L’azione diretta al rispetto delle distanze legali e’ modellata sullo schema dell’actio negatoria servitutis, essendo rivolta non gia’ all’accertamento del diritto di proprieta’ dell’attore, bensi’ a respingere l’imposizione di limitazioni a carico della proprieta’, suscettibili di dar luogo a servitu’. Tale azione, in considerazione del carattere reale, e’ esperibile esclusivamente nei confronti del proprietario confinante. Ne consegue che essa, quando e’ volta ad ottenere l’accertamento della inesistenza della servitu’ di apporre le tubature del gas sul muro perimetrale di un edificio e la conseguente condanna alla loro rimozione, va proposta non nei confronti dell’utente del servizio di fornitura comproprietario del muro, che e’ privo di legittimazione passiva, ma nei confronti dell’ente erogatore del gas, quale proprietario del fondo dominante costituito dall’impianto di distribuzione.
Corte di Cassazione, Sezione 2 civile Ordinanza 11 settembre 2018, n. 22050
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente
Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), rappresentato e difeso, in forza di procura speciale a margine del ricorso, dall’avv. (OMISSIS), con domicilio eletto in (OMISSIS), presso la cancelleria della Suprema Corte;
– ricorrenti –
contro
(OMISSIS), rappresentata e difesa, in forza di procura a margine del controricorso, dall’avv. (OMISSIS), con domicilio eletto in (OMISSIS), presso lo studio dell’avv. (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza della corte d’Appello di Bari n. 1687 depositata il 9 dicembre 2013.
Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 28 marzo 2018 dal Consigliere Dott. Giuseppe Tedesco.
RITENUTO IN FATTO
(OMISSIS) chiamava in giudizio (OMISSIS), proprietaria di immobile vicino a quello dell’attore, e con la citazione a comparire davanti al Tribunale di Bari lamentava che la convenuta aveva apposto, sulla parete del proprio immobile, il contatore e il tubo del gas a distanza inferiore rispetto a quella prescritta.
Chiedeva quindi la condanna della vicina a riposizionare contatore e tubo alla distanza legale.
La convenuta si costituiva e chiedeva di essere autorizzata a chiamare in giudizio (OMISSIS) S.p.A., proprietaria dell’erogatore e del tubo di alimentazione del proprio appartamento.
Autorizzata ed eseguita la chiamata il tribunale rigettava la domanda.
Esso riconosceva che il contatore e il tubo erano di proprieta’ di (OMISSIS).
Quindi la convenuta non poteva essere condannata al loro spostamento, ne’, soggiungeva il tribunale, tale condanna poteva essere pronunciata a carico di (OMISSIS), atteso che nei suoi confronti il (OMISSIS) non aveva proposto domanda.
La sentenza era confermata dalla Corte d’Appello di Bari, che condivideva la valutazione del primo giudice sulla mancanza di domanda contro il terzo chiamato.
La corte di merito aggiungeva che, fino a quando (OMISSIS) non spostava il contatore e il tubo di alimentazione, non poteva pretendersi dalla convenuta lo spostamento del tubo di sua proprieta’, dipartentesi questo dall’erogatore.
Per la cassazione della sentenza (OMISSIS) ha proposto ricorso, affidato a tre motivi.
(OMISSIS) ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 889 c.p.c..
La corte d’appello non ha considerato che l’intero impianto del gas era posto ad una distanza inferiore dal confine con la proprieta’ dell’attore e che di tale impianto solo la parte esterna era di proprieta’ dell’ (OMISSIS) (quella che collega la rete stradale al misuratore), mentre la restante parte dell’impianto (quella che si diparte dal misuratore verso l’interno) era di proprieta’ della (OMISSIS), responsabile della relativa violazione.
Il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 949 c.c..
Essendo la convenuta proprietaria di parte dell’impianto, essa era legittimata passiva rispetto alla negatoria servitutis proposta dall’attore per far valere la violazione delle distanze.
Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 106 c.p.c. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
Il ricorrente sostiene che, con riferimento alla chiamata di (OMISSIS) non ricorreva l’ipotesi della chiamata in garanzia (riscontrata dalla corte d’appello), ma della chiamata del terzo che il convenuto chiamante affermi essere il vero soggetto passivo del rapporto dedotto il giudizio.
La domanda dell’attore, pertanto, si estendeva automaticamente al terzo, senza che fosse necessaria un’espressa istanza dell’attore.
E’ prioritario l’esame del terzo motivo, che e’ fondato.
L’azione diretta al rispetto delle distanze legali e’ modellata sullo schema dell’actio negatoria servitutis, essendo rivolta non gia’ all’accertamento del diritto di proprieta’ dell’attore, bensi’ a respingere l’imposizione di limitazioni a carico della proprieta’, suscettibili di dar luogo a servitu’ (Cass. n. 25342/2016).
Tale azione, in considerazione del carattere reale, e’ esperibile esclusivamente nei confronti del proprietario confinante (Cass. n. 20126/2006).
Ne consegue che essa, quando e’ volta ad ottenere l’accertamento della inesistenza della servitu’ di apporre le tubature del gas sul muro perimetrale di un edificio e la conseguente condanna alla loro rimozione, va proposta non nei confronti dell’utente del servizio di fornitura comproprietario del muro, che e’ privo di legittimazione passiva, ma nei confronti dell’ente erogatore del gas, quale proprietario del fondo dominante costituito dall’impianto di distribuzione (Cass. n. 11784/2006; conf. n. 1991/1980).
Ebbene la convenuta, sin dalla prima difesa svolta nel giudizio di primo grado, aveva eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, chiedendo di essere autorizzata a chiamare in causa (OMISSIS).
Solo in via subordinata “nel denegato caso di accoglimento della domanda”, aveva chiesto al tribunale di dichiarare “la societa’ (OMISSIS) S.p.A. (…) tenuta a manlevare e garantire la sig.ra (OMISSIS) da ogni eventuale effetto pregiudizievole economico che alla stessa dovesse derivare dal presente giudizio”.
Vi erano pertanto tutte le condizioni per fare applicazione del principio secondo cui qualora il convenuto, nel dedurre il difetto della propria legittimazione passiva, chiami un terzo, indicandolo come il vero legittimato, si verifica l’estensione automatica della domanda al terzo medesimo, onde il giudice puo’ direttamente emettere nei suoi confronti una pronuncia di condanna anche se l’attore non ne abbia fatto richiesta, senza per questo incorrere nel vizio di extrapetizione (Cass. 24249/2016; n. 27525/2009; nello stesso senso Cass. n. 2471 del 2000, impropriamente richiamata dalla corte d’appello in motivazione: “Mentre nei confronti del terzo, che sia stato chiamato in causa dal convenuto nella qualita’ di soggetto effettivamente e direttamente obbligato alla prestazione pretesa dall’attore, la domanda attrice si estende automaticamente, senza necessita’ di un’espressa istanza, analoga estensione viceversa non si verifica nel caso di chiamata del terzo in garanzia, stante l’autonomia sostanziale dei due rapporti, ancorche’ confluiti in un unico processo”).
Per completezza di esame si ricorda che il principio secondo cui “l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti da’ luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile nell’ambito dell’error in procedendo; in tal caso la Corte di Cassazione e’ giudice anche del fatto ed ha, quindi, il potere – dovere di procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali, tenendo conto della situazione dedotta in causa, della volonta’ effettiva della parte e delle finalita’ che essa intende perseguire” (Cass. n. 1097/2003; conf. 1655/2005; 1221/2006).
L’ipotesi ricorre nel caso in esame.
L’errore interpretativo ha comportato una omessa pronuncia su una domanda su cui il giudice avrebbe dovuto pronunciare, in violazione dell’articolo 112 c.p.c. (Cass. n. 16164/2015).
Quanto all’impropria rubricazione del motivo, proposto in relazione al n. 3 invece al n. 4 dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, e’ stato chiarito che “ai fini dell’ammissibilita’ del ricorso per cassazione, non costituisce condizione necessaria la corretta menzione dell’ipotesi appropriata, tra quelle in cui e’ consentito adire il giudice di legittimita’, purche’ si faccia valere un vizio della decisione astrattamente idoneo a inficiare la pronuncia; ne consegue che e’ ammissibile il ricorso per cassazione che lamenti la violazione di una norma processuale, ancorche’ la censura sia prospettata sotto il profilo della violazione di norma sostanziale ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, anziche’ sotto il profilo dell’error in procedendo, di cui al numero 4 del citato articolo 360 (Cass. n. 1370/2013; S.U., n. 17931/2013, n. 24553/2013).
L’accoglimento del terzo motivo comporta l’assorbimento degli altri motivi.
In relazione al terzo motivo, si impone la cassazione della sentenza, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Bari, che provvedera’ a nuovo esame attenendosi al principio di cui sopra e regolera’ le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
accoglie il terzo motivo; dichiara assorbiti il primo e il secondo motivo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia ad altra sezione della corte d’Appello di Bari anche per le spese.