la cronaca giudiziaria è lecita quando sia esercitata correttamente, limitandosi a diffondere la notizia di un provvedimento giudiziario in sè ovvero a riferire o a commentare l’attività investigativa o giurisdizionale; quando invece le informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario siano utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare o a sostituire gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti e autonomamente offensive, il giornalista deve assumersi direttamente l’onere di verificare le notizie e di dimostrarne la pubblica rilevanza, non potendo reinterpretare i fatti nel contesto di un’autonoma e indimostrata ricostruzione giornalistica.
La pronuncia in oggetto affronta il tema della risarcibilità dei danni derivanti dalla lesione dell’onore e della reputazione, tema che può essere approfondito leggendo il seguente articolo: Diffamazione a mezzo stampa, profili risarcitori di natura civilistica.
Tribunale Pordenone, civile Sentenza 15 giugno 2018, n. 483
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI PORDENONE
in persona del Giudice dr. Piero Leanza ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n. 1368/2014 di Ruolo Generale vertente
tra
(…), in proprio nonché quale legale rappresentante di STUDIO GESTIONE (..:) – rappresentati e difesi, per mandato a margine dell’atto di citazione in opposizione, dall’avv. TO.SE., dall’avv. TO.CR. e dall’avv. CO.AL., presso il cui studio in Pordenone hanno eletto domicilio;
– parte attrice –
e
(…) S.P.A. ((…)) Divisione Nord-Est – rappresentata e difesa, per mandato a margine della comparsa di risposta, del ricorso per decreto ingiuntivo, in calce all’atto di citazione notificato, dall’avv. DE.LI., dall’avv. FO.PI. e dall’avv. BA.AU., presso il cui studio in Spilimbergo hanno eletto domicilio;
– parte convenuta –
Oggetto: responsabilità extracontrattuale – risarcimento danni
MOTIVI DELLA DECISIONE
Si omette l’analitica descrizione dello svolgimento del processo, non più prevista dall’art. 132, n. 4, c.p.c., in seguito alle modifiche apportate dall’art. 45, comma 17, L. n. 69 del 2009, e si procede alla concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, ai sensi degli artt. 132, n. 4, c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c.
Con atto di citazione ritualmente notificato l’attore evocava in giudizio (…) s.p.a., proponendo in via preliminare – per i motivi specificamente indicati in atto di citazione e qui da intendersi richiamati – istanza ex art. 700 c.p.c. volta alla cancellazione dal sito web del quotidiano “(…)” dell’articolo giornalistico pubblicato il 29.5.2003 specificamente descritto in atti (avente ad oggetto indagini penali nei confronti dell’attore) ovvero alla sua rettifica mediante aggiunta della notizia dell’avvenuta assoluzione del (…) per non aver commesso il fatto (con sentenza del Tribunale di Pordenone n. 770 del 2006 e sentenza della Corte d’Appello di Trieste n. 455 del 2009) e concludendo nel merito come in epigrafe.
Si costituiva in giudizio (…), deducendo l’infondatezza degli assunti attorei, eccependo la prescrizione del diritto al risarcimento del danno e chiedendo nel merito – per i motivi specificamente indicati in comparsa di risposta e qui da intendersi richiamati – il rigetto delle domande, con vittoria di spese.
All’udienza del 13.6.2014, fissata per la decisione sull’istanza cautelare ex art. 700 c.p.c., parte attrice dava atto “che la notizia del 29.5.2003 è stata medio tempore cancellata, dandosi invece risalto alla notizia della doppia assoluzione a favore di (…), come risulta da stampata di ricerca sul motore “(…)” che produce”, concludendo nel senso che “sono quindi nel frattempo venute meno le ragioni per una emissione di un provvedimento ex art. 700 c.p.c.”. Il procuratore di parte convenuta confermava la circostanza, riservando ogni ulteriore considerazione al merito, e il giudice, preso atto di quanto sopra, dichiarava “non luogo a provvedere sull’istanza ex art. 700 c.p.c. in corso di causa”.
Depositate memorie autorizzate ex art. 183 6 comma c.p.c., respinte le richieste di prova orale e intervenuto nelle more del giudizio il mutamento del giudice assegnatario del procedimento, all’udienza del 2.3.2018 venivano precisate le conclusioni come riportate in epigrafe e la causa veniva trattenuta in decisione, previa assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali e di replica.
Va preliminarmente dichiarata la cessata materia del contendere in relazione alla domanda di cancellazione o rettifica dell’articolo per cui è causa, in quanto all’udienza del 13.6.2014, come detto, la stessa parte attrice ha dato atto “che la notizia del 29.5.2003 è stata medio tempore cancellata, dandosi invece risalto alla notizia della doppia assoluzione a favore di (…), come risulta da stampata di ricerca sul motore “(…)” che produce”, concludendo per il venir meno delle ragioni poste a fondamento della richiesta di emissione del provvedimento ex art. 700 c.p.c.
Pertanto, pacifico il diritto di parte attrice all’aggiornamento (ex art. 7, comma 3, D.Lgs. n. 196 del 2003) delle notizie e delle informazioni relative alla propria persona ed alle vicende giudiziarie che lo videro protagonista nell’articolo pubblicato nel 2003 (cfr., ex multis, Cass. 5525/2012), su tale specifico capo di domanda deve ritenersi venuta meno la materia del contendere.
Quanto alle altre domande formulate da parte attrice, si osserva quanto segue.
La citazione, pur se connotata da una certa indeterminatezza, consente di individuare una richiesta di risarcimento danni per la diffamazione in tesi attorea perpetrata da parte convenuta (conclusioni della citazione, punti 1 e 3), una domanda di risarcimento danni conseguenti alla permanenza della notizia nel sito web del (…) (punti 2 e 3) ed una domanda di cancellazione o aggiornamento dei dati pubblicati online (punto 4).
Parte attrice lamenta che la convenuta, dopo aver pubblicato in data 29.5.2003 (sia sul quotidiano, in versione cartacea, “(…)” che sul sito web dello stesso) un articolo relativo a talune indagini in corso nei confronti del (…), titolare dello Studio gestione (…), non ha successivamente provveduto all’aggiornamento della notizia mediante pubblicazione dell’avvenuta assoluzione del (…) dai reati contestatigli.
Orbene, premesso che quanto alla richiesta di aggiornamento dei dati è – come già rilevato – venuta meno la materia del contendere, va escluso che l’articolo del 29.5.2003 avesse carattere diffamatorio, essendo stato lo stesso redatto nel rispetto dei canoni di veridicità dei datti narrati e della continenza e sussistendo con evidenza l’interesse pubblico alla notizia, trattandosi di cronaca giudiziaria.
Invero, nell’articolo sono riportate, asetticamente, le ipotesi accusatorie e le iniziative degli inquirenti, senza l’uso di toni eccessivi e senza attacchi personali nei confronti dei soggetti interessati dalle indagini. Viene altresì correttamente indicato che il procedimento si trova ancora in fase di indagini preliminari e che si tratta quindi di mere ipotesi accusatorie e non di una pronuncia definitiva di condanna (nell’articolo è frequente l’uso di formule dubitative (“secondo il PM … avrebbero redatto certificazioni fasulle”; “la procura ritiene che sarebbe stata svolta, da più soggetti e in concorso tra loro”; “il decreto di perquisizione locale e personale, emesso dal pm lo scorso 20 maggio, ha valore di informazione di garanzia”; “l’impalcatura sulla quale si basa il teorema dell’accusa”, ecc.).
Il reato di diffamazione previsto dall’art. 595 c.p. si consuma nel momento in cui una persona comunica con più soggetti, offendendo l’altrui reputazione e la valutazione dell’efficacia diffamatoria delle affermazioni diffuse a mezzo stampa (o altro mezzo di comunicazione quale, ad esempio, un sito web) va riferita al momento in cui le dichiarazioni hanno avuto diffusione.
Il diritto di cronaca giornalistica, tutelato dall’art. 21 Cost., va bilanciato con i diritti individuali della persona riconosciuti dall’art. 2 Cost. e soggiace ai limiti individuati dalla giurisprudenza di legittimità, a partire dalla nota pronuncia della Corte di Cassazione penale a Sezioni Unite del 23.10.1984: la verità (oggettiva, o anche soltanto putativa) dei fatti narrati, un’esposizione degli stessi che non ecceda lo scopo di informare e non sia connotata da un deliberato intento denigratorio, l’utilità sociale dell’informazione.
La Corte di Cassazione ha inoltre ripetutamente affermato che “la cronaca giudiziaria è lecita quando sia esercitata correttamente, limitandosi a diffondere la notizia di un provvedimento giudiziario in sè ovvero a riferire o a commentare l’attività investigativa o giurisdizionale; quando invece le informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario siano utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare o a sostituire gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti e autonomamente offensive, il giornalista deve assumersi direttamente l’onere di verificare le notizie e di dimostrarne la pubblica rilevanza, non potendo reinterpretare i fatti nel contesto di un’autonoma e indimostrata ricostruzione giornalistica” (Cass. pen., sez. I, 28.1.2008, n. 7333; Cass. pen., sez. V, 23.1.2017, n. 15587).
In sintesi, in aderenza al consolidato orientamento della giurisprudenza in materia, deve ritenersi che il diritto all’integrità morale del singolo ceda di fronte al diritto all’informazione e, quindi, la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell’onore potrà considerarsi lecita espressione del diritto di cronaca qualora ricorrano tre condizioni: a) utilità sociale dell’informazione; b) verità oggettiva, o anche solo putativa, dei fatti riferiti, purché frutto di diligente lavoro di ricerca; c) correttezza formale dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, che non ecceda lo scopo informativo da conseguire e che sia improntata a leale chiarezza, evitando forme di offesa indiretta (cd. “continenza”).
Nella fattispecie in esame, per quanto sopra osservato, detti limiti risultano osservati e, quindi, la pubblicazione dell’articolo del 29.5.2003 non integra gli estremi della diffamazione.
L’attore lamenta che la convenuta, dopo aver pubblicato in data 29.5.2003 detto articolo, non avrebbe successivamente provveduto alla pubblicazione della notizia della doppia assoluzione del (…) ed alla cancellazione della notizia del 2013.
Deduce, in particolare, di avere scoperto, nel corso del 2013, che inserendo il proprio nome nel motore di ricerca “(…)” compariva ancora la notizia sul (…) di data 29.5.2013.
Lamenta quindi di avere subito gravi danni, come società e quale persona fisica, essendo egli noto sia per la sua attività professionale che per l’attività artistica di musicista di fama internazionale.
Va innanzitutto rilevato che la citazione, pur non essendo nulla (in quanto risultano comunque indicati il petitum e la causa petendi) è formulata, quanto all’allegazione dei danni subiti ed alla relativa domanda di risarcimento, in maniera del tutto generica.
Non ci si riferisce, evidentemente, all’indicazione del quantum debeatur, il quale potrebbe anche essere determinato dal Giudice in via equitativa, ma alla stessa allegazione delle specifiche voci di danno, patrimoniale o non patrimoniale, che sarebbe derivato all’attore in conseguenza della condotta della convenuta.
Invero, in citazione l’attore lamenta genericamente l’esistenza di ‘un danno gravissimo per la Società e per il (…), molto noto per la sua attività professionale (amministratore dello Studio gestione (…) s.r.l.) e artistica (musicista di fama internazionale, nonché organizzatore di eventi culturali anche per conto di enti pubblici” (pag. 7 citazione), una “diffusa e grave diffamazione, che tuttora persevera, che offende l’onore, la reputazione e il valore di vita dell’attore” (pag. 23), riferendosi genericamente ad un offesa all’onore, alla reputazione e all’immagine del (…) e della sua società (pag. 25), affermando che le predette pubblicazioni hanno determinato nell’attore “un grado elevato di sofferenza soggettiva, oltre che ripercussioni nella vita extra-lavorativa di relazione e sociale” (pag. 25) e che, quanto al danno patrimoniale, che la SGS “ha avuto un pauroso calo della sua attività” negli anni successivi alla grave notizia del 2003, il che avrebbe allontanato i clienti.
Tale genericità e indeterminatezza non è venuta meno pur dopo il deposito della prima memoria ex art. 183 6 comma c.p.c., in cui vengono sostanzialmente ripetute le predette generiche allegazioni.
Premesso che, come s’è detto, l’articolo pubblicato nel 2003 non ha carattere diffamatorio, va rilevato come la domanda di risarcimento del danno non contenga comunque l’indicazione delle specifiche e concrete voci di danno, patrimoniale e non patrimoniale, che si assume sia derivato a parte attrice per effetto della condotta di parte convenuta nè di quale specifico pregiudizio sia ad essa derivato – con riferimento alla sfera esistenziale del (…) ed a quella economica della SGS – in conseguenza della mancata cancellazione della notizia sulle indagini in corso dall’archivio del 2003 del quotidiano online.
Costituisce principio pacifico nella giurisprudenza della Suprema Corte quello per cui “la domanda di risarcimento del danno (…) deve essere formulata esplicitamente, e non può ritenersi implicita nella richiesta generica di condanna del convenuto al risarcimento di “tutti i danni”…” (cfr., ex multis, Cass. 21245/2012) e quello secondo cui “nei giudizi risarcitori la domanda deve descrivere in modo concreto i pregiudizi dei quali si chiede il ristoro, senza limitarsi a formule generiche, come la richiesta di risarcimento dei “danni subiti e subendi”, perchè tali domande, quando non nulle ex art. 164 cod. proc. civ., non obbligano il giudice a provvedere sul risarcimento di danni che siano concretamente descritti solo in corso di causa” (Cass. 13328/2015; conforme: Cass. 24091/2017).
E’ infatti indubbio che le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta in tesi colpevole della controparte, produttiva di danni nella sfera giuridica di chi agisce in giudizio, ma devono comprendere anche la specifica indicazione dei pregiudizi che si lamentano essere derivati dalla condotta di controparte.
Né, con riferimento al danno patrimoniale, l’omessa indicazione delle voci di danno asseritamente sofferte può essere colmata da una c.t.u., la quale avrebbe, in tal caso, finalità meramente esplorativa.
In aderenza a condivisibile giurisprudenza di legittimità, deve poi ritenersi erroneo l’assunto per cui il danno non patrimoniale da lesione dell’onore e della reputazione sia un danno in re ipsa (cfr., ex multis, Cass. 25420/2017, la quale in motivazione precisa che tale principio si applica sia nel caso in cui il danno derivi da reato (Cass. 8421/2011), sia quando sia contemplato come ristoro tipizzato dal legislatore, come ad esempio in materia di tutela della privacy (Cass. 22100/2013), sia che derivi dalla lesione del diritto all’onore ed alla reputazione della persona fisica (Cass. 24472/2014)).
Ciò in quanto, prosegue la Corte di Cassazione, con il superamento della teoria del c.d. “danno evento”, il danno risarcibile, “nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dalla norma vivente dell’art. 2043 c.c., cui è da ricondurre la struttura stessa dell’illecito aquiliano, (…) non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione” (Cass.16133/2014).
Va infine rilevato che anche i capitoli di prova orale sono stati formulati da parte attrice in maniera generica e, per tale motivo, correttamente non ammessi dal precedente g.i.
Quanto sopra è assorbente rispetto alle altre questioni prospettate dalle parti e, in virtù del principio della ragione più liquida (ex plurimis, Cass. sez. un. 24523/2008; Cass. sez. un 24883/2008), comporta il rigetto delle domande attoree.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo in base al D.M. n. 55 del 2014, valore della controversia, esclusa la fase istruttoria ed applicate le tariffe medie ridotte ex art. 4 DM in ragione del concreto grado di complessità delle questioni trattate.
P.Q.M.
definitivamente pronunciando nella causa n. 1368/2014 R.G., ogni diversa domanda, istanza, eccezione e deduzione disattesa, così provvede:
1. Rigetta le altre domande attoree;
2. Condanna parte attrice al pagamento, in favore di parte convenuta, delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 4.015,00 per compensi, oltre spese forfetarie, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
Così deciso in Pordenone il 4 giugno 2018.
Depositata in Cancelleria il 15 giugno 2018.