Indice dei contenuti
Corte di Cassazione, Sezione 2 civile Sentenza 25 gennaio 2006, n. 1422
La ratio dell’articolo 1131 comma 2, del Cc -che consente di convenire in giudizio l’amministratore del condominio per qualunque sanzione concernente le parti comuni dell’edificio- è quella di favorire il terzo il quale voglia iniziare un giudizio nei confronti del condominio, consentendogli di notificare la citazione al solo amministratore anziché citare tutti i condomini. Nulla, contemporaneamente, nella stessa norma, giustifica la conclusione secondo cui l’amministratore sarebbe anche legittimato a resistere in giudizio senza essere a tanto autorizzato dall’assemblea. Considerato, inoltre, che la cosiddetta autorizzazione dell’assemblea a resistere in giudizio in sostanza non è che un mandato d’amministratore a conferire la procura ad litem al difensore che la stessa assemblea ha il potere di nominare, in definitiva, l’amministratore non svolge che una funzione di mero nuncius e tale autorizzazione non può valere che per il grado di giudizio in relazione al quale viene rilasciata. Deriva, da quanto precede, pertanto, che è inammissibile il ricorso per cassazione, avverso sentenza sfavorevole al condominio, proposto dall’amministratore di questo senza espressa autorizzazione della assemblea.
Per una più completa ricerca di giurisprudenza, si consiglia invece la Raccolta di massime delle principali sentenze della Cassazione che è consultabile on line oppure scaricabile in formato pdf
Per ulteriori approfondimenti in materia condominiale si consiglia la lettura dei seguenti articoli:
La responsabilità parziaria e/o solidale per le obbligazioni condominiali
Lastrico solare ad uso esclusivo regime giuridico e responsabilità
L’impugnazione delle delibere condominiali ex art 1137 cc
L’amministratore di condominio: prorogatio imperii
La revoca dell’amministratore di condominio
Rappresentanza giudiziale del condominio: la legittimazione a resistere in giudizio ed a proporre impugnazione dell’amministratore di condominio.
L’obbligo dell’amministratore di eseguire le delibere della assemblea di condominio e la conseguente responsabilità.
La responsabilità dell’amministratore di condominio in conseguenza del potere – dovere di curare l’osservanza del regolamento condominiale.
La responsabilità (civile) dell’amministratore di condominio.
Recupero credito nei confronti del condomino moroso
Corte di Cassazione, Sezione 2 civile Sentenza 25 gennaio 2006, n. 1422
Integrale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Mario Spadone – Presidente
Dott. Roberto Michele Triola – Consigliere Relatore
Dott. Giovanni Settimj – Consigliere
Dott. Umberto Goldoni – Consigliere
Dott. Francesco Paolo Fiore – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Condomino Corso Ca. Is. 329 I Lotto Me., in persona dell’Amministratore pro tempore Gi. Ma, elettivamente domiciliato in Ro. Via Ce. 43, presso lo studio dell’Avvocato Ro. Ra., difeso dall’Avvocato Gi. Ca., giusta delega in atti;
ricorrente
contro
Ca. Bu.;
intimato
e sul 2° ricorso n. 01386/03 proposto da:
Ca. Bu., elettivamente domiciliato in Ro. Via An. Ba. 4, presso lo studio dell’Avvocato Ro. In., difeso dall’Avvocato An. Ge., giusta delega in atti;
controricorrente e ricorrente incidentale
contro
Condomino Corso Ca. Is. 329 I Lotto Me.;
intimato
avverso la sentenza n. 391/02 della Corte d’Appello di Messina, depositata il 20/07/02;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 01/12/05 dal Consigliere Relatore Dott. Roberto Michele Triola;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Ignazio Patrone che ha concluso in via principale l’inammissibilità e in subordine il rigetto del ricorso principale; accoglimento del ricorso incidentale.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato il 03 ottobre 1997 Ca. Bu. conveniva davanti al Tribunale di Messina il Condomino Corso Ca. Is. 329 I Lotto Me., nel quale era proprietario di una bottega, chiedendo che venisse accertata la illegittimità dell’uso del cortile comune come parcheggio da parte di alcuni condomini, in quanto vietato dal regolamento condominiale.
Il Condomino Corso Ca. Is. 329 I Lotto Me., costituitosi, resisteva alla domanda ed eccepiva che comunque si era realizzata l’usucapione del diritto di usare il cortile come parcheggio.
Con sentenza in data 27 febbraio 2001 il Tribunale di Messina accoglieva la domanda e rigettava l’eccezione di usucapione.
Il Condomino Corso Ca. Is. 329 I Lotto Me. proponeva appello, che veniva rigettato dalla Corte di Appello di Messina con sentenza in data 04 luglio 2002, in base alla seguente motivazione:
- A) In punto di fatto va precisato che la proprietà dell’atrio è attribuita, dal regolamento condominiale (di natura contrattuale, predisposto dalla società costruttrice), oltre che ai proprietari delle unità immobiliari che di esso si servono per accedere alle proprie abitazioni, ai proprietari delle botteghe ad esse sottostanti (art. 11); che Ca. Bu. è, per l’appunto, proprietario di una di tali botteghe; che il regolamento medesimo vieta espressamente (art. 2 lett. a) l’ingresso di veicoli di qualsiasi specie nell’androne (dal quale si accede all’atrio); che sono allegate agli atti alcune delibere (del 04.06.73; 26.10.81; del 30.10.82), con le quali si autorizzano i condomini a parcheggiare le proprie autovetture nel cortile condominiale, specificandosi che detta autorizzazione può essere rilasciata ai soli proprietari degli appartamenti; che, a quanto risulta da tali delibere, all’ingresso dell’androne era stato apposto un cancello, la cui chiave è stata consegnata ai soli proprietari autorizzati al parcheggio (ora, a quanto pare, sostituito da una sbarra, elevabile a mezzo di telecomando).
Va evidenziato che lo stesso appellante non contesta la qualità di Ca. Bu. di comproprietario dell’atrio, né si duole della decisione impugnata in ordine alla declaratoria di illegittimità delle delibere, con le quali si era disposta la destinazione dell’atrio a parcheggio e si era provveduto ad escludere da tale uso alcuni condomini: ma fonda l’impugnazione solo sui profili appresso esposti;
- B) Col primo motivo si deduce l’insussistenza dell’interesse ad agire di Ca. Bu. sotto il profilo che l’unica forma di utilizzazione dell’atrio condominiale per lui prospettabile (quella di trarre aria e luce da esso) non era in alcun modo pregiudicata dal parcheggio delle autovetture: mentre, essendo egli privo del diritto di accedere ad esso, non avrebbe alcun interesse giuridicamente rilevante ad opporsi all’uso, fattone da altri condomini.
La censura è infondata.
In primo luogo, risulta affatto ingiustificata la premessa, e cioè che il contenuto del diritto a usare della cosa comune di Ca. Bu., per il solo fatto di essere questi proprietario di una bottega anziché di un’unità abitativa, abbia un contenuto differente da quello degli altri condomini; laddove il suo diritto di proprietà condominiale lo abilita certamente ad accedere all’atrio come gli altri condomini, e comporta pertanto il suo interesse a verificare che l’uso di esso venga effettuato in conformità alla sua destinazione oggettiva e alle norme regolamentari e ad attivarsi affinché non venga attuata una forma di utilizzazione impropria e a lui preclusa (il regolamento condominiale, all’art. 11, attribuisce il diritto di calpestio, indiscriminatamente, a tutti i comproprietari dell’atrio).
In secondo luogo, in quanto la mera presenza di una norma regolamentare che disciplina l’uso della cosa comune fa sorgere un interesse, giuridicamente rilevante, di tutti i proprietari alla sua osservanza. E, benché si tratti di norma che, pur inserita in un regolamento contrattuale, ha natura regolamentare (in quanto disciplinante le modalità d’uso delle cose comuni), ed è quindi derogabile dalla maggioranza qualificata (ex art. 1136 c.c.; Cass. 5772/78; 208/85) dei condomini, non vi è dubbio che le relative delibere non siano opponibili all’odierno appellato (l’affermazione che il suo dante causa non sia stato convocato alle relative assemblee non è contestata e comunque non vi è alcuna prova alcuna del contrario).
- C) Col secondo motivo l’appellante si duole che il primo Giudice abbia immotivatamente disatteso la sua domanda, volta a far dichiarare che i condomini autorizzati avessero acquistato, a seguito di usucapione, il diritto di parcheggiare nell’atrio.
Anche tale censura è destituita di ogni fondamento.
Infatti è ben noto che, ai fini dell’usucapione, è necessario che sussista una situazione di possesso vero e proprio (e cioè l’esercizio autonomo di un potere di fatto corrispondente all’esercizio di un diritto reale) e non una semplice detenzione (la quale presuppone, di contro, che la relazione di fatto con la cosa tragga origine da una preventiva autorizzazione di colui che vanti lo jus possidendi sul bene). Orbene, dalle delibere richiamate si evince che i condomini autorizzati non posero in essere un autonomo atto di apprensione del bene, ma richiesero ed ottennero una formale autorizzazione dal condominio (nella delibera del 26.10.1981, anzi, si ribadisce espressamente che l’autorizzazione poteva essere concessa solo all’unanimità e revocata in qualunque momento) : di tal che non può minimamente dubitarsi che il rapporto di fatto concretamente instaurato vada qualificato come mera detenzione, inidonea a dar luogo ad usucapione.
A parte tale assorbente profilo, ritiene la Corte essere discutibile che il condominio sia legittimato a far valere l’usucapione, eventualmente verificatasi in favore di singoli condomini.
Contro tale decisione ha proposto ricorso per cassazione il condominio, con quattro motivi.
Resiste con controricorso Ca. Bu., che ha anche proposto ricorso incidentale, con un unico motivo.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi.
Da un punto di vista logico va esaminato per prima l’eccezione proposta da Ca. Bu., secondo la quale l’amministratore del condominio non avrebbe potuto proporre ricorso per cassazione senza una espressa autorizzazione dell’assemblea.
L’eccezione è fondata.
Il collegio ritiene, infatti, di aderire all’orientamento espresso da questa S.C. con la sentenza 26 novembre 2004 n. 22294, la quale ha affermato che: a) l’art. 1131 secondo comma, c.c., il quale prevede che l’amministratore può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell’edificio, trova la sua ratio ispiratrice nella intenzione del legislatore di favorire il terzo il quale voglia iniziare un giudizio nei confronti del condominio, consentendogli, invece di citare tutti i condomini, di notificare la citazione all’amministratore; b) nulla autorizza nella formulazione della norma in questione la conclusione secondo la quale l’amministratore sarebbe anche autorizzato a resistere in giudizio senza essere stato autorizzato dall’assemblea; c) in considerazione del fatto che l’autorizzazione dell’assemblea a resistere in giudizio, in sostanza non è che un mandato all’amministratore a conferire la procura ad litem al difensore che la stessa assemblea ha in potere di nominare, per cui, in definitiva, l’amministratore non svolge che una funzione di mero nuncius, tale autorizzazione non può valere che per il grado di giudizio in relazione al quale viene rilasciata; d) sembra comunque logico ritenere, che in linea di principio, il proseguimento del processo in caso di esito sfavorevole in prima istanza deve essere oggetto di una valutazione da parte di chi ha il potere deliberativo nell’ambito del condominio (l’assemblea) e non da parte di chi svolge compiti di natura essenzialmente esecutiva e gode di limitati poteri decisionali (l’amministratore).
Il ricorso principale va, pertanto, dichiarato inammissibile.
Con l’unico motivo del ricorso incidentale Ca. Bu. si duole del fatto che la Corte di Appello di Messina, pur essendo il condominio risultato soccombente, aveva compensato le spese limitandosi ad affermare la sussistenza di giusti motivi.
La doglianza è fondata.
E’ ricorrente nella giurisprudenza di questa S.C. l’affermazione che il provvedimento con il quale il Giudice di merito compensa tra le parti le spese è insindacabile in sede di legittimità, anche se motivato con un generico richiamato ai “giusti motivi” (cfr., in tal senso, da ultimo, sent.: 22 aprile 2005 n. 8540; 28 novembre 2003 n. 17692).
Si ritiene soltanto che ove il Giudice di merito motivi in ordine alla compensazione delle spese è possibile censurare la motivazione basata su ragioni illogiche o contraddittorie (cfr., in tal senso, da ultimo: sent. 17 marzo 2004 n. 5405).
Non si può non sottolineare la incoerenza di tale orientamento, secondo il quale se il Giudice non estrinseca quali sono i “giusti motivi” che lo hanno indotto a compensare le spese, limitandosi ad affermarne la sussistenza, in base ad un suo intimo apprezzamento, ma che potrebbero essere, in teoria, i più illogici ed i più “ingiusti”, la statuizione sarebbe incensurabile in sede di legittimità, mentre il contrario si verificherebbe nel caso in cui il Giudice, nel tentativo di giustificare la sua statuizione dovesse errare nell’individuare i giusti i motivi che la sorreggono.
In altri termini, contro l’arbitrio non vi sarebbe tutela, che invece, andrebbe riconosciuta nel caso di non corretto esercizio di un potere discrezionale.
A ogni modo, la tesi secondo la quale la compensazione delle spese per “giusti motivi” non necessiterebbe di motivazione non può essere condivisa per un duplice ordine di ragioni.
Il primo luogo, il riconoscimento dalla possibilità dell’esercizio da parte del Giudice di un potere discrezionale “puro”, cioè senza necessità di motivazione, in relazione a provvedimenti aventi carattere decisorio, anche se non attinenti al merito della controversia, sarebbe una anomalia nel sistema.
In secondo luogo, se si considera che la regolamentazione del regime delle spese è improntata al principio di causalità, del quale è espressione anche l’altra ipotesi espressamente contemplata nell’art. 92 secondo comma, c.c., che giustifica la compensazione delle spese (soccombenza parziale), ragioni di coerenza impongono di ritenere che i “giusti motivi” devono essere in concreto individuati esclusivamente in relazione a tale principio, il che significa il Giudice, oltre a non potere limitarsi ad affermarne la sussistenza a suo immotivato giudizio, non può a fare riferimento ad elementi che di tale esigenza non siano espressione (es.: qualità delle parti, ecc.).
Il collegio non può non concordare, poi, con quanto affermato dalla sentenza 05 maggio 1999 n. 4455 di questa S.C., la quale ha osservato che:
L’esercizio “arbitrario” nel senso ora precisato, del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali finisce con il risolversi – nei non pochi casi, quale quello di specie, in cui il valore della causa sia di non rilevante entità, ovvero risulti, in concreto, economicamente incomparabile rispetto alle spese processuali necessarie per instaurarla e per condurla a termine o in quelli in cui, comunque una parte ha avuto totalmente ragione, come nella specie – nel sostanziale diniego, o del diritto alla tutela giurisdizionale (soprattutto de minimis), ovvero dell’effettiva realizzazione del diritto sostanziale accertato e riconosciuto in giudizio, vale a dire nella palese violazione sia dell’art. 24, 1° comma, Cost. – il quale, garantendo a tutti la tutela giurisdizionale, non può non garantire anche il soddisfacimento “effettivo” di quel diritto (cfr., ad es., Corte Costituzionale, e pluribus, sentt. n. 419 del 1995 e 26 del 1999), anche attraverso il rigoroso rispetto della “legalità processuale” – sia, in definitiva, del fondamentale principio secondo cui il processo non deve comunque andare a danno della parte che ha (avuto) ragione.
Si può solo aggiungere che sarebbe incoerente, in un sistema nel quale il principio ispiratore di varie disposizioni (es.: trascrizione delle domande giudiziali) viene rinvenuto nella esigenza di garantire che la durata del processo non vada a danno di chi ha ragione, sia consentito, però, che l’esito favorevole di un processo possa ritorcersi, attraverso la compensazione delle spese di giudizio, in un danno per chi è risultato totalmente vittorioso.
Quale conseguenza dell’accoglimento del ricorso incidentale la sentenza impugnata va cassata, con rinvio, per un nuovo esame, alla Corte di Appello di Catania, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
la Corte riunisce i ricorsi; dichiara inammissibile il ricorso principale; accoglie il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte di Appello di Catania.