non integra il delitto di diffamazione (articolo 595 c.p.) la condotta di chi invii un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati contenente dubbi e perplessita’ sulla correttezza professionale di un legale, considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all’articolo 51 c.p., sub specie di esercizio del diritto di critica, preordinato ad ottenere il controllo di eventuali violazioni delle regole deontologiche, per il quale valgono i limiti ad esso connaturati – occorrendo, in primo luogo, che le accuse abbiano un fondamento o, almeno, che l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente (ancorche’ erroneamente) convinto di quanto afferma.
La pronuncia in oggetto affronta il tema della risarcibilità dei danni derivanti dalla lesione dell’onore e della reputazione, tema che può essere approfondito leggendo il seguente articolo: Diffamazione a mezzo stampa, profili risarcitori di natura civilistica.
Corte di Cassazione, Sezione 5 penale Sentenza 3 settembre 2018, n. 39486
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SABEONE Gerardo – Presidente
Dott. MAZZITELLI Caterina – Consigliere
Dott. SCOTTI U.L.C.G. – rel. Consigliere
Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere
Dott. BORRELLI Paola – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 19/04/2017 della CORTE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. PICARDI Antonietta, che ha concluso chiedendo il rigetto;
uditi i difensori:
l’avv. (OMISSIS), del Foro di Roma, difensore della parte civile, che deposita conclusioni unitamente alla nota spese;
l’avv. (OMISSIS), del Foro di Roma, difensore dell’imputato (OMISSIS), che si riporta ai motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Roma con sentenza del 19/4/2017 ha confermato, con aggravio delle spese del grado a favore della parte civile, la sentenza del Tribunale di Roma del 13/11/2014, appellata dall’imputato (OMISSIS), che, dopo averlo assolto dall’accusa per il reato ascrittogli di cui al Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 167, lo aveva dichiarato colpevole del reato di diffamazione ex articolo 595 c.p., commi 1 e 2, cosi’ derubricata l’accusa relativa al reato di calunnia ex articoli 81 e 368 c.p., di cui al capo B), e l’aveva percio’ condannato alla pena di Euro 1.500,00, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, con provvisionale fissata in Euro 3.500,00 e al pagamento delle spese processuali.
Con il capo B) a (OMISSIS) era stato imputato di aver offeso la reputazione e di aver incolpato, sapendolo innocente, l’avv. (OMISSIS) in un esposto diretto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, apostrofandolo “sua falsita’”, dichiarando ripetutamente che aveva mentito con finalita’ ingannatorie e aveva istruito centinaia di cause basate sul mendacio e indicandolo come responsabile dei reati di frode processuale e falso ideologico.
2. Ha proposto ricorso l’avv. (OMISSIS), difensore di fiducia dell’imputato, svolgendo sette motivi.
2.1. Con il primo motivo, proposto ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione all’articolo 595 c.p., e vizio di motivazione.
La Corte di appello aveva ripreso l’affermazione del Tribunale, secondo cui le denigrazioni dell’avv. (OMISSIS) si riferivano non gia’ a fatti, ma a mere deduzioni e interpretazioni tecnico-giuridiche da lui prospettate; al contrario vi erano nel contenuto dell’esposto diversi fatti che non rientravano nella categoria delle mere deduzioni e interpretazioni tecnico giuridiche. Per tali fatti sarebbe stato necessario verificare se le affermazioni dell’imputato rispondessero al vero.
Era mancata poi adeguata motivazione circa l’elemento soggettivo, perche’ l’imputato era convinto della verita’ di quanto sostenuto nell’esposto, diretto al Consiglio dell’Ordine all’esclusivo fine di far verificare eventuali responsabilita’ disciplinari.
L’esposto era diretto al Consiglio dell’Ordine e non a piu’ persone, mentre la volonta’ di diffusione non poteva essere desunta dalla sola mancata applicazione della formula “riservato personale”, tanto piu’ che l’esposto era stato consegnato a mani e non spedito per posta.
2.2. Con il secondo motivo, proposto ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione all’articolo 21 Cost., e articolo 51 c.p., e vizio di motivazione, quanto al mancato riconoscimento del diritto di critica.
La condotta dell’imputato, diretta a far verificare dall’organo competente l’operato dell’avv. (OMISSIS) sotto il profilo deontologico, non era rivolta a lederne dignita’ e reputazione ed era stata posta in essere nell’esercizio di un diritto protetto dall’ordinamento, mentre non rilevava l’erroneita’ o meno del convincimento del ricorrente circa l’antigiuridicita’ dei fatti denunciati, peraltro sorretti da puntuali riferimenti ad ampia documentazione prodotta.
Quanto al requisito della continenza, esso non poteva dirsi superato per il solo ricorso a termini che possiedono accanto ad accezioni indubbiamente offensive anche significati di mero giudizio critico negativo.
2.3. Con il terzo motivo, proposto ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione all’articolo 598 c.p., e vizio di motivazione, quanto al mancato riconoscimento dell’esimente, pacificamente applicabile alle offese contenute in scritti presentati in sede disciplinare al Consiglio di un Ordine professionale.
La motivazione al riguardo era del tutto inesistente, visto che l’esimente dell’articolo 598 c.p., ha una portata piu’ ampia rispetto al diritto di critica e copre anche espressioni esorbitanti dalle strette esigenze difensive, sicche’ il richiamo delle osservazioni svolte a quel proposito non rappresentava adeguata risposta alle censure svolte dall’appellante con riferimento alla diversa esimente dell’articolo 598 c.p., che aveva lo scopo di tutelare nella maniera piu’ ampia possibile il diritto di difesa in tutte le sue manifestazioni.
2.4. Con il quarto motivo, proposto ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b) ed e), il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione all’articolo 599 c.p., comma 2, e vizio di motivazione, quanto al mancato riconoscimento dell’esimente della provocazione. A tal proposito vi era mancanza grafica di motivazione nella sentenza di appello, non colmabile attraverso la sentenza di primo grado, che non aveva affrontato il punto, pur sollecitata dall’imputato, che aveva prodotto ampia documentazione a comprova delle molteplici accuse subite dall’imputato durante la controversia civile.
2.5. Con il quinto motivo, proposto ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), il ricorrente lamenta vizio di motivazione e inosservanza dell’articolo 192 c.p.p., e articolo 546 c.p.p., comma 1, nonche’ prova omessa o travisata.
Non erano valutazioni giuridiche le circostanze (documentalmente smentite dai documenti prodotti dalla difesa dal n. 3 al n. 6) che l’imputato fosse iscritto ad un sindacato che lo avrebbe informato su tutte le modalita’ della regolarizzazione, il fatto che seppur esortato, l’imputato non avesse contattato telefonicamente gli uffici, il fatto che l’imputato non si fosse recato nella sede indicata degli uffici per sottrarsi alla regolarizzazione del contratto
2.6. Con il sesto motivo, proposto ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), c) ed e), il ricorrente lamenta violazione della legge penale, sostanziale e processuale, in relazione agli articoli 521 e 522 c.p.p., articoli 21, 11 e 117 Cost., articolo 6, paragrafi 1 e 3 CEDU, e vizio di motivazione, quanto alla riqualificazione del reato contestato da calunnia a diffamazione.
La violazione del diritto di difesa aveva impedito all’imputato di rendere l’esame anche sull’elemento soggettivo del reato di diffamazione, significativamente differente rispetto a quello della calunnia, ben potendo essere rappresentato anche da dolo eventuale e aveva precluso la deduzione di nuove prove in ragione della diversa imputazione.
2.7. Con il settimo motivo, proposto ex articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), il ricorrente vizio di motivazione in ordine alla conferma delle statuizioni civili.
La provvisionale era stata fissata dal giudice di primo grado, tenendo conto dell’apertura di un procedimento disciplinare a carico dell’avv. (OMISSIS), che non era stato affatto aperto, con la conseguenza che l’entita’ della provvisionale non era congrua ed equa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione all’articolo 595 c.p., e vizio di motivazione.
1.1. La Corte di appello aveva ripreso l’affermazione del Tribunale, secondo cui le affermazioni false attribuite all’avv. (OMISSIS) non si riferivano a fatti storici ma consistevano in mere deduzioni e interpretazioni tecnico-giuridiche, da lui prospettate.
Il ricorrente obietta che invece vi erano nel contenuto dell’esposto diversi fatti che non rientravano nella categoria delle mere deduzioni e interpretazioni tecnico giuridiche, per cui sarebbe stato necessario verificare se le affermazioni dell’imputato rispondessero al vero.
Tale censura e’ palesemente inammissibile perche’ (salvo quanto distintamente esposto nel quinto motivo di ricorso, su cui infra) il ricorrente non indica quali sarebbero i fatti suscettibili di falsificazione rispetto alle mere deduzioni e interpretazioni, di per se’ non assoggettabili a giudizio di falsita’/verita’ in quanto esplicazione di giudizi valutativi.
1.2. Il ricorrente aggiunge che era mancata nella sentenza impugnata una adeguata motivazione circa l’elemento soggettivo del reato, perche’ l’imputato era convinto della verita’ di quanto da lui sostenuto nell’esposto, diretto al Consiglio dell’Ordine all’esclusivo fine di far verificare eventuali responsabilita’ disciplinari.
La censura non si confronta con l’addebito formulato dai Giudici del merito di aver utilizzato espressioni di per se’ gravemente offensive e gratuitamente diffamatorie (come l’emblematico riferimento all’avv. (OMISSIS) con l’epiteto di “(OMISSIS)”), e quindi incontinenti e trasmodanti in mera aggressione verbale. Non e’ pertanto questione se il (OMISSIS) fosse o meno convinto di alcuni fatti specifici da lui esposti: non appare possibile che egli non si sia reso conto dell’intrinseca offensivita’ delle espressioni utilizzate, che era invece evidentemente alla portata di chiunque conosca il valore etico sociale attribuito dalla collettivita’ alle condotte nella comunita’ in cui vive e i rudimenti della lingua italiana (mentre l’esposto ne rivela una buona conoscenza).
1.3. Il ricorrente aggiunge che l’esposto era diretto al Consiglio dell’Ordine e non a piu’ persone, mentre la volonta’ di diffusione non poteva essere desunta dalla sola mancata applicazione della formula “riservato personale”, tanto piu’ che l’esposto era stato consegnato a mani e non spedito per posta.
L’osservazione e’ evidentemente contraddittoria perche’, anche senza considerare il personale ausiliario e impiegatizio, il Consiglio dell’Ordine professionale e’ un organo collettivo composto da piu’ persone e quindi il requisito della pluralita’ dei destinatari e’ intrinsecamente soddisfatto dal solo fatto che la missiva sia stata rivolta a tale organo, di per se’ idoneo a raggiungere la sfera di conoscenza di tutti i suoi componenti.
2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione all’articolo 21 Cost., e articolo 51 c.p., e vizio di motivazione, quanto al mancato riconoscimento del diritto di critica.
2.1. Secondo il ricorrente la condotta dell’imputato, diretta a far verificare dall’organo competente l’operato dell’avv. (OMISSIS) sotto il profilo deontologico non era rivolta a lederne dignita’ e reputazione ed era stata posta in essere nell’esercizio di un diritto protetto dall’ordinamento, mentre non rilevava l’erroneita’ o meno del convincimento del ricorrente circa l’antigiuridicita’ dei fatti denunciati, peraltro sorretti da puntuali riferimenti ad ampia documentazione prodotta.
2.2. Questa Corte ha ripetutamente affermato che non integra il delitto di diffamazione (articolo 595 c.p.) la condotta di chi invii un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati contenente dubbi e perplessita’ sulla correttezza professionale di un legale, considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all’articolo 51 c.p., sub specie di esercizio del diritto di critica, preordinato ad ottenere il controllo di eventuali violazioni delle regole deontologiche, per il quale valgono i limiti ad esso connaturati – occorrendo, in primo luogo, che le accuse abbiano un fondamento o, almeno, che l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente (ancorche’ erroneamente) convinto di quanto afferma (Sez. 5, n. 42576 del 20/07/2016, Crimaldi, Rv. 268044; Sez. 5, n. 28081 del 15/04/2011, Taranto, Rv. 250406; Sez. 5, n. 33994 del 05/07/2010, Cernoia, Rv. 248422).
La generale causa di giustificazione di cui all’articolo 51 c.p., sub specie dell’esercizio di un diritto di critica, costituzionalmente tutelato dall’articolo 21 Cost. e’ stata ritenuta prevalente rispetto al bene della dignita’ personale, pure tutelato dalla Costituzione agli articoli 2 e 3, considerato che senza la liberta’ di espressione e di critica la dialettica democratica non puo’ realizzarsi (Sez. 5, n. 13549 del 20/02/2008, Pavone, Rv. 239825, sempre in tema di esposto di carattere disciplinare).
2.3. Cio’ non vale tuttavia per l’invio di una missiva gratuitamente denigratoria ad un Ordine professionale; sussiste, infatti, in tal caso il requisito della comunicazione con piu’ persone, considerato che la destinazione alla divulgazione puo’ trovare il suo fondamento oltre che nella esplicita volonta’ del mittente-autore, anche nella natura stessa della comunicazione, in quanto propulsiva di un determinato procedimento (giudiziario, amministrativo, disciplinare) che deve essere portato a conoscenza di altre persone, diverse dall’immediato destinatario, sempre che l’autore della missiva prevedesse o volesse la circostanza che il contenuto relativo sarebbe stato reso noto a terzi; ne’ in tal caso puo’ ricorrere l’esimente del diritto di critica, che sussiste solo allorche’ i fatti esposti siano veri o quanto meno l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente, ancorche’ erroneamente, convinto della loro veridicita’. (Sez. 5, n. 26560 del 29/04/2014, Cadoria, Rv. 260229).
2.4. Il ricorrente assume che il requisito della continenza non poteva dirsi superato per il solo ricorso a termini che possiedono, accanto ad accezioni indubbiamente offensive, anche significati di mero giudizio critico negativo.
L’argomentazione e’ del tutto generica e obiettivamente contraddittoria, a meno che non si dimostri (obiettivo questo non solo non attinto, ma neppure tentato dal ricorrente) che nel caso concreto le espressioni ambigue fossero state utilizzate nell’accezione non offensiva e solamente critica.
Assunto questo impossibile a fronte dell’attribuzione alla persona offesa della stessa figura emblematica della falsita’, dell’accusa di svolgimento sistematico della professione di avvocato in violazione delle regole di deontologia e della redazione di centinaia di atti processuali fondati pressoche’ esclusivamente sul mendacio e sulla mistificazione.
Si tratta di espressioni gravemente e indubitabilmente offensive, oltretutto generiche, insuscettibili di verificazione e non riconducibili all’attribuzione di fatti determinati e concreti, da sottoporre a puntuale indagine deontologica, anche se espressi con asprezza e improprieta’ da un soggetto digiuno delle terminologie tecniche di un Ordine professionale.
3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione all’articolo 598 c.p., e vizio di motivazione, quanto al mancato riconoscimento dell’esimente, pacificamente applicabile alle offese contenute in scritti presentati in sede disciplinare al Consiglio di un Ordine professionale.
3.1. Il ricorrente si duole della totale inesistenza della motivazione al riguardo e sottolinea il fatto che l’esimente dell’articolo 598 c.p., ha una portata piu’ ampia rispetto al diritto di critica e copre anche espressioni esorbitanti dalle strette esigenze difensive, sicche’ il richiamo delle osservazioni svolte a quel proposito non rappresentava adeguata risposta alle censure svolte dall’appellante con riferimento alla diversa esimente dell’articolo 598 c.p., che aveva lo scopo di tutelare nella maniera piu’ ampia possibile il diritto di difesa in tutte le sue manifestazioni.
3.2. Effettivamente la Corte di appello ha ritenuto di rispondere al motivo di appello proposto dal ricorrente e relativo alla mancata applicazione della causa di non punibilita’ di cui all’articolo 598 c.p., con gli stessi argomenti utilizzati per respingere la richiesta di scriminare la sua condotta alla luce dell’esercizio del diritto di critica.
Tuttavia in tema di diffamazione, la causa di non punibilita’ prevista dall’articolo 598 c.p., e la scriminante di cui all’articolo 51 c.p., operano su piani diversi; la prima non esclude l’antigiuridicita’ del fatto ma solo l’applicazione della pena e ricomprende anche condotte di offesa non necessarie, purche’ inserite nel contesto difensivo; la seconda si ricollega, invece, all’esercizio del diritto di difesa richiede il requisito della necessarieta’ ed il rispetto dei limiti di proporzionalita’ e strumentalita’ (Sez. 5, n. 14542 del 07/03/2017, Palmieri, Rv. 269734).
3.3. In tema di riferibilita’ della causa di non punibilita’ di cui all’articolo 598 alla sede disciplinare, l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte non appare univoco.
L’indirizzo numericamente prevalente afferma che la causa di non punibilita’ di cui all’articolo 598 c.p., non e’ applicabile qualora le espressioni offensive siano contenute in un esposto inviato al Consiglio dell’Ordine forense, in quanto l’autore dell’esposto non e’ parte nel successivo giudizio disciplinare e l’esimente di cui all’articolo 598 c.p., attiene agli scritti difensivi, in senso stretto, con esclusione di esposti e denunce, pur se redatti da soggetti interessati (Sez. 5, n. 24003 del 29/04/2010, Longo, Rv. 247396; Sez.5, n.13549, 20/2/2008, Pavone, in motivazione; Sez. 5, n. 40725 del 16/10/2002, Folcarelli, Rv. 2231880; Sez. 5, n. 651 del 20/04/1971, Giovannoli, Rv. 118609).
3.4. Diversamente si sono espresse due decisioni (Sez. 5, n. 28081 del 15/04/2011, Taranto, Rv. 250406, Sez. 5, n. 33453 del 08/07/2008, Boschi Benedetti, Rv. 241393) dissentendo dai precedenti citati.
Secondo questo orientamento l’esimente di cui all’articolo 598 c.p., e’ applicabile alle offese contenute in un esposto inviato al Consiglio dell’Ordine forense, sulla base delle seguenti argomentazioni: la ratio dell’articolo 598 c.p., e’ ispirata alla massima liberta’ nell’esercizio del diritto di difesa; il Consiglio dell’Ordine forense, dando corso alla procedura di sua competenza, esercita un’attivita’ oggettivamente riconducibile all’esercizio di funzioni pubblicistiche, dal momento che il controllo del corretto esercizio della professione forense corrisponde all’interesse pubblico all’uso corretto, da parte del professionista, del potere riconosciutogli dallo Stato; la procedura instaurata va definita, quindi, in termini di procedimento e il Consiglio dell’Ordine forense esercita poteri propri di un’autorita’ amministrativa, quale quello disciplinare, suscettibile di essere sottoposto a successivo controllo giurisdizionale; in senso contrario non puo’ argomentarsi sulla base della natura del procedimento che si svolge presso il Consiglio dell’Ordine forense territoriale, solo amministrativa e non giurisdizionale perche’ l’esimente de qua e’ applicabile anche ad atti funzionali all’esercizio del diritto di difesa, pur se precedono l’instaurazione di un procedimento giurisdizionale; l’autore dell’esposto al Consiglio dell’Ordine forense e’ “parte del relativo procedimento”, dovendosi intendere tale “chiunque sia titolare di un interesse (nel caso di specie leso dalla violazione disciplinare) tutelato dalla legge anche, in forma mediata, con il ricorso all’autorita’ giudiziaria o amministrativa” e, quindi, anche se si tratti di un interesse legittimo e non di un diritto soggettivo; d’altra parte, tutti i procedimenti amministrativi sono soggetti al principio dell’istruzione “partecipata”, ad eccezione di quelli espressamente indicati dalla L. n. 241 del 1990; l’articolo 598 c.p., menziona l’autorita’ giudiziaria e l’autorita’ amministrativa; poiche’ non e’ dubbio che anche il giudice amministrativo debba essere qualificato “autorita’ giudiziaria” consegue che per “autorita’ amministrativa” non possa intendersi il giudice amministrativo, ma l’autorita’ amministrativa “non giurisdizionale” e tuttavia decidente nell’ambito dei cosiddetti ricorsi amministrativi; l’articolo 598 c.p., parla di offese, da intendersi come espressioni inurbane, volgari, spregiative, contumeliose; tali manifestazioni, pur non essendo lecite, non sono penalmente represse – se contenute in scritti presentati o in discorsi pronunziati innanzi alle Autorita’ di cui sopra – per una esplicita scelta del legislatore, che ha voluto garantire la massima libertas convicii; non e’ dunque corretto affermare che l’articolo 598 c.p., altro non e’ che una specificazione del piu’ generale diritto di critica, garantito dall’articolo 51 c.p., e dall’articolo 21 Cost.; la libertas convicii non ha limiti (l’eventuale sanzione non penale interviene ex post), mentre il diritto di critica ha i noti limiti individuati dalla giurisprudenza (rilevanza sociale, continenza e verita’ della notizia sulla quale si innesta la attivita’ valutativa e, appunto, critica); l’offesa va tenuta distinta dall’accusa; mentre, per l’offesa formulata in una delle occasioni di cui al ricordato articolo 598 c.p., l’offensore non risponde, operando la causa di non punibilita’, per l’accusa, l’accusatore non puo’ che assumere la responsabilita’ di quel che dice; anche accusare – specie se lo si fa per far valere un proprio diritto – e’ lecito, ma occorre che l’accusa abbia fondamento o, almeno, che l’accusatore sia fermamente e incolpevolmente (anche se erroneamente) convinto di cio’.
3.5. Questo Collegio ritiene che sia corretto il primo orientamento: se e’ vero che l’articolo 598 c.p., trova applicazione anche nel contraddittorio che si sviluppa dinanzi ad una autorita’ amministrativa, e’ pur sempre necessario che contraddittorio vi sia e che coinvolga l’autore della comunicazione per la quale si invoca la cosiddetta libertas conviciandi.
Il soggetto autore della comunicazione deve essere quindi parte del procedimento nel quale e’ chiamato a tutelare un proprio specifico interesse, assumendo una posizione procedimentalmente qualificata, proprio perche’ la norma mira a proteggere, con l’esonero da responsabilita’ penale, il contraddittore, in quanto tale, che arrechi offesa alla controparte con espressioni ingiuriose che concernano, in modo diretto ed immediato, l’oggetto della controversia ed abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata o per l’accoglimento della domanda proposta.
Colui che presenta un esposto disciplinare ad un Ordine professionale sollecita l’esercizio di una potesta’ pubblicistica di verifica del rispetto delle regole deontologiche da parte di un professionista e non e’ legittimato dalla tutela di una sua specifica posizione soggettiva, non e’ contraddittore in seno al procedimento, non riceve notizia dei provvedimenti emessi dagli organi disciplinari, ne’ puo’ impugnarne le decisioni e non ha neppure diritto di essere informato dei suoi sviluppi.
Non e’ quindi la natura del procedimento, meramente amministrativo, che preclude l’applicabilita’ della causa di non punibilita’ dell’art.598 cod.pen. all’autore dell’esposto, ma la sua veste soggettiva: ben potrebbe invece invocare l’esimente il professionista sottoposto a procedimento disciplinare, che e’ parte interessata e contraddittore a pieno titolo.
L’attuale legge professionale forense (d.lgs.31/12/2012 n. 247, peraltro successiva alla presentazione dell’esposto da parte del (OMISSIS)) all’articolo 58, comma 4, ha introdotto esclusivamente la previsione della comunicazione del provvedimento di archiviazione anche al soggetto dal quale e’ pervenuta la notizia di illecito; nulla invece dispone in proposito l’articolo 59, comma 1, lettera m), quanto al provvedimento che decide nel merito dell’accusa disciplinare.
Tantomeno la legge professionale contempla un diritto di impugnazione in capo all’autore dell’esposto.
Ancora minor rilievo spettava alla figura dell’autore dell’esposto nella legge professionale precedente (Regio Decreto 21 novembre 1933, n. 1578; Titolo IV, articolo 38 e seg.) che non la prendeva minimamente in considerazione, neppure per prevedere nei suoi confronti la comunicazione dell’archiviazione.
3.6. L’omessa pronuncia sul motivo di appello non vizia la sentenza impugnata perche’ la censura era infondata in punto di diritto.
Secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, non costituisce causa di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame di un motivo di appello che, per la sua assoluta indeterminatezza e genericita’, doveva essere dichiarato inammissibile (Sez. 4, n. 1982 del 15/12/1998 – dep. 1999, Iannotta A, Rv. 213230); infatti il difetto di motivazione della sentenza di appello in ordine a motivi generici, proposti in concorso con altri motivi specifici, non puo’ formare oggetto di ricorso per Cassazione, poiche’ i motivi generici restano viziati da inammissibilita’ originaria anche quando la decisione del giudice dell’impugnazione non pronuncia in concreto tale sanzione (Sez. 3, n. 10709 del 25/11/2014 – dep. 13/03/2015, Botta, Rv. 262700).
E ben si comprende la ratio sottesa a tale orientamento, poiche’ non
avrebbe senso l’annullamento della sentenza di appello con rinvio al giudice di secondo grado a causa dell’omesso esame di un motivo di gravame, che in sede di rinvio per il suo esame sarebbe comunque destinato alla declaratoria di inammissibilita’.
Non e’ diversa la soluzione in caso di mancato esame, da parte del giudice di secondo grado, di un motivo di appello quando la censura, se esaminata, non sarebbe stata in astratto suscettibile di accoglimento, in quanto l’omessa motivazione sul punto non arreca alcun pregiudizio alla parte e, se trattasi di questione di diritto, all’omissione puo’ porre rimedio, ai sensi dell’articolo 619 c.p.p., la Corte di cassazione quale giudice di legittimita’. (Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, Dell’Utri, Rv. 263980).
4. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione all’articolo 599 c.p., comma 2, e vizio di motivazione, quanto al mancato riconoscimento dell’esimente della provocazione.
4.1. A tal proposito vi era mancanza grafica di motivazione nella sentenza di appello, non colmabile attraverso la sentenza di primo grado, che non aveva affrontato il punto, pur sollecitata dall’imputato, che aveva prodotto ampia documentazione a comprova delle molteplici accuse subite dall’imputato durante la controversia civile.
4.2. Il motivo e’ assolutamente generico poiche’ non rappresenta l’ingiustizia del fatto addebitato all’avv. (OMISSIS) che avrebbe determinato lo stato d’ira rilevante ai fini dell’esimente invocata.
5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta vizio di motivazione e inosservanza dell’articolo 192 c.p.p., e articolo 546 c.p.p., comma 1, nonche’ prova omessa o travisata.
5.1. Il ricorrente sottolinea che non potevano essere considerate valutazioni giuridiche tre circostanze (documentalmente smentite dai documenti prodotti dalla difesa dal n. 3 al n. 6): ossia il fatto che l’imputato fosse iscritto ad un sindacato che lo avrebbe informato su tutte le modalita’ della regolarizzazione; il fatto che seppur esortato, l’imputato non avesse contattato telefonicamente gli uffici; il fatto che l’imputato non si fosse recato nella sede indicata degli uffici per sottrarsi alla regolarizzazione del contratto.
5.2. Il motivo non coglie il segno.
Quand’anche si conceda al ricorrente che l’avv. (OMISSIS) avesse dedotto in giudizio fatti opposti alle tre circostanze sopra ricordate, tale rilievo sarebbe del tutto ininfluente per giustificare le accuse di generale falsita’, di sistematica menzogna e di redazione di centinaia di atti falsificanti, mossa dall’imputato al suo indirizzo.
Il ricorrente muove poi da un equivoco di fondo: l’avvocato sostiene in giudizio la tesi del proprio cliente e deduce i fatti da lui sostenuti, allegandoli e offrendoli a prova. La parte assistita nel giudizio civile non ha il dovere di dire la verita’ ma piuttosto quello di comportarsi con lealta’ e correttezza articoli 88, 89 e 96 c.p.c.).
L’attuale articolo 50 del Codice Deontologico Forense affronta il tema del “dovere di verita’” e prevede che:
1. L’avvocato non deve introdurre nel procedimento prove, elementi di prova o documenti che sappia essere falsi.
2. L’avvocato non deve utilizzare nel procedimento prove, elementi di prova o documenti prodotti o provenienti dalla parte assistita che sappia o apprenda essere falsi.
3. L’avvocato che apprenda, anche successivamente, dell’introduzione nel procedimento di prove, elementi di prova o documenti falsi, provenienti dalla parte assistita, non puo’ utilizzarli o deve rinunciare al mandato.
4. L’avvocato non deve impegnare di fronte al giudice la propria parola sulla verita’ dei fatti esposti in giudizio.
5. L’avvocato, nel procedimento, non deve rendere false dichiarazioni sull’esistenza o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come presupposto di un provvedimento del magistrato.
6. L’avvocato, nella presentazione di istanze o richieste riguardanti lo stesso fatto, deve indicare i provvedimenti gia’ ottenuti, compresi quelli di rigetto.
Non si puo’ quindi attribuire al difensore una responsabilita’ per l’affermazione di fatti contrari alla presunta verita’ senza anche allegare e dimostrare che egli ha introdotto prove false della cui falsita’ era consapevole.
Il precedente codice deontologico, in vigore all’epoca dei fatti (testo approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 17/4/1997 ed aggiornato con le modifiche introdotte il 16/10/1999, il 26/10/2002, il 27/1/2006, il 18/1/2007, il 12/6/2008, il 15/7/2011 e il 16/12/2011) all’art.14 trattava piu’ sinteticamente, ma nella stessa prospettiva, il tema del dovere di verita’, affermando: che le dichiarazioni in giudizio relative alla esistenza o inesistenza di fatti obiettivi, che siano presupposto specifico per un provvedimento del magistrato, e di cui l’avvocato abbia diretta conoscenza, devono essere vere e comunque tali da non indurre il giudice in errore; che l’avvocato non puo’ introdurre intenzionalmente nel processo prove false; che in particolare, il difensore non puo’ assumere a verbale ne’ introdurre dichiarazioni di persone informate sui fatti che sappia essere false; che l’avvocato e’ tenuto a menzionare i provvedimenti gia’ ottenuti o il rigetto dei provvedimento richiesti, nella presentazione di istanze o richieste sul presupposto della medesima situazione di fatto.
Con riferimento alle regole deontologiche vigenti all’epoca del fatto e a quelle successive non e’ consentito accusare di falsita’ un avvocato sol perche’ avrebbe sostenuto in giudizio circostanze di fatto asseritamente non conformi a verita’, a meno che non si tratti di fatti a sua diretta e personale conoscenza ovvero che il legale abbia introdotto scientemente in giudizio prove di cui conosceva la falsita’. Fuor di questi casi, il difensore sostiene tecnicamente in giudizio la tesi del proprio assistito sulla base delle informazioni e degli assunti da questi ricevuti e non risponde della loro verita’ e genuinita’.
6. Con il sesto motivo il ricorrente lamenta violazione della legge penale, sostanziale e processuale, in relazione agli articoli 521 e 522 c.p.p., articoli 21, 11 e 117 Cost., articolo 6, paragrafi 1 e 3 CEDU, e vizio di motivazione, quanto alla riqualificazione del reato contestato da calunnia a diffamazione.
6.1. Il ricorrente sostiene che la violazione del diritto di difesa aveva impedito all’imputato di rendere l’esame anche sull’elemento soggettivo del reato di diffamazione, significativamente differente rispetto a quello della calunnia, ben potendo essere rappresentato anche da dolo eventuale e aveva precluso la deduzione di nuove prove in ragione della diversa imputazione.
6.2. L’articolo 521 c.p.p., rubricato “Correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza”, enuncia al primo comma il principio riassumibile nel brocardo latino iura novit curia, in base al quale il giudice, nella sentenza, puo’ dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, purche’ il reato non ecceda la propria competenza o non sia affidato alla cognizione del Tribunale in composizione collegiale anziche’ monocratica.
Al fine di tutelare il diritto di difesa dell’imputato, pero’, il secondo comma dell’articolo 521 impone al giudice che accerti che il fatto e’ diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio (ovvero nella contestazione effettuata a norma degli articoli 516 e 517 c.p.p., e articolo 518 c.p.p., comma 2) di pronunciare un’ordinanza con cui dispone trasmettersi gli atti al Pubblico Ministero.
L’articolo 518 c.p.p., invece considera l’ipotesi dell’emersione nel corso del processo di un fatto nuovo a carico dell’imputato, non enunciato nel decreto che dispone il giudizio e perseguibile d’ufficio, prevedendo che in tal caso si proceda nelle forme ordinarie, salva l’autorizzazione alla contestazione suppletiva con il consenso dell’imputato e purche’ non ne derivi pregiudizio per la speditezza dei procedimenti.
La giurisprudenza di legittimita’ e’ costante nell’affermare che per “fatto nuovo”, regolato dall’articolo 518 c.p.p., si intende un fatto ulteriore ed autonomo rispetto a quello contestato, ossia un episodio storico che non si sostituisce ad esso, ma che eventualmente vi si aggiunge, affiancandolo quale autonomo thema decidendum, trattandosi di un accadimento naturalisticamente e giuridicamente autonomo.
Invece, per “fatto diverso”, considerato dall’articolo 521, comma 2, deve intendersi non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una correlativa puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato (Sez. 6, n. 26284 del 26/03/2013, Tonietti, Rv. 256861; Sez. 5, n. 2295 del 03/07/2015 – dep. 2016, p.c. in proc.Marafioti, Rv. 266019; Sez. 5, n. 10310 del 25/08/1998, Capano, Rv. 211477).
Sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza se il fatto contestato sia mutato nei suoi elementi essenziali, cosi’ da provocare una situazione di incertezza e di cambiamento sostanziale della fisionomia dell’ipotesi accusatoria capace di impedire o menomare il diritto di difesa dell’imputato (Sez. 6, n. 6346 del 09/11/2012,2013, Domizi e altri, Rv. 254888); occorre quindi una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; l’indagine volta ad accertare la violazione del principio non si esaurisce nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perche’, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione e’ del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, Sentenza n. 36551 del 15/07/2010,Carelli, Rv. 248051; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco Rv. 205619).
6.3. La Corte non ritiene che nella fattispecie l’imputato possa invocare i principi della c.d. sentenza Drassich della Corte Europea diritti dell’uomo, sez. II, 11/12/2007, n. 25575, che mirano a tutelare l’imputato dal disorientamento difensivo procurato anche dalla mera riqualificazione giuridica del fatto storico contestato.
Secondo tale importante arresto della Corte Europea, il diritto ad essere informato comprende anche la qualificazione giuridica dei fatti contestati e pertanto, alla luce di un’interpretazione sistematica delle lettera a) e b) dell’articolo 6, par. 3, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, quando il diritto nazionale preveda la possibilita’ di attribuire ai fatti contestati all’imputato una diversa qualificazione giuridica, l’imputato deve essere informato di tale qualificazione giuridica in tempo utile per poter esercitare i diritti di difesa riconosciuti dalla Convenzione in modo concreto ed effettivo; secondo la Corte il mezzo piu’ appropriato per rimediare a tale violazione e’ riapertura del processo.
Questa Corte ha pertanto adeguato la sua giurisprudenza a tali principi affermando che nel giudizio di legittimita’, il potere della Corte di attribuire una diversa qualificazione giuridica ai fatti accertati non puo’ avvenire con atto a sorpresa e con pregiudizio del diritto di difesa, imponendo, per contro, la comunicazione alle parti del diverso inquadramento prospettabile, con concessione di un termine a difesa, in attuazione del principio di diritto espresso dalla Corte Europea Diritti dell’Uomo con la sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia (Sez. 6, n. 3716 del 24/11/2015 – dep. 2016, Caruso, Rv. 266953); ovvero ha ravvisato la violazione irrimediabile del diritto di difesa nel caso in cui sia ritenuta in sentenza l’ipotesi aggravata del reato di falso in atto pubblico, ex articolo 476 c.p., comma 2, non adeguatamente e correttamente esplicitata nella contestazione, considerato che, anche alla luce dei vincoli posti dalla giurisprudenza della Corte EDU e’ diritto dell’imputato essere informato tempestivamente e dettagliatamente tanto dei fatti materiali posti a suo carico, quanto della qualificazione giuridica ad essi attribuiti (Sez. 5, n. 12213 del 13/02/2014, Amoroso e altri, Rv. 260209).
La giurisprudenza di questa Corte ha pero’ in varie prospettive circoscritto la portata del principio.
Da un lato, ha escluso che esso valga allorche’ la riqualificazione operi in bonam partem, ossia a favore dell’imputato non ravvisando in tal caso alcun obbligo di preventiva informazione all’imputato per consentirgli l’esercizio del diritto al contraddittorio (Sez. 6, n. 24631 del 15/05/2012, Cusumano, Rv. 253109).
D’altro canto, ha ritenuto allorche’ la riqualificazione giuridica del fatto sia stata espressamente richiesta dal Pubblico Ministero, l’omessa informazione all’imputato da parte del giudice della eventualita’ che il fatto contestatogli possa essere diversamente definito non comporta violazione dell’articolo 6 cosi’ come interpretato dalla Corte Edu nel proc. Drassich c/ Italia (Sez. 2, n. 35678 del 15/05/2013, Scuderi, Rv. 257104; Sez. 5, n. 231 del 09/10/2012 – dep. 2013, Ferrari, Rv. 254521).
Infine il principio e’ stato confinato nei soli ambiti che non consentono all’imputato di rielaborare la propria linea difensiva, sostenendo che la diversa qualificazione del fatto effettuata dal giudice di appello non determina alcuna compressione o limitazione del diritto al contraddittorio, anche alla luce della regola di sistema espressa dalla Corte Europea dei diritti con la sentenza Drassich, consentendo all’imputato di contestarla nel merito con il ricorso per cassazione (Sez. 2, n. 17782 del 11/04/2014, Salsi, Rv. 259564); ed inoltre che l’osservanza del diritto al contraddittorio in ordine alla natura e alla qualificazione giuridica dei fatti di cui l’imputato e’ chiamato a rispondere, sancito dall’articolo 111 Cost., comma 3, e dall’articolo 6 CEDU, comma primo e terzo, lettera a) e b), cosi’ come interpretato nella sentenza della Corte EDU nel proc. Drassich c. Italia, e’ assicurata anche quando il giudice di primo grado provveda alla riqualificazione dei fatti direttamente in sentenza, senza preventiva interlocuzione sul punto, in quanto l’imputato puo’ comunque pienamente esercitare il diritto di difesa proponendo impugnazione (Sez. 3, n. 2341 del 07/11/2012 – dep. 2013, Manara e altro, Rv. 254135).
Il piu’ recente orientamento di questa Corte esclude che vi sia una lesione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, laddove la prospettiva della nuova definizione giuridica fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato, ovvero non abbia portato ad una concreta menomazione della difesa sui profili di novita’ da essa scaturiti, anche nei casi in cui la nuova definizione giuridica non fosse stata di per se’ prevedibile per l’imputato.
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo, infatti, pur nella estrema varieta’ degli accenti dovuta al suo tipico intervento casistico, ha spesso escluso la violazione dei parametri convenzionali in tutti i casi in cui la prospettiva della nuova definizione giuridica fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato, censurando, in concreto, le ipotesi in cui la riqualificazione dell’addebito avesse assunto le caratteristiche di atto a sorpresa. Accanto a cio’, la stessa Corte non ha mancato di sottolineare come il diritto di difesa e quello al contraddittorio non fossero vulnerati nei casi in cui i fatti costitutivi del nuovo reato fossero gia’ presenti nella originaria imputazione: e cio’, evidentemente, anche nella ipotesi in cui la nuova definizione giuridica non fosse stata di per se’ prevedibile per l’imputato (v. fra le tante, sentenze 1 marzo 2001, Dallos c. Ungheria; 3 luglio 2006, Vesque c. Francia; 7 gennaio 2010, Penev c. Bulgaria; 12 aprile 2011, Adrian Constantin c. Romania; 3 maggio 2011, Giosakis c. Grecia; 15 gennaio 2015, Mihei c. Slovenia, nella quale ultima si e’ in particolare rilevato come l’imputato fosse pienamente a conoscenza degli elementi fattuali posti alla base della contestazione originaria, dai quali era possibile desumere l’oggetto della contestazione cosi’ come modificata nel corso del dibattimento).
La violazione, dunque – secondo la impostazione tutt’altro che formalistica della Corte di Strasburgo – deve aver comportato un concreto e non meramente ipotetico regresso sul piano dei diritti difensivi, attraverso un mutamento della cornice accusatoria che abbia effettivamente comportato una novazione dei termini dell’addebito tali da rendere la difesa menomata proprio sui profili di novita’ che da quel mutamento sono scaturiti. (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 26443801, in motivazione)
Ai fini della valutazione circa la violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza, e’ necessario adottare un concetto ampio di imputazione, che non si limiti al dato letterale, ma ricomprenda tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongano l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito. La violazione e’ esclusa laddove l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi; il principio di correlazione tra sentenza e accusa contestata e’ violato soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneita’ o di incompatibilita’ sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto cosi’, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilita’ di effettiva difesa (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438, nonche’ Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051).
Va infine ricordato come non sia ravvisabile alcuna incertezza sulla imputazione, quando il fatto sia stato contestato nei suoi elementi strutturali e sostanziali, in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa. La contestazione poi non va riferita soltanto al capo d’imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti, che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito (Sez. F, n. 43481 del 7 agosto 2012, Ecelestino e altri, Rv. 253582). In tal senso, dunque, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte non vi e’ incertezza sui fatti descritti nella imputazione quando questa contenga, con adeguata specificita’, i tratti essenziali del fatto di reato contestato, in modo da consentire all’imputato di difendersi, mentre non e’ necessaria un’indicazione assolutamente dettagliata dell’oggetto della contestazione (Sez. 5, n. 6335/14 del 18/10/2013, Morante, Rv. 258948; Sez. 2, n. 16817 del 27/3/2008, Muro e altri, Rv. 239758; Sez. 5, n. 21226 del 15/09/2016 – dep. 2017, Di Giovanni, Rv. 270044, in motivazione).
6.4. I principi della sentenza Drassich non vengono quindi in considerazione nella presente fattispecie, innanzitutto perche’ la riqualificazione giuridica e’ stata effettuata in favore dell’imputato con la configurazione di reato meno grave, qual e’ la diffamazione, punita con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 Euro, rispetto alla calunnia, reato plurioffensivo, punito con la reclusione da due a sei anni.
Inoltre la riqualificazione e’ stata effettuata gia’ nel giudizio di primo grado e il ricorrente ha avuto modo di reagire sia in appello, sia in sede di legittimita’ (fra l’altro, senza spendere argomenti in ordine all’erroneita’ della predetta operazione di riqualificazione giuridica).
Ne’ rileva l’argomentazione del ricorrente che sostiene che si sarebbe difeso in modo diverso a fronte di una diversa imputazione: dopo la sentenza di primo grado il ricorrente ha ben potuto reindirizzare le proprie difese, ma non risulta aver formulato alcuna richiesta istruttoria consequenziale; la sentenza Drassich non garantisce il doppio grado di giurisdizione di merito sul diverso profilo riqualificato e per vero consente solo l’esplicazione del diritto al contraddittorio.
Il ricorrente tenta di argomentare il proprio disorientamento difensivo conseguente alla riqualificazione giuridica censurata, con riferimento al tema dell’elemento soggettivo senza peraltro correlarlo ad alcuna sua richiesta o argomentazione, che comunque ben avrebbe potuto sviluppare gia’ nel giudizio di secondo grado, laddove invece si e’ lamentato tout court della riqualificazione subita, senza rimodulare conseguentemente le proprie difese e senza sollecitare le riaperture istruttorie consequenziali al lamentato ribaltamento del tema di accusa.
7. Con il settimo motivo il ricorrente lamenta vizio di motivazione in ordine alla conferma delle statuizioni civili.
La provvisionale era stata fissata dal giudice di primo grado, tenendo conto dell’apertura di un procedimento disciplinare a carico dell’avv. (OMISSIS), che non era stato affatto aperto, con la conseguenza che l’entita’ della provvisionale non era congrua ed equa.
Il motivo e’ manifestamente inammissibile poiche’ attiene alla liquidazione della provvisionale.
Per giurisprudenza del tutto consolidata non e’ impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata. (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D. G., Rv. 263486; Sez. 2, n. 49016 del 06/11/2014, Patricola e altro, Rv. 261054; Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014, P.C. e G, Rv. 261536).
8. Il ricorso va quindi rigettato; ne consegue la condanna del ricorrente ai sensi dell’articolo 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e alla rifusione delle spese in favore della parte civile che liquida in complessivi Euro 2.000,00 oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche’ alla rifusione delle spese in favore della parte civile che liquida in complessivi Euro 2.000,00 oltre accessori di legge.