l’appalto illecito deve essere escluso quando l’ingerenza del committente si sia mantenuta nei limiti di una collaborazione per armonizzare le rispettive attività e consentire una esecuzione dell’opera appaltata che sia proficua per l’appaltante.
Per ulteriori approfondimenti in merito al contratto di appalto, con particolare rifeferimento alla natura agli effetti ed all’esecuzione si consiglia il seguente articolo: L’appalto privato aspetti generali.
Tribunale Roma, Sezione Lavoro civile Sentenza 19 febbraio 2019, n. 1614
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI ROMA
SEZIONE LAVORO – PRIMO GRADO Terzo
IL GIUDICE, Dott. Umberto Buonassisi, quale giudice del lavoro, all’udienza del 19 febbraio 2019 ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n. 10218/2018 R.G e vertente
TRA
(…), elettivamente domiciliata in Roma, Via (…), presso lo Studio dell’Avv. Ot.Sa., che la rappresenta e difende per delega in margine al ricorso
RICORRENTE
E
(…) SPA, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Viale (…) rappresentata e difesa dall’Avv. Do.De. per procura in atti
RESISTENTE
FATTO E DIRITTO
La ricorrente, già dipendente dal 1.7.2009, della (…) srl e poi della (…) srl, con inquadramento nel IV livello del ccnl imprese Private operanti nel settore della distribuzione postale e in esecuzione di un contratto di appalto con (…) spa, ha dedotto di avere di fatto svolto prestazioni lavorative in favore della sola (…) spa in virtù di una illegittima intermediazione di manodopera e di una somministrazione irregolare.
Ha chiesto, pertanto, ai sensi dell’art. 27 e dell’art. 29, comma 3 bis, del D.Lgs. n. 276 del 2003, di dichiarare che tra lei e (…) si è instaurato un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con inquadramento nel livello D del CCNL per il personale non dirigente di P. e la persistenza attuale del medesimo rapporto di lavoro e di condannare la convenuta a riammetterla in servizio e a corrisponderle tutte le retribuzioni maturate medio tempore maturate dal 7.2.2018 sino all’effettiva reintegra, con gli accessori di legge.
Ciò in quanto avrebbe utilizzato i mezzi di (…) dal 1.7.2009 sino al 31.5.2013 presso gli uffici di (…) di Roma Montesacro e Roma Bravetta e avrebbe sempre lavorato con modalità analoghe a quelle dei dipendenti di quest’ultima e utilizzando un cartellino di riconoscimento in cui era indicato “su incarico di (…) spa”, svolgendo mansioni consistenti nella consegna per conto di (…) della corrispondenza presso privati, aziende, enti pubblici e statali e in “servizi aggiuntivi”, in alcuni casi neanche previsti dall’appalto, sulla base di ordini e direttive dei caposquadra degli uffici di (…) e (…).
La stessa ricorrente non solleva peraltro alcuna specifica contestazione quanto alla regolarità e legittimità del contratto di appalto e nemmeno allega che la (…) srl e la (…) fossero delle “scatole vuote” e cioè dei soggetti privi di reale natura imprenditoriale.
Ora, se l’inerzia dopo la cessazione del rapporto del 2013 per alcuni anni non può integrare la fattispecie del c.d. “mutuo consenso” in base ad una giurisprudenza di legittimità oggi del tutto pacifica e ampiamente consolidata della Suprema Corte (in ogni caso, a partire dall’entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, la risoluzione per mutuo consenso di un rapporto di lavoro non può validamente avvenire senza le forme prescritte dall’art. 4 co. 17 della legge citata), si tratta di un ricorso infondato come evidenziato già da svariati e condivisibili precedenti di questo Tribunale e della stessa Corte D’Appello, relativi alla stessa vicenda (v., da ultimo, Corte D’Appello di Roma, sent. n. 248/2019), o a vicende simili, quindi non solo presso (…) spa.
La carenza di qualsiasi “specifica”contestazione quanto alla legittimità dell’appalto e alla genuina natura imprenditoriale della (…) e della (…) si spiega infatti agevolmente ove si consideri che questo, avente ad oggetto “la fornitura del servizio di distribuzione e raccolta di corrispondenza e posta non indirizzata ed espletamento dei servizi ausiliari” è stato disciplinato da un accordo quadro avente ad oggetto, appunto, la fornitura di determinati servizi (v. docc. da 1 a 5 di (…): si tratta dell’accordo quadro del 3 luglio 2008 e dell’accordo quadro del 31 gennaio 2013).
Alla fine una applicazione oggi del tutto legittima del fenomeno della esternalizzazione c.d. “intra moenia” che consente di affidare la produzione a terzi, pur permanendo questa fisicamente nello stesso luogo in cui era collocata in precedenza.
Si comprende quindi come la dedotta utilizzazione di mezzi e strumenti dell’appaltatore e il fatto che la ricorrente lavorasse con mansioni, orari e modalità simili se non identici a quelli dei dipendenti di (…) di per sè non dimostra nulla perché l’appalto riguardava proprio “la fornitura di servizi di distribuzione e raccolta corrispondenza e posta non indirizzata e l’espletamento dei servizi ausiliari in alcuni ambiti specificatamente indicati”.
Sotto questo profilo il ricorso sembra ignorare proprio che la L. n. 1369 del 1960 è stata da tempo abrogata dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, per cui attualmente non può più ritenersi operante il divieto di interposizione di manodopera attraverso la stipula di appalti con soggetti terzi.
La suddetta normativa, ha affermato la giurisprudenza (Trib. di Roma 27/10/2009), ha chiaramente sovrapposto una diversa disciplina volta sia a regolamentare la c.d. somministrazione di manodopera, cioè il fenomeno interpositorio attraverso il quale un datore di lavoro può utilizzare prestazioni di lavoro di un lavoratore formalmente alle dipendenze di altro soggetto, istituto già previsto dalla precedente L. n. 196 del 1997, ma in precedenza vietato dall’ordinamento.
Rovesciando integralmente l’impostazione di disfavore verso fenomeni interpositori che caratterizzava la legislazione precedente, pur se in progresso di tempo ampiamente annacquato dalla giurisprudenza, il legislatore del 2003 è intervenuto sia ammettendo la possibilità per il datore di lavoro di “esternalizzare” alcuni servizi aziendali attraverso il ricorso a contratti di appalto, sia disciplinando la somministrazione di lavoro.
Con il D.Lgs. n. 276 del 2003 (in particolare art. 27, comma 1) è soprattutto venuta meno la presunzione del carattere meramente interpositorio del contratto posta in precedenza dall’art. 1, c. 3, della L. n. 1369 del 1960, in riferimento al caso in cui “l’appaltatore impieghi capitali,macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante”.
Tuttavia il ricorso sembra fondarsi essenzialmente, pur se non esclusivamente, su questa presunzione dimenticando l’elaborazione e l’evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte nella materia.
In ogni caso, oggi, nella vigenza del diverso regime di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, resta fermo che è a carico del lavoratore l’onere di dimostrare, con tempestive e idonee istanze istruttorie, che il datore di lavoro apparente non ha reale autonomia economica e gestionale ed è invece una “scatola vuota”.
Nel caso di specie dallo stesso ricorso emerge che la ricorrente ha svolto attività per la gran parte corrispondenti proprio ai servizi appaltati e la circostanza che questi corrispondano all’attività ordinaria aziendale non ne inficia la validità, né integra alcuna ipotesi di intermediazione illecita vietata,trattandosi comunque di attività di supporto a quella svolta dai portalettere ed essendo la (…) e la (…) pacificamente soggetti dotati di una propria autonoma organizzazione rispetto a quella della committente.
Tutto è quindi legittimo in quanto, come affermato dalla giurisprudenza: “il contratto d’appalto, avente ad oggetto opere o servizi da eseguire nell’interno dell’azienda dell’appaltante, o all’interno del suo ciclo produttivo necessita si un’organizzazione ed una gestione propria dell’appaltatore. L’assuntore dei lavoratori è provvisto di autonomia organizzativa e gestionale, nell’ambito, benvero, dell’organizzazione e della gestione delle prestazioni lavorative concretamente affidate. In astratto, l’imprenditore può affidare in appalto (lecito) tutte le attività in grado di fornire un autonomo risultato produttivo, senza che sia consentito escludere l’ipotesi in cui l’organizzazione del committente sarebbe in grado di eseguire direttamente la lavorazione, sfuggendo al sindacato giurisdizionale l’esistenza di valide ragioni per il ricorso alla convenzione di appalto”.
Nè può essere condivisa l’opinione per la quale non vi sarebbe coincidenza tra la fattispecie dell’art. 29 e quella di cui all’art. 1655 c.c.
Come analogamente affermato dalla giurisprudenza infatti (v., ad es., Corte D’Appello di Roma sent. n. 5267/2017): “Concorda il Collegio con la dottrina prevalente che ha comparato la definizione dettata dall’art. 29 del decreto con quella di cui all’art. 1655 c.c. concludendo che il legislatore delegato si è limitato ad esplicitare contenuti che già di per sé dovevano ritenersi desumibili in via interpretativa dal sistema. Il maggior elemento di novità presente nella nuova nozione è certamente rappresentato dal fatto che l’organizzazione dei mezzi necessari che, insieme alla gestione a proprio rischio, deve caratterizzare l’esecuzione dell’appalto, può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto. Il legislatore si è allora limitato a recepire i principi cui la giurisprudenza era già pervenuta attraverso l’opera di interpretazione delle norme vigenti: l’appalto può essere genuino anche laddove l’appaltatore si limiti ad organizzare l’attività dei propri dipendenti impiegati nell’esecuzione dell’opera o del servizio, purché ciò sia consentito dal tipo di opera o servizio e l’appalto sia eseguito dall’appaltatore con piena autonomia gestionale, consistente non nella determinazione delle caratteristiche del prodotto, riservate al committente, ma nella conduzione aziendale, nella direzione del personale, nella scelta delle modalità e dei tempi di lavoro (v. Cass. 29.8.03 n.12664).- In conclusione, ben può l’organizzazione di mezzi consistere nella sola organizzazione del lavoro senza l’impiego di rilevanti capitali e attrezzature, ma ciò soltanto in quanto il tipo di opera o di servizio da realizzare siano tali per cui debba ritenersi principale e prevalente l’organizzazione del lavoro rispetto all’impiego di macchinari e attrezzature. Nell’ottica dell’art. 29 del D.Lgs. n. 276 del 2003 assumono, quindi, decisivo rilievo, quali criteri di demarcazione tra appalto genuino e pseudo appalto, l’organizzazione dei mezzi materiali necessari per l’esecuzione dell’appalto e l’assunzione del rischio, con la precisazione che il primo può anche risultare, appunto, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, essendo così sancita, per gli appalti cosiddetti labour intensive, l’importanza dell’organizzazione del fattore lavoro. …..Quanto all’esercizio del potere di controllo da parte del committente, è stato precisato che esso è compatibile con un regolare contratto di appalto e che, sotto questo profilo, può ritenersi legittima la predeterminazione da parte del committente anche delle modalità temporali e tecniche di esecuzione del servizio o dell’opera oggetto dell’appalto che dovranno essere rispettate dall’appaltatore, con la conseguenza che non può ritenersi sufficiente ai fini della configurabilità di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale dell’appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell’appaltatore, occorrendo verificare se le disposizioni impartite siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al solo risultato di tali prestazioni, il quale può formare oggetto di un genuino contratto di appalto (Cass.12201/2011).I giudici di legittimità, nel ribadire tale principio hanno, poi, affermato che ferma la ratio legis che sottende la disciplina di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003 e l’autonomia e la specificità degli istituti ivi previsti, rispetto alle disposizioni previgenti abrogate dal medesimo D.Lgs. e alle disposizioni del codice civile, l’interprete può, tutt’ora, rinvenire nei principi sopra richiamati alcuni parametri significativi al fine della verifica della ricorrenza o meno di un contratto di appalto attraverso il quale si intenda eludere le disposizioni che disciplinano il mercato del lavoro. Ciò, in particolare, tenendo conto che il citato art. 29 D.Lgs. n. 276 del 2003 fa riferimento, giova ribadirlo, nell’indicare le peculiarità del contratto di appalto, all'”organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”, e, dunque, naturalmente, nei limiti della persistenza, nelle disposizioni vigenti, di analoghi indici rivelatori della insussistenza di un contratto di appalto di opere e di servizi (Cass. 15615/2011″.
Quindi, contrariamente a quanto sembra ritenere la ricorrente, è legittima quella “predeterminazione da parte del committente anche delle modalità temporali e tecniche di esecuzione del servizio o dell’opera oggetto dell’appalto che dovranno essere rispettate dall’appaltatore” su cui si sofferma il ricorso.
Per altro verso la difesa della ricorrente ha invocato i principi già affermati dalla L. n. 1369 del 1960 in tema di interposizione fittizia di manodopera e di appalto illecito, sul presupposto che ad utilizzare la sua attività sia stata la sola (…) e che (…) e (…) si siano limitate alla gestione amministrativa del rapporto di lavoro, senza alcuna ingerenza circa le modalità esecutive della prestazione lavorativa.
In realtà il ricorso non specifica in alcun modo in che cosa sarebbe consistito il potere direttivo e disciplinare esercitato da (…) sulla ricorrente e comunque trascura di considerare che il potere di controllo e di interferenza sulla corretta esecuzione della prestazione da parte della committente è pienamente compatibile con la posizione di soggetto utilizzatore della prestazione.
Le raccomandazioni e le direttive di carattere generale di (…) sulle modalità di espletamento delle attività (e la stessa “indicazione” delle attività da svolgere, v. punto 20 del ricorso) non sono affatto sintomatiche di intermediazione illecita di manodopera ma proprio di questo potere di coordinamento che comunque l’imprenditore deve esercitare al fine di fare in modo che l’appalto possa conseguire lo scopo previsto (v., ad es., Corte D’appello di Roma, sent. n. 1103/2018).
La ricorrente insiste sulle presunte attività non coincidenti con quelle oggetto dell’appalto e sui servizi “aggiuntivi” ma proprio dal ricorso emerge che l’attività della I. era strettamente collegata ad un tipico ausilio nella distribuzione della posta, conforme ai servizi concessi in appalto.
La ricorrente non ha neppure dedotto che si doveva rivolgere a (…) per le ferie o per ottenere un permesso, che doveva giustificare le sue eventuali assenze al committente e in precedenti analoghi procedimenti è stato accertato che i turni di servizio erano comunque predisposti da un caposquadra dalla (…) (v. sent. n.6356/2016 del Tribunale di Roma, confermata dalla Corte d’Appello).
Come si è detto, né il ricorso, né i relativi capitoli di prova, specificano in che cosa sarebbe consistito il potere direttivo e gli “ordini” di (…) nei suoi confronti.
O meglio ciò che indicano sono solo i normali poteri di “conformazione” del committente.
Va quindi esclusa la rilevanza di istanze istruttorie quali quelle richieste nel presente giudizio dalla ricorrente: “Quanto al secondo profilo, osserva il Collegio che, come correttamente ritenuto dal Tribunale, la stessa formulazione dei capitoli di prova, richiamanti le già generiche prospettazioni in fatto descritte in ricorso, risulta pure generica rispetto alle circostanze rivelatrici della sottoposizione ai poteri tipici del datore di lavoro subordinato e del potere direttivo di controllo e disciplinare, non descrivendo la frequenza, il contenuto e la portata precettiva delle direttive o delle disposizioni asseritamente impartite dal personale dell’appaltante né fornendo elementi idonei ad una adeguata identificazione della natura di tali disposizioni e della loro inerenza o meno a concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Il che preclude in radice la possibilità di verificare se tali disposizioni esulassero effettivamente dal potere di conformazione e di controllo che entro certi limiti pure compete all’appaltante. Nell’atto di gravame, insomma, non è dato cogliere in quali termini il relativo motivo di censura possa superare l’obiezione di genericità delle circostanze articolate in ricorso dalle quali non è possibile desumere “… la capillare, stringente, costante organizzazione del lavoro dei ricorrenti nonché l’esercizio del relativo potere disciplinare da parte di ….” (così, in motivazione, Corte D’Appello di Roma sent. n. 5267/2017 in tema proprio di intermediazione illecita di manodopera).
In questo quadro il presunto svolgimento anche di attività che non sarebbero rientrate formalmente nell’appalto, quali le operazioni preparatorie alla consegna e dei c.d. viaggetti e le altre indicate in ricorso,non può condurre a diverse conclusioni e semmai è significativo quanto emerso in analoghi giudizi e cioè che i lavoratori dell’appalto si lamentavano della circostanza con i capi squadra della (…), sentendosi rispondere che non dovevano dire nulla per evitare di perdere l’appalto, perché conferma che l’appaltatore manteneva in pieno il proprio potere organizzativo nei confronti degli stessi lavoratori (v. Trib. di Roma sent. n. 9621/2015).
Si è comunque trattato di “attività aggiuntiva e perfettamente sovrapponibile a quella svolta nell’ambito dell’appalto” e il fatto che preposti del committente potessero “rimproverare” o chiedere alla ricorrente anche “una attività ulteriore e non dovuta” rientra alla fine nell’ambito del rapporto di collaborazione tra soggetti che lavorano nello stesso ambiente, senza per questo poter stravolgere la struttura del rapporto di lavoro al punto da affermare la titolarità di un diverso soggetto (v. ancora, Trib. di Roma sent. 6356/2016).
L’irrilevanza di tali presunte attività “aggiuntive” non previste ma strettamente collegate a quelle oggetto dall’appalto è stata comunque affermata dalla più recente giurisprudenza della Cassazione secondo la quale, per affermare la natura fraudolenta dell’appalto non è sufficiente che il personale del committente impartisca ordini al personale dell’appaltatrice e neanche che quest’ultima tolleri lo svolgimento di mansioni diverse da quelle oggetto dell’appalto, essendo necessaria una manifestazione di volontà dei competenti organi del committente.
“La questione che la ricorrente sottopone, ora, alla Corte è se detta fattispecie legale possa ritenersi realizzata quando, stipulato un contratto di appalto per un certo servizio da svolgere con una determinata prestazione (pulizia locali) alcuni dipendenti dell’appaltante utilizzino i dipendenti dell’appaltatore per altre prestazioni (lavori archivistici), non previste nel contratto d’appalto. Alla questione deve darsi risposta negativa. Quando, come nella specie, il soggetto appaltante sia un’impresa costituita in forma societaria, le sole attività negoziali e materiali rilevanti sono quelle compiute dagli organi deputati a formare ed estrinsecare la volontà della società, nonché a rendere imputabile alla medesima le attività compiute. Inoltre, l’articolo 1 legge cit. fa riferimento a certe “prestazioni di lavoro”, previste nel contratto d’appalto, e non alle altre che i lavoratori, dopo la conclusione del contratto, vengano eventualmente a svolgere. Da ciò consegue che, nei casi in cui l’attività svolta, di fatto, dal dipendente dell’appaltatore sia diversa da quella prevista nel contratto d’appalto, non trovano applicazione l’articolo 1 cit., comma 5 il quale non può essere applicato neppure quando, come nella fattispecie all’esame della Corte, l’iniziativa per affidare al lavoratore quelle attività sia assunta da dipendenti dell’appaltante, dei quali non sia stata accertata la competenza a stipulare contratti di lavoro subordinato o, per lo meno, ad adibire di fatto i lavoratori dipendenti a mansioni diverse da quelle per le quali essi siano stati assunti…” (così Cass. n. 8863 dell’11/4/2013).
Ciò esclude anche la rilevanza di qualsiasi attività istruttoria sul punto.
Peraltro, come si legge in altra sentenza recente della Corte D’Appello di Roma (n. 894/2016), il nuovo regime normativo richiede all’appaltante, in ragione dell’ampliamento dell’area della responsabilità solidale, di ingerirsi nelle modalità di gestione del personale utilizzate dall’appaltatore, onde evitare di incorrere in responsabilità patrimoniali per gli obblighi di questi nei riguardi dei dipendenti (art. 29, comma 2 e art. 26 D.Lgs. n. 81 del 2008).
Ne consegue che il “vero” datore di lavoro non è quello che ha esercitato questo legittimo “potere di conformazione”.
Ma, casomai, quello che ha esercitato i “veri” poteri del datore di lavoro.
Come si è visto l’uso di strumenti/mezzi/locali predisposti da (…) era funzionale alla realizzazione dell’appalto e, di per sé, non costituisce circostanza idonea a determinare alcuna subordinazione della ricorrente nei confronti del committente.
Non a caso si è affermato che l’appalto non può ritenersi “non genuino” per la sola circostanza che, ad esempio, l’appaltatore abbia fornito un supporto formativo al personale addetto all’appalto, risultando anch’esso funzionale alla resa e al risultato del servizio ad opera dell’appaltatore” (v. ad es, Tribunale civile di Roma sentenza del 21 aprile 2015).
Infatti: “rilevano, ai fini di escludere la genuinità dell’appalto, altri elementi pure emersi nell’istruttoria. Che i lavoratori (…) siano stati destinatari di corsi di formazione tenuti (anche) da personale…. che svolgessero un’attività parzialmente sovrapponibile a quella svolta da dipendenti …..a in un ambiente lavorativo contiguo, sono circostanze pienamente compatibili con la figura dell’appalto endoaziendale, in cui il servizio oggetto del contratto di appalto è strettamente collegato con l’organizzazione imprenditoriale della committente, a condizione che l’appaltatore non si limiti, per i suoi dipendenti, a una gestione, puramente amministrativa e a distanza…” (così Tribunale civile di Roma, sezione lavoro, sentenza del 9 luglio 2014).
In questo quadro le deduzioni e istanze istruttorie della ricorrente non appaiono idonee a fornire la dimostrazione dell’esistenza di una effettiva situazione di intermediazione illecita di mano d’opera e/o di appalto illecito, secondo la disciplina del D.Lgs. n. 276 del 2003.
Considerando, prima di tutto, che il requisito dell’organizzazione dei mezzi necessari, qualificante il contratto di appalto, ben può essere identificato, secondo un principio ormai consolidato in giurisprudenza, nella direzione ed organizzazione da parte della società appaltatrice dei propri dipendenti.
E che la presunta sottoposizione ad un vero e proprio potere direttivo e disciplinare di (…) è stata dedotta con generiche e inidonee allegazioni, prive oltretutto di qualsiasi riscontro documentale, che non specificano nemmeno in che costa questo sarebbe consistito (al punto che la ricorrente è stata costretta a richiamare la mera e pienamente compatibile con l’appalto “indicazione delle attività da svolgere” da parte di (…) e persino a invocare il cartellino di presenza che semplicemente serviva a identificare chi lavorava “su incarico” di (…) e non certo un suo dipendente) e che non dimostrano niente di diverso dalla normale ingerenza del committente nell’esecuzione dell’appalto.
Come si è pure già visto è pacifico, in assenza di qualsiasi deduzione del contrario, che il controllo anche disciplinare sulle assenze, ritardi e comunicazione delle malattie è stato sempre esercitato dall’appaltatore.
Ne abbiamo che proprio (…) (e in seguito (…)) era il soggetto che esercitava i poteri tipici ed esclusivi del datore di lavoro (il “controllo disciplinare”), senza che possa rilevare in alcun modo che vi fosse una vigilanza di (…) che avrebbe mosso non meglio precisati rimproveri e richiami (v. punto 21 del ricorso).
Si è analogamente già evidenziato che il ricorso è carente di qualsiasi deduzione e allegazione istruttoria capace di dimostrare che l’appaltatore fosse una “scatola vuota”.
Quindi non si vede come potrebbe dubitarsi della sussistenza anche del requisito dell’assunzione della gestione a proprio rischio da parte della società appaltatrice.
In conclusione, come statuito dalla Suprema Corte, l’appalto illecito da parte di impresa appaltatrice si verifica quando l’intera gestione dei rapporti di lavoro sia stata completamente affidata all’impresa appaltante (Cass. 4046/1999).
Mentre, nel caso di specie, la ricorrente non ha contestato che l’appalto prevedesse l’affidamento di un effettivo servizio.
Ed è certo e documentalmente acclarato, risultando dallo stesso ricorso, che l’intera gestione del rapporto di lavoro non è stata stata “completamente” affidata all’impresa appaltante e/o committente.
Del resto la genuinità dell’appalto viene meno solo allorché il potere di ingerenza esercitato dal committente in ordine all’esecuzione della prestazione sia talmente ampio da escludere qualsiasi forma di intervento da parte dell’interposto (Cass. n. 1191/93; Cass. n. 151/88) sì da concretare un diretto rapporto di lavoro tra committente e lavoratore.
Comunque non vi è nulla di illecito, di per sé, nel fatto che, ad esempio,il servizio si svolga all’interno dell’azienda della committente ed è normale che vi possa essere stata una certa ingerenza sui dipendenti dell’appaltatore (v, tra le più recenti, Cass. n. 14315 del 13/7/2016 ove l’appalto non sia stato comunque privo del rischio di impresa).
In altre parole, l’attività di ingerenza, ai fini della sussistenza di una ipotesi di intermediazione vietata, non sussiste quando il committente si limiti a dare “indicazioni” dirette ad ottimizzare i risultati dell’attività dell’appaltatore, non essendo dubitabile che “anche il committente di un opera o di un servizio ben può fornire indicazioni anche tecniche in ordine all’esecuzione degli stessi e mantenere un potere di controllo e ingerenza rispetto alla verifica del risultato di quanto oggetto dell’appalto” (così Trib. Roma, sez. lav., 16 dicembre 2008 – 23 marzo 2009 n. 20502/08).
Ne consegue che l’appaltatrice ha sempre mantenuto le prerogative del datore di lavoro come dimostra anche il fatto la medesima ricorrente non ha saputo indicare alcuno specifico atto capace di dimostrare che il potere disciplinare nei suoi confronti fosse esercitato da (…).
Si deve allora ribadire che l’appalto illecito deve essere escluso quando l’ingerenza del committente si sia mantenuta nei limiti di una collaborazione per armonizzare le rispettive attività e consentire una esecuzione dell’opera appaltata che sia proficua per l’appaltante (Cass. n. 6860/98; Cass. n. 6347/98).
E che è proprio a carico del lavoratore l’onere di dimostrare con specifiche e tempestive allegazioni che mancano del tutto nel caso in esame il superamento di questo limite.
Per le esposte ragioni, del tutto assorbenti secondo il principio della ragione più liquida rispetto alle altre eccezioni sollevate dalla convenuta (compresa quella di decadenza), la causa deve essere decisa senza dilazione, stante la già ricordata carenza di qualsiasi idonea allegazione e istanza istruttoria capace di dimostrare che l’assunzione della gestione da parte della appaltatrice non è avvenuta a proprio rischio e l’assenza di autonomia imprenditoriale di quest’ultima.
Ovvero di dimostrare che il vero datore di lavoro fosse proprio (…) spa.
Si intende dire che le pretese della ricorrente vanno respinte in ogni caso per l’assenza di allegazioni idonee a consentire di inquadrare la vicenda in una delle residue fattispecie di interposizione illecita oggi vietate.
Dovendosi ricordare che: “La regola, costituzionalizzata ed immanente nel processo, della sua ragionevole durata sconsiglia l’esercizio di attività istruttorie che nel quadro probatorio complessivo non risultino decisive” (cfr. Cass. n. 878 del 16/1/2013).
E che nel rito del lavoro, stante il divieto delle udienze di mero rinvio, ogni udienza (compresa la prima), è destinata alla discussione e quindi all’immediata pronunzia della sentenza; né è in potere del giudice o delle parti di disporre diversamente, frazionando il processo in una moltitudine di udienze, contrarie al principio costituzionale di cui all’art. 111, 2 comma, Cost. (Cass. n. 27457 del 22 dicembre 2006).
Il giudice in questo caso non è tenuto ad invitare le parti alla precisazione delle conclusioni, prima della pronuncia della sentenza, al termine dell’udienza, nella quale le stesse parti hanno facoltà di procedere alla discussione orale, rimessa, integralmente, alla loro discrezionalità, senza che ne risulti alcuna violazione del diritto di difesa (Cass. n. 13708 del 12.6.2007; Cass. n. 25575 del 22 ottobre 2008).
Considerando l’esistenza di un precedente, pur se in contrasto con l’orientamento largamente prevalente nella giurisprudenza, favorevole alle tesi della ricorrente (sent. n. 4082/2017, doc. n. 8 della I.), le spese devono essere integralmente compensate tra le parti, anche ex Corte Cost. n. 77/2018.
P.Q.M.
definitivamente pronunciando:
respinge il ricorso;
compensa integralmente tra le parti le spese processuali.
Così deciso in Roma il 19 febbraio 2019.
Depositata in Cancelleria il 19 febbraio 2019.