito da persona che al momento del fatto non era in eta’ da lavoro, la liquidazione deve avvenire:
1) sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima tra il momento in cui ha raggiunto l’eta’ lavorativa, e quello della liquidazione;
2) capitalizzando i redditi futuri, che la vittima perdera’ dal momento della liquidazione in poi, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’eta’ della vittima al momento della liquidazione;
3) se la liquidazione dovesse avvenire prima del raggiungimento dell’eta’ lavorativa da parte della vittima, la capitalizzazione dovra’ avvenire o in base ad un coefficiente corrispondente all’eta’ della vittima al momento del presumibile ingresso nel mondo del lavoro; oppure in base ad un coefficiente corrispondente all’eta’ della vittima al momento della liquidazione, ma in questo caso previo abbattimento del risultato applicando il coefficiente di minorazione per anticipata capitalizzazione.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere
Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere
Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 4122-2015 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI (OMISSIS), in persona del Rettore pro tempore, domiciliata ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui e’ rappresentata e difesa per legge;
– controricorrente –
e contro
SPA (OMISSIS), SPA (OMISSIS);
– intimati –
sul ricorso 4287-2015 proposto da:
UNIVERSITA’ STUDI (OMISSIS), in persona del Rettore pro tempore, domiciliata ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui e’ rappresentata e difesa per legge;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), (OMISSIS), quest’ultima in proprio e nella qualita’ di tutrice dell’interdetto (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del controricorso;
(OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del controricorso;
– controricorrenti –
e contro
(OMISSIS) SPA;
– intimata –
avverso la sentenza n. 4514/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 30/12/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/12/2017 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, inammissibilita’ e in subordine rigetto dell’incidentale;
udito l’Avvocato dello Stato (OMISSIS).
FATTI DI CAUSA
1. Nel 1997 i coniugi (OMISSIS) e (OMISSIS), sia in proprio che quali rappresentanti ex lege dei propri figli minori (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), convennero dinanzi al Tribunale di Napoli l’Universita’ degli Studi di (OMISSIS) (d’ora innanzi, per brevita’, “l’Universita’”), esponendo che:
(-) (OMISSIS) l'(OMISSIS) diede alla luce il proprio figlio primogenito (OMISSIS), nel reparto di ginecologia ed ostetricia del Policlinico Universitario, gestito dall’Universita’;
(-) il bimbo nacque con un grave ritardo neuromotorio dovuto ad ipossia cerebrale intra partum;
(-) il danno fu causato dalla colpevole condotta dei sanitari del Policlinico Universitario, i quali nonostante un evidente quadro sintomatico di sofferenza fetale, non eseguirono prontamente un parto cesareo, non sorvegliarono adeguatamente la gestante durante il travaglio, e comunque le somministrarono dosi eccessive di ossitocina, che si rivelarono controproducenti rispetto al felice esito del parto.
2. L’Universita’ si costitui’, negando la propria responsabilita’ e contestando il quantum debeatur.
Con sentenza 12 marzo 2004 n. 3055 il Tribunale di Napoli accolse la domanda.
La sentenza venne appellata da tutte le parti.
3. Con sentenza 30 dicembre 2013 n. 4514 la Corte d’appello di Napoli accolse parzialmente tanto l’appello principale proposto dall’Universita’, quanto l’appello incidentale proposto da (OMISSIS) e (OMISSIS), sia in proprio che quali rappresentanti dei propri figli minori.
Per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte d’appello liquido’ in misura piu’ cospicua, rispetto a quanto ritenuto dal Tribunale, sia il danno (patrimoniale e non patrimoniale) patito da (OMISSIS), sia il danno patrimoniale patito dai suoi genitori.
La Corte d’appello ritenne invece, accogliendo sul punto il gravame dell’Universita’, che non spettasse alcun risarcimento ai minori (OMISSIS) e (OMISSIS), fratelli postumi di (OMISSIS), poiche’, essendo nati dopo quest’ultimo, non poteva dirsi sussistente un valido nesso di causa fra l’errore dei sanitari e il danno da essi lamentato.
4. La sentenza d’appello e’ stata impugnata per cassazione:
(-) da (OMISSIS) e (OMISSIS), con ricorso fondato su due motivi;
(-) dall’Universita’ degli Studi di (OMISSIS), con ricorso autonomo (ma da qualificare come incidentale, perche’ proposto per secondo), fondato su due motivi.
Al ricorso dell’Universita’ hanno resistito con due distinti controricorsi (OMISSIS) e (OMISSIS) da un lato, e gli altri intimati dall’altro.
I germani (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno depositato due distinte memorie ex articolo 378 c.p.c.: l’una per sostenere il ricorso da essi proposto, l’altra per contrastare quello proposto dall’Universita’.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo del ricorso principale.
1.1. Col primo motivo di ricorso i ricorrenti principali sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli articoli 1218, 1223, 1225, 2043, 2056, 2059 e 2909 c.c.; articoli 324 e 346 c.p.c.; articolo 185 c.p..
Il motivo sostiene una tesi giuridica cosi’ riassumibile:
(-) il giudice d’appello ha rigettato la domanda proposta dai fratelli della vittima primaria (ovvero il bimbo nato con handicap a causa dell’ipossia intra partum) sul presupposto che mancasse il nesso di “causalita’ giuridica”;
(-) parlando di “causalita’ giuridica”, la Corte d’appello ha implicitamente fatto riferimento alla previsione di cui all’articolo 1225 c.c.;
(-) il giudice di primo grado, tuttavia, aveva qualificato la domanda attorea proposta dai fratelli della vittima primaria come “azione contrattuale e cumulativa extracontrattuale”;
(-) tale qualificazione non era stata impugnata dall’Universita’, con la conseguenza che su essa si era formato il giudicato;
(-) ergo, il giudicato formatosi sulla qualificazione extracontrattuale della domanda impediva l’applicabilita’ dell’articolo e 1225 c.c..
1.2. Il motivo e’ infondato.
I ricorrenti in sostanza lamentano la formazione del giudicato sulla qualificazione giuridica della loro domanda, per trarne la conseguenza che, definitivamente qualificata la loro azione come extracontrattuale, essi avevano diritto al risarcimento anche dei danni imprevedibili, dal momento che l’irrisarcibilita’ di questi ultimi e’ prevista dall’articolo 1225 c.c. per le sole ipotesi di inadempimento contrattuale.
Ma a questa conclusione osta la circostanza che l’appello proposto dall’Universita’, col quale si contestava l’esistenza e la risarcibilita’ del danno patito da fratelli postumi della vittima primaria, ha impedito la formazione di qualsiasi giudicato tanto sull’esistenza del danno, quanto sulla sua derivazione causale dall’illecito, quanto, infine, sulla sua risarcibilita’.
Infatti e’ certamente vero che il giudicato possa formarsi anche sulla qualificazione giuridica della domanda adottata dal primo giudice (cosi’, tra le tante, Sez. 2, Sentenza n. 1152 del 10/05/1963; da ultimo, nello stesso senso, Sez. 2, Sentenza n. 18427 del 01/08/2013).
Questa regola ha tuttavia un limite: nessun giudicato puo’ formarsi sulla qualificazione giuridica data dal primo giudice alla domanda, quando l’appellante, pur non contestando formalmente quella qualificazione, col suo gravame sottoponga comunque al giudice d’appello una questione tale che, per essere accolta, presuppone una qualificazione giuridica della domanda diversa da quella adottata dal primo giudice.
Questo principio, applicato alla materia del risarcimento del danno, comporta che quando la pronuncia sull’esistenza e sulla risarcibilita’ del danno civile dipenda dalla qualificazione della domanda, l’appello con cui si deduca l’inesistenza del danno rimette necessariamente in discussione anche la suddetta qualificazione, ed impedisce la formazione del giudicato.
Nel nostro caso pertanto, una volta accolta dal Tribunale la domanda di risarcimento del danno proposta da (OMISSIS) e (OMISSIS), ed una volta proposta impugnazione avverso il capo di sentenza che ha ritenuto esistente quel danno, il giudice d’appello venne per cio’ solo investito del potere di riqualificare ex officio la domanda di risarcimento.
Questi principi sono da molti anni pacifici nella giurisprudenza di questa Corte: a partire da Sez. 3, Sentenza n. 2734 del 25/06/1977 (in seguito sempre conforme), la quale appunto stabili’ che “quando la qualificazione giuridica dei fatti costituisce esclusivamente una premessa logica della decisione di merito e non una questione formante oggetto di una specifica ed autonoma controversia, l’oggetto della pronuncia del giudice e’ costituito esclusivamente dall’attribuzione (…) del bene della vita conteso, onde il giudicato si forma sull’accoglimento o sul rigetto della domanda e soltanto in via indiretta e mediata sulle premesse meramente logiche della decisione; con la conseguenza che, se viene impugnata la pronunzia sul merito, il giudice dell’impugnazione non e’ in alcun modo vincolato ai criteri seguiti dal primo giudice per procedere alla qualificazione giuridica dei fatti”.
A tale principio deve pertanto darsi, in questa sede, continuita’.
2. Il secondo motivo del ricorso principale.
2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli articoli 1223, 2043, 2056, 2059, 2697, 2727 e 2729 c.c.; articolo 115 c.p.c.; articoli 40 e 41 c.p., articoli 2, 3 e 29 Cost..
Deducono, al riguardo, che – anche a prescindere dall’applicabilita’ al presente giudizio dell’articolo 1225 c.c. – la Corte d’appello avrebbe comunque violato le regole che disciplinano il rapporto di causalita’ materiale tra illecito e danno.
Assumono che, nel caso di specie, si sarebbe dovuto ritenere conforme a normalita’ che i fratelli di persona nata con gravi malformazioni soffrano per le condizioni del proprio familiare, e di conseguenza si sarebbe dovuta affermare, invece che negare, l’esistenza d’un valido nesso di causa tra l’errore dei sanitari e il danno non patrimoniale patito dagli odierni ricorrenti.
Soggiungono essere “assolutamente irrilevante” (cosi’ il ricorso, p. 44) la circostanza che essi siano nati dopo la commissione del fatto illecito. Sostengono di avere anch’essi diritto a vivere in una famiglia serena, e che tale diritto e’ stato leso dall’errore commesso dai sanitari, i quali – provocando le lesioni al loro fratello prenato (OMISSIS) – fecero si’ che essi, alla loro nascita, vennero a trovarsi in una “una drammatica situazione familiare”.
2.2. Il motivo e’ infondato.
E’ irrilevante, nel presente giudizio, stabilire se il pregiudizio del quale gli odierni ricorrenti chiedono il ristoro debba essere disciplinato dalle regole sulla causalita’ materiale (dettate dagli articoli 40 e 41 c.p.), ovvero da quelle sulla causalita’ giuridica (articolo 1225 c.c.), perche’ tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, tutte le suddette regole impediscono di ravvisare un valido nesso di causa tra la condotta del sanitario che provochi lesioni ad un neonato, e il disagio dei fratelli venuti al mondo, rispettivamente, uno e sei anni dopo.
2.3. Tra quella condotta e quel danno non v’e’, in primo luogo, causalita’ materiale.
Il concepimento e la nascita d’un essere umano sono conseguenze di atti umani coscienti e volontari.
Qualsiasi atto umano cosciente e volontario, in quanto libero nel fine e non necessitato, per risalente opinione (filosofica, prima che giuridica), interrompe qualsiasi nesso di causa.
Mentre e’ infatti necessita’ fisica – ad esempio – che un grave sia attratto al suolo con un’accelerazione di 9,8 metri al secondo quadrato; e’ necessita’ logica che il quadrato di quattro sia sedici; e’ necessita’ chimica che idrogeno ed ossigeno formino una molecola di acqua, la scelta di generare o non generare figli non e’ una conseguenza necessitata di alcun atto o fatto altrui.
Ne consegue che la scelta dei genitori degli odierni ricorrenti di generare dei figli non puo’ dirsi “conseguenza” dell’errore commesso dai sanitari. E se quella scelta non fu conseguenza dell’errore medico, nemmeno potra’ esserlo il disagio e gli altri pregiudizi lamentati dagli odierni ricorrenti, venuti al mondo per effetto di quella scelta.
2.4. Tra la condotta dei sanitari e il danno lamentato dagli odierni ricorrenti, in secondo luogo, non puo’ esservi nemmeno un rapporto di causalita’ c.d. giuridica.
Le Sezioni Unite di questa Corte, infatti, chiamate a comporre i contrasti circa l’interpretazione dell’articolo 1223 c.c., e sul modo di intendere il concetto di “danni immediati e diretti”, hanno stabilito che:
(a) i danni “mediati e indiretti”, che l’articolo 1223 c.c. esclude dal novero della risarcibilita’, non vanno confusi coi danni c.d. “di rimbalzo o di riflesso”, i quali pure possono essere considerati conseguenza immediata e diretta dell’illecito;
(b) danni “da rimbalzo” sono quelli che:
(b’) costituiscono una “conseguenza indefettibile” dell’illecito; (b”) attingono in modo immediato persone diverse dalla vittima primaria dall’illecito;
(b”’) attingono persone collegate da un “legame significativo” gia’ esistente con il soggetto danneggiato in via primaria (per tutti questi principi si veda la motivazione di Sez. U, Sentenza n. 9556 del 01/07/2002).
Nel nostro caso, nessuno dei requisiti indicati sub (b) sussiste. Non il primo, perche’ la nascita degli odierni ricorrenti non puo’ dirsi una “conseguenza indefettibile” dell’errore commesso dai medici. Non il secondo, perche’ manca l’immediatezza: al momento del fatto illecito, infatti, nessuno degli odierni ricorrenti ancora esisteva.
Non il terzo, perche’ al momento della commissione dell’illecito non esisteva ancora alcun “legame significativo” tra la vittima primaria ed i suoi fratelli, suscettibile di essere attinto dall’illecito.
2.5. Fin qui gli argomenti giuridici.
Le deduzioni dei ricorrenti appaiono tuttavia non condivisibili anche sul piano della logica formale.
Ammettere, infatti, che il fratello postumo d’un bimbo nato invalido per colpa d’un medico possa domandare a quest’ultimo il risarcimento del danno consistito nel nascere in una famiglia non serena, produrrebbe i seguenti effetti paradossali:
(a) in teoria, anche la madre potrebbe essere ritenuta responsabile del suddetto danno, per aver messo al mondo un secondo figlio, pur sapendo della preesistenza d’un fratello invalido;
(b) non solo nel caso di errore medico, ma dinanzi a qualsiasi fatto illecito lesivo dell’integrita’ psicofisica, tutti i parenti postumi della vittima primaria potrebbero domandare un risarcimento al responsabile; e sinanche il coniuge che contragga le nozze dopo l’infortunio del partner sarebbe legittimato alla richiesta di risarcimento, senza limiti di generazioni o di tempo;
(c) non solo nel caso di danno non patrimoniale, ma anche per il danno patrimoniale i nati postumi potrebbero domandare il risarcimento all’autore dell’illecito: cosi’, ad esempio, i figli postumi del creditore insoddisfatto potrebbero pretendere il danno dal debitore insolvente, per essere nati in una famiglia povera.
L’evidente insostenibilita’ di tali approdi evidenzia, in virtu’ della regola della reductio ad absurdum, l’erroneita’ del presupposto su cui si fondano, e cioe’ che persone non solo non nate, ma neanche concepite al momento della commissione del fatto illecito, possano domandare al responsabile di questo un risarcimento.
2.6. Resta solo da aggiungere che gli argomenti appena spesi non sono contrastati dal precedente di questa Corte, nel quale venne ammessa la risarcibilita’ del danno patito dai fratelli di persona nata invalida in conseguenza d’un errore dei sanitari (Sez. 3, Sentenza n. 16754 del 02/10/2012). In quel caso infatti, il risarcimento venne chiesto dai fratelli prenati rispetto alla vittima primaria, e cio’ rende inapplicabili al presente giudizio i principi affermati dalla sentenza appena ricordata, senza alcuna necessita’ di ridiscuterne qui la saldezza.
3. Il primo motivo del ricorso incidentale.
3.1. Col primo motivo di ricorso l’amministrazione ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’articolo 2059 c.c..
Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe duplicato il risarcimento del danno non patrimoniale patito da (OMISSIS).
Il Tribunale, infatti, nella stima del danno non patrimoniale dapprima monetizzato il danno alla salute in base ai criteri predisposti in via equitativa dal Tribunale di Milano, e poi aveva aumentato il risultato per tener conto dei pregiudizi alla vita di relazione della vittima.
In particolare, il primo giudice aveva liquidato il danno biologico in base alle suddette tabelle, ed aggiunto un ulteriore importo di 361.465 Euro, pari alla meta’ del danno biologico, per tenere conto “della totale inesistenza della vita di relazione ed al solo fine di adeguare il risarcimento alla peculiare condizione del caso”.
Pertanto, conclude la ricorrente incidentale, poiche’ il ristoro dei pregiudizi relazionali era stato gia’ considerato dal Tribunale con l’elevare il risarcimento standard del danno biologico di 361.465 Euro, la Corte d’appello liquidando un ulteriore importo a tale titolo ha duplicato il risarcimento.
3.2. Del ricorso incidentale tutti i controricorrenti hanno eccepito l’inammissibilita’, sotto vari profili.
3.2.1. (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno eccepito la tardivita’ del ricorso incidentale, perche’ ad essi notificato presso i rispettivi genitori, i quali a causa del raggiungimento della maggiore eta’ degli intimati avevano perduto il potere rappresentativo di cui all’articolo 320 c.c..
Tale eccezione e’ inammissibile per difetto di interesse.
Il ricorso incidentale dell’Universita’, infatti, anche se indica tra i destinatari della notifica (OMISSIS) e (OMISSIS), non ha censurato alcuna statuizione della sentenza d’appello che li riguardi.
Gli stessi (OMISSIS) e (OMISSIS), infatti, correttamente ammettono nel loro controricorso (p. 21) che “l’Universita’ nulla ha lamentato nei confronti dei sigg.ri (OMISSIS) e (OMISSIS)”.
Pertanto, non potendo nuocere in alcun modo il ricorso dell’Universita’ alla posizione dei suddetti, nemmeno mette conto stabilire se il ricorso fu ad essi notificato tempestivamente o intempestivamente.
Nemmeno e’ necessario scrutinare tale eccezione ai fini delle spese di lite, dal momento che, mancando qualsiasi domanda dell’Universita’ nei confronti dei germani (OMISSIS), nemmeno sarebbe concepibile una sua soccombenza rispetto ad essi.
3.2.2. La difesa di (OMISSIS), come in epigrafe rappresentato, ha poi eccepito l’inammissibilita’ del ricorso dell’Universita’ per tardivita’.
A fondamento di tale eccezione ha formulato una tesi cosi’ riassumibile:
(-) (OMISSIS), minorenne all’epoca dell’introduzione del giudizio d’appello, divenne maggiorenne, e venne dichiarato interdetto, nel corso del giudizio di gravame (protrattosi per ben nove anni);
(-) l’Universita’ venne portata a conoscenza di tale circostanza allorche’ le venne notificata la copia esecutiva della sentenza d’appello (18.4.2014) ed il precetto (18.9.2014), atti dai quali risultava che tutore dell’interdetto era la madre, (OMISSIS);
(-) l’Universita’ tuttavia notifico’ il suo ricorso per cassazione non a (OMISSIS) nella qualita’ di tutore di (OMISSIS), ma a (OMISSIS) “quale genitore e legale rappresentante di (OMISSIS)” (cosi’ il controricorso, p. 20).
Questo avrebbe comportato, secondo la difesa del controricorrente, l'”inesistenza” della notifica.
3.2.3. L’eccezione sopra riassunta e’ manifestamente infondata.
Il ricorso dell’Universita’ e’ stato notificato a (OMISSIS) quale rappresentante di (OMISSIS), ed e’ lo stesso controricorrente ad ammettere che a quella data (OMISSIS) era effettivamente la rappresentante di (OMISSIS).
L’atto, dunque, ha raggiunto il suo scopo, e nulla rileva quale fosse il titolo del potere rappresentativo del destinatario: se, cioe’, la legge (articolo 320 c.c.) od il provvedimento giurisdizionale di interdizione.
3.3. Nel merito, il primo motivo del ricorso incidentale e’ infondato.
La Corte d’appello, infatti, non ha liquidato nuove voci di danno in aggiunta a quelle gia’ liquidate dal Tribunale, ne’ ha risarcito pregiudizi identici, chiamandoli con nomi diversi.
La Corte d’appello ha semplicemente ritenuto che l’importo liquidato dal Tribunale a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale fosse incongruo, rispetto alle circostanze del caso concreto, e ne ha percio’ elevato l’ammontare (come si desume dalla p. 13, secondo capoverso, della sentenza impugnata): si tratta dunque d’una valutazione di merito, non censurabile in questa sede.
4. Il secondo motivo del ricorso incidentale.
4.1. Col secondo motivo di ricorso l’Universita’ lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli articoli 1223 e 2056 c.c..
Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello ha sovrastimato il danno patrimoniale da soppressione della capacita’ di lavoro patito dalla vittima primaria.
Espone che la Corte d’appello ha liquidato tale danno in forma di capitale, ottenuto capitalizzando il reddito annuo che la vittima, se fosse stata sana, avrebbe verosimilmente guadagnato (determinato in via equitativa in misura pari al triplo della pensione sociale).
Tuttavia, prosegue la ricorrente incidentale, la capitalizzazione sarebbe dovuta avvenire in base ad un coefficiente corrispondente all’eta’ che la vittima avrebbe avuto al momento dell’ingresso nel mondo del lavoro, perche’ e’ solo da quel momento che nel patrimonio della vittima si sarebbe iniziato a produrre il mancato guadagno.
4.2. Il motivo e’ fondato nella parte in cui deduce la violazione dell’articolo 1223 c.c..
Il danno patrimoniale derivante dalla perdita definitiva della capacita’ di lavoro e’ un danno permanente.
I danni permanenti possono essere liquidati sia in forma di rendita (articolo 2057 c.c.), sia in forma di capitale.
Per trasformare in capitale una rendita negativa, qual e’ la perdita costante e definitiva d’un reddito atteso, puo’ procedersi col metodo della capitalizzazione, consistente nel moltiplicare il reddito perduto per un coefficiente di costituzione delle rendite vitalizie, ovvero un numero idoneo a trasformare il valore d’una rendita percepibile per anni in un capitale di valore equivalente.
I coefficienti di costituzione delle rendite vitalizie vengono calcolati sulla base delle tavole di mortalita’ della popolazione residente, e variano in funzione inversa dell’eta’ dell’avente diritto: minore e’ l’eta’ di questi, maggiore e’ il coefficiente (e quindi il prodotto dell’operazione).
4.2. Quando il danno da perdita della capacita’ di lavoro sia patito da persona che aveva gia’, al momento del fatto illecito, un reddito da lavoro, questa Corte ha gia’ ripetutamente affermato che la liquidazione del danno in esame deve avvenire:
(a) sommando e rivalutando i redditi perduti dalla vittima, a causa dell’infortunio, dal momento dell’illecito al momento della liquidazione: per tale periodo, infatti, il lucro cessante e’ certo e gia’ verificatosi;
(b) capitalizzando i redditi futuri che la vittima presumibilmente perdera’, dal momento della liquidazione in poi, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’eta’ della vittima al momento in cui si compie l’operazione di liquidazione (Sez. 3, Sentenza n. 5795 del 11/06/1998; Sez. 3, Sentenza n. 11439 del 18/11/1997; Sez. 3, Sentenza n. 6403 del 28/11/1988; Sez. 3, Sentenza n. 5850 del 30/10/1980).
4.3. Analogo criterio non puo’, invece, essere adottato quando la capacita’ di lavoro venga perduta da un fanciullo o, come nel nostro caso, da un neonato.
Per comprendere questo principio occorre muovere dal rilievo, gia’ da molti anni compiuto da questa Corte, che la c.d. “incapacita’ lavorativa” non e’ il danno: essa e’ solo la causa del danno, il quale e’ invece costituito dalla perdita o dalla riduzione del reddito da lavoro (cosi’ gia’, lucidamente, Sez. 3, Sentenza n. 3961 del 21/04/1999, secondo cui “la riduzione della cosiddetta capacita’ lavorativa specifica non costituisce danno in se’ (…), ma rappresenta invece una causa del danno da riduzione del reddito).
Nel caso in cui l’infortunio totalmente invalidante sia patito da un lavoratore, la causa (perdita della capacita’ di lavoro) e l’effetto (perdita del reddito) sono contestuali. Quando si verifica la prima, sorge anche il secondo, e di conseguenza varranno le regole liquidatorie sopra ricordate: si dovra’ procedere alla sommatoria dei redditi passati, ed alla capitalizzazione dei redditi futuri, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’eta’ della vittima al momento della liquidazione.
Quando, invece, la perdita della capacita’ di lavoro sia patita da soggetto che non abbia ancora raggiunto l’eta’ lavorativa, si verifica uno scarto temporale tra il momento in cui si verifica la causa di danno (la perdita della capacita’ di lavoro) e quello in cui si manifestera’ il suo effetto (la perdita del reddito da lavoro).
Quest’ultimo infatti non sorge al momento del fatto illecito, per l’ovvia considerazione che il minore, anche se fosse rimasto sano, non avrebbe comunque prodotto redditi, e di conseguenza non poteva perderli.
Il danno patito dal minore che perda la capacita’ di lavoro iniziera’, invece, a prodursi nel momento in cui la vittima, raggiunta l’eta’ nella quale, se fosse rimasto sano, avrebbe verosimilmente iniziato a lavorare, dovra’ rinunciare al lavoro ed al reddito da esso ricavabile.
Per tenere conto di questo divario temporale tra il momento dell’illecito ed il momento di insorgenza del danno il giudice di merito, quando liquida il danno permanete col metodo della capitalizzazione, puo’ teoricamente ricorrere a due sistemi:
(a) capitalizzare il reddito perduto in base ad un coefficiente corrispondente all’eta’ della vittima al momento del danno, e poi ridurre il risultato moltiplicandolo per il c.d. coefficiente di minorazione per anticipata capitalizzazione;
(b) capitalizzare il reddito perduto in base ad un coefficiente corrispondente all’eta’ della vittima al momento in cui avrebbe presumibilmente iniziato a lavorare.
Diversamente, infatti, la vittima si vedrebbe assegnare una somma di denaro a titolo di ristoro di redditi mai perduti, e cio’ costituirebbe una violazione dell’articolo 1223 c.c..
4.4. La sentenza impugnata non si e’ attenuta a questi principi.
Col proprio atto d’appello, infatti, l’Universita’ si era doluta del fatto che la Corte d’appello avesse liquidato il danno da perdita della capacita’ di lavoro patito da (OMISSIS) omettendo di capitalizzare il reddito da questi perduto in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’eta’ che la vittima avrebbe avuto al momento di ingresso nel mondo del lavoro.
La Corte d’appello ha rigettato tale doglianza, ma totalmente travisandone il senso: si legge infatti a p. 9, ultimo capoverso, e 10, primo capoverso, della sentenza impugnata, che era facolta’ del Tribunale, nel liquidare equitativamente il danno in questione, fare riferimento alla “pensione sociale del giorno in cui e’ stata decisa la controversia, anziche’ a quella del giorno dell’evento”.
Cosi’ giudicando, la Corte d’appello da un lato sembra avere frainteso l’effettivo contenuto dell’appello proposto dall’Universita’, col quale si lamentava che la sovrastima del danno patrimoniale era dipesa non gia’ dall’aver posto a base del calcolo un reddito sovrastimato, ma dall’aver adottato un coefficiente di capitalizzazione sovrastimato.
Dall’altro lato, in ogni caso, la liquidazione in forma di capitale sarebbe dovuta avvenire, per quanto detto, ponendo a base del calcolo un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’eta’ della vittima al momento in cui avrebbe verosimilmente iniziato a lavorare; ovvero, se tale eta’ fosse gia’ trascorsa al momento della decisione d’appello, in base ad un coefficiente corrispondente all’eta’ della vittima al momento della liquidazione (nel 2013, epoca della sentenza d’appello, (OMISSIS) aveva infatti ormai 24 anni compiuti di eta’).
4.5. Rispetto ai rilievi che precedono, non sembrano decisive le controdeduzioni svolte dai coniugi (OMISSIS) alle pp. 31-37 del proprio controricorso.
I controricorrenti al secondo motivo del ricorso principale hanno opposto tre eccezioni:
(a) che esso non sarebbe decisivo, in quanto investe una soltanto delle plurime rationes decidendi su cui la sentenza impugnata si fonda, sul punto della stima del danno da incapacita’ di lavoro;
(b) che esso sarebbe comunque infondato, perche’ la statuizione impugnata e’ conforme al consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui “il criterio di capitalizzazione di cui al Regio Decreto n. 1403 del 1922 non e’ tassativo ed inderogabile”;
(c) infine, che i coefficienti di capitalizzazione invocati dalla ricorrente (quelli, appunto, allegati al r.d. 1403 del 1922) sono anacronistici, perche’ basati sulle tavole di mortalita’ ricavate dal censimento del 1911.
4.5.1. La prima di tali eccezioni non coglie nel segno, in quanto la sentenza impugnata non contiene affatto plurime rationes decidendi. La Corte d’appello ha infatti rigettato l’appello dell’Universita’, su questo punto, limitandosi ad affermare che il danno in questione va liquidato in via equitativa, e quindi puo’ essere stimato anche con criteri diversi dai coefficienti allegati al Regio Decreto n. 1403 del 1922.
Si tratta dunque d’una sola ratio decidendi (errata, per quanto detto, giacche’ l’appellante non pose il problema di quale coefficiente applicare, ma dell’eta’ cui il coefficiente comunque individuato doveva corrispondere).
4.5.2. La seconda delle suddette eccezioni e’ infondata, in quanto non pertinente rispetto al contenuto dell’impugnazione. L’Universita’ pose infatti alla Corte d’appello la seguente questione: una volta scelto di liquidare il danno permanente da incapacita’ di lavoro con la tecnica della capitalizzazione, dovra’ scegliersi un coefficiente di capitalizzazione (quale che ne sia la fonte) corrisponde all’eta’ della vittima al momento della nascita, oppure all’eta’ della vittima al momento del presumibile ingresso nel mondo del lavoro-
Ed a tale quesito, per quanto detto, la corte d’appello non ha dato risposta corretta.
4.5.3. La terza delle suddette eccezioni e’ irrilevante, perche’ estranea al thema decidendum in discussione dinanzi a questa Corte.
Stabilire se i coefficienti di cui al Regio Decreto n. 1403 del 1922 siano o no utilizzabili per la stima del danno permanente e’ questione che dovra’ essere riesaminata dal giudice del rinvio, in conseguenza della necessita’ di liquidare ex novo il danno patrimoniale patito da (OMISSIS).
Sara’ tuttavia opportuno ricordare, a tal riguardo, che questa Corte ha gia’ stabilito il danno permanente da incapacita’ di guadagno non puo’ essere liquidato in base ai coefficienti di capitalizzazione approvati con Regio Decreto n. 1403 del 1922, i quali, a causa dell’innalzamento della durata media della vita e dell’abbassamento dei saggi di interesse, non garantiscono l’integrale ristoro del danno, e con esso il rispetto della regola di cui all’articolo 1223 c.c. (Sez. 3, Sentenza n. 20615 del 14/10/2015).
4.5. La sentenza va dunque cassata con rinvio su questo punto.
La Corte d’appello di Napoli, nel tornare ad esaminare la doglianza proposta dall’Universita’, applichera’ i seguenti principi di diritto:
(A) Il danno da perdita della capacita’ di lavoro deve essere liquidato:
(a’) sommando e rivalutando i redditi gia’ perduti dalla vittima tra il momento del fatto illecito e il momento della liquidazione;
(a”) capitalizzando i redditi che la vittima perdera’ dal momento della liquidazione in poi, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’eta’ della vittima al momento della liquidazione.
(B) Quando il danno da perdita della capacita’ di lavoro sia patito da persona che al momento del fatto non era in eta’ da lavoro, la liquidazione deve avvenire:
(b’) sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima tra il momento in cui ha raggiunto l’eta’ lavorativa, e quello della liquidazione;
(b”) capitalizzando i redditi futuri, che la vittima perdera’ dal momento della liquidazione in poi, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’eta’ della vittima al momento della liquidazione;
(b”’) se la liquidazione dovesse avvenire prima del raggiungimento dell’eta’ lavorativa da parte della vittima, la capitalizzazione dovra’ avvenire o in base ad un coefficiente corrispondente all’eta’ della vittima al momento del presumibile ingresso nel mondo del lavoro; oppure in base ad un coefficiente corrispondente all’eta’ della vittima al momento della liquidazione, ma in questo caso previo abbattimento del risultato applicando il coefficiente di minorazione per anticipata capitalizzazione.
5. Il terzo motivo del ricorso incidentale.
5.1. Col terzo motivo del proprio ricorso incidentale l’Universita’ lamenta, ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 5, che la sentenza impugnata sia affetta dal vizio di omesso esame d’un fatto decisivo.
Espone, al riguardo, come la Corte d’appello, accogliendo l’appello incidentale proposto dai danneggiati, abbia incrementato la liquidazione del danno patrimoniale patito dalla vittima primaria a dai suoi genitori, e consistente nelle spese mediche e di assistenza sostenute e da sostenere.
Tale danno, osserva la ricorrente, e’ stato liquidato assumendo in via equitativa che le suddette spese ascendessero ad Euro 600 annui, invece dei 300 Euro annui stimati dal Tribunale.
A tale stima oppone la ricorrente che sul punto la sentenza d’appello e’ “completamente sfornita di motivazione, non avendo la Corte territoriale operato il minimo riferimento alle condizioni materiali oggettive che giustificherebbero la necessita’ di una liquidazione maggiore”.
Sostiene che nulla, inoltre, giustificava la maggiore liquidazione compiuta dalla Corte d’appello, anche alla luce della considerazione che la vittima primaria avrebbe goduto della pensione di invalidita’ e dell’assistenza del Servizio Sanitario Nazionale.
5.2. Il motivo, nella parte in lamenta che la sentenza non avrebbe tenuto conto dell’ausilio che la vittima avrebbe ricevuto dagli enti previdenziali e dal Servizio Sanitario Nazionale, il motivo e’ inammissibile.
L’Universita’, infatti, in violazione dei precetti di cui all’articolo 366 c.p.c., nn. 3 e 6, non deduce dove e quando abbia mai dedotto che di tali emolumenti si tenesse conto nella stima del danno; ne’ donde risulti la prova della percezione di essi da parte del danneggiato; ne’ l’ammontare di essi.
Sicche’, a fronte dell’evidente esiguita’ dell’importo liquidato dalla Corte d’appello a titolo delle spese di assistenza, a fronte degli ingenti e notori costi che l’assistenza d’una persona totalmente invalida comporta, non e’ da escludere che la Corte d’appello abbia determinato le spese di assistenza in misura cosi’ modesta proprio perche’ ha tenuto conto dei benefici comunque derivanti dall’assistenza e dalla previdenza pubbliche.
5.3. Nella parte, invece, in cui il motivo in esame lamenta l’omesso esame del fatto decisivo, esso e’ manifestamente infondato, alla luce delle ampie considerazioni svolte a pagina 14, secondo capoverso, della sentenza impugnata.
6. Le spese.
6.1. Le spese del presente grado di giudizio saranno liquidate dal giudice del rinvio.
6.2. Il rigetto del ricorso principale costituisce il presupposto, del quale si da’ atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico dei ricorrenti principali di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17).
P.Q.M.
la Corte di cassazione:
(-) rigetta il ricorso principale;
(-) rigetta il primo motivo del ricorso incidentale; dichiara inammissibile il terzo motivo del ricorso incidentale;
(-) accoglie il secondo motivo del ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimita’;
(-) da’ atto che sussistono i presupposti previsti dal Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di (OMISSIS) e (OMISSIS), in solido, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.