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Corte di Cassazione, Sezione 5 penale Sentenza 24 aprile 2018, n. 18089
il delitto di bancarotta fraudolenta puo’ concorrere con quello di truffa e con quello di appropriazione indebita, sia perche’ l’obiettivita’ giuridica delle distinte ipotesi delittuose e’ diversa, sia perche’ l’iter criminis della seconda si esaurisce con l’acquisizione di beni mediante mezzi fraudolenti, mentre il fatto dell’imprenditore truffaldino, che sottragga successivamente alla garanzia patrimoniale le entita’ economiche illecitamente acquisite al suo patrimonio, costituisce un’azione distinta ed autonoma, punita a titolo di bancarotta fraudolenta, se viene dichiarato il fallimento.
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Corte di Cassazione, Sezione 5 penale Sentenza 24 aprile 2018, n. 18089
Integrale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SABEONE Gerardo – Presidente
Dott. MICCOLI Grazia – rel. Consigliere
Dott. CALASELICE Barbara – Consigliere
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS) nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 05/07/2016 della CORTE APPELLO di BRESCIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa GRAZIA MICCOLI;
Il difensore presente conclude come da comparse con richieste di liquidazioni spese che deposita per ciascuna parte civile;
Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, Dott. TOCCI Stefano, ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
Per entrambe le parti civili l’avv. (OMISSIS) ha depositato note conclusive e spese, chiedendo l’accoglimento delle relative richieste.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 5 luglio 2016, la Corte di Appello di Brescia ha, per quanto qui di interesse, confermato la condanna di (OMISSIS) (nella qualita’ di amministratore unico) per i delitti di bancarotta impropria (capo B) e insolvenza fraudolenta (capo C), relativi al fallimento (dichiarato con sentenza del 26 marzo 2013) della “(OMISSIS) s.r.l.”.
In particolare, il reato di bancarotta impropria e’ stato contestato al ricorrente nei seguenti termini: “del reato p. e p. dal Regio Decreto n. 267 del 1942, articolo 223, comma 2, n. 2 perche’ in qualita’ di amministratore unico della societa’ “(OMISSIS) s.r.l.” – con sede in (OMISSIS) s.n.c. – dichiarata fallita con sentenza emessa dal Tribunale Bergamo il (OMISSIS), per effetto di operazioni dolose cagionava l’aggravamento del dissesto societario determinando l’inevitabile fallimento della societa’. Operazioni dolose consistite nel cedere di fatto alla societa’ (OMISSIS) s.r.l. (costituita in data (OMISSIS) da soggetti per lo piu’ gia’ dipendenti della (OMISSIS) e con oggetto e sede coincidenti con quelli della societa’ fallita) il ramo d’azienda inerente il commercio di prodotti per l’edilizia “ed in particolare impermeabilizzanti ed isolanti termici”, in assenza di formale contratto d’affitto o di cessione, proseguendo contestualmente ad acquistare in proprio il materiale destinato alla successiva commercializzazione da parte della (OMISSIS) s.r.l., a cui veniva rivenduto con un sovrapprezzo del tutto simbolico (…) e senza alcuno garanzia di solvibilita’”.
Il reato di insolvenza fraudolenta e’ stato invece contestato nei seguenti termini: “del reato p. e p. dagli articoli 81 cpv e 641 c.p. perche’, in qualita’ di amministratore unico della societa’ “(OMISSIS) s.r.l.” (….) con piu’ azioni ed omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, dissimulando il proprio stato d’insolvenza, acquistava forniture di materiale plastico e pannelli isolanti dalle societa’, rispettivamente, (OMISSIS) s.p.a. (….) e (OMISSIS) s.r.l. (….), contraendo, in tal modo, con il proposito di non adempierle, le relative obbligazioni del pagamento del prezzo per un importo complessivo di Euro 619.397,50 relativo alle forniture della (OMISSIS) s.p.a. e dell’importo complessivo di Euro 128.714,63 relativo alle forniture di (OMISSIS) s.r.l.”.
Avverso tale sentenza l’imputato ha presentato, per il tramite dei propri difensori, ricorso per cassazione articolato in tre motivi.
2.1. Con il primo si denunzia violazione di legge ed illogicita’ della motivazione in ordine alla L. Fall., articolo 223, comma 2, n. 2, e articoli 521 e 522 c.p.p..
La sentenza del giudice di appello sconterebbe il vizio insito nell’errata formulazione del capo di imputazione (capo B), nel quale – pur qualificandola quale operazione dolosa cagionante l’aggravamento del dissesto della societa’, fino a determinarne il fallimento – si descrive una condotta di carattere distrattivo, relativamente ad un “ramo commerciale” della societa’, sussumibile al piu’ nella previsione di cui alla L. Fall., articolo 216, comma 1 e non in quella contestata di cui alla L. Fall., articolo 223, comma 2, n. 2.
Secondo il ricorrente, le ragioni di tale illogica articolazione del capo di imputazione vanno ravvisate nella circostanza che la qualificazione ai sensi dell’articolo 216, comma 1, n. 1 sarebbe preclusa dal fatto che la suddetta condotta distrattiva afferisce ad un c.d. “ramo commerciale”, che, in quanto privo di una propria autonoma consistenza giuridica patrimoniale, “non puo’ essere valutato in se’ come un vero e proprio bene” e, quindi, sarebbe inidoneo a costituire l’elemento oggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione.
Si censura, inoltre, la qualificazione del rapporto contrattuale di compravendita intercorrente tra la societa’ fallita e la (OMISSIS) s.r.l. come avente ad oggetto un “ramo commerciale”; ne’, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice di secondo grado, tra le predette societa’ vi e’ stata una cessione di ramo di azienda.
Sulla base di tali osservazioni, il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata si ponga in violazione anche degli articoli 521 e 522 c.p.p., in quanto “l’imputato non e’ stato messo nelle condizioni di difendersi dall’effettivo capo di imputazione”, nel quale si contesta “una fattispecie totalmente diversa rispetto ad una condotta distrattiva”.
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge con riferimento all’affermazione di responsabilita’ per il delitto di insolvenza fraudolenta.
Secondo le doglianze difensive la Corte territoriale ha pronunciato sentenza di condanna in difetto degli elementi costitutivi, oggettivi e soggettivi, del delitto di cui all’articolo 641 c.p.. Piuttosto che verificare la sussistenza di un atto di dissimulazione dello stato di insolvenza al momento della stipulazione del contratto per l’acquisto di materiale plastico e pannelli isolanti (dalle societa’ (OMISSIS) s.p.a. e (OMISSIS) s.r.l.), il giudice di secondo grado ha indicato a fondamento della condanna una serie di comportamenti commissivi (la costituzione di un fondo ove far confluire i beni familiari; la vendita a societa’ terza – (OMISSIS) s.r.l – dei materiali acquistati; l’opposizione alla restituzione dei materiali presenti negli stabilimenti) e omissivi (l’aver taciuto alle suddette societa’ la sussistenza di un contratto di affitto di azienda alla (OMISSIS) s.r.l. e di una perdita patrimoniale di quasi un milione di Euro, nonche’ il deposito di due istanze di fallimento) del tutto inidonei a costituire valido fondamento di una pronuncia di condanna, perche’ inesigibili dall’imputato.
La mancanza dell’elemento soggettivo emergerebbe, invece, dalla circostanza che dalla data di stipulazione dei contratti (dal 2010 con la societa’ (OMISSIS) s.p.a. e dal 2011 con la (OMISSIS) s.r.l.) fino alla fine del 2012, il ricorrente abbia provveduto regolarmente ad effettuare i pagamenti dovuti.
2.3. Con l’ultimo motivo si lamenta violazione di legge in ordine al mancato ritenuto assorbimento del reato di insolvenza fraudolenta in quello di bancarotta impropria.
Il ricorrente, pur riconoscendo che in astratto i delitti in parola possono concorrere, sostiene che nel caso in esame cio’ sia precluso dalla circostanza che la condotta rilevante ai sensi dell’articolo 641 c.p. “sia parte integrante del reato di bancarotta”.
Inoltre, la contestazione autonoma del reato di insolvenza fraudolenta determina in capo alle relative parti civili un posizione privilegiata rispetto a tutti gli altri creditori insinuati al passivo del fallimento.
Non sarebbe, infine, consentito al ricorrente di beneficiare della causa di estinzione del reato, prevista dall’articolo 641, comma 2, conseguente all’adempimento dell’obbligazione prima della condanna, senza commettere, in tal modo, il reato di bancarotta preferenziale.
In data 12 gennaio 2018, le parti civili, societa’ (OMISSIS) s.p.a. e (OMISSIS) s.r.l., hanno depositato memoria difensiva, con la quale, analizzando singolarmente i motivi di ricorso dedotti dall’imputato in ordine al reato di cui all’articolo 641 c.p., ne hanno chiesto il rigetto.
Si eccepisce, inoltre, l’inammissibilita’ della produzione, da parte del ricorrente, del documento di cui all’allegato n. 3 del ricorso (“Liberatoria del fallimento nei confronti del (OMISSIS)”), in quanto documento nuovo, non prodotto nella fase di merito del giudizio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non e’ meritevole di accoglimento.
Infondato e, per certi profili, inammissibile e’ il primo motivo di ricorso.
1.1. In via generale va rilevato che non possono essere valutate in sede di legittimita’ tutte le censure che fanno riferimento a questioni di fatto e quelle finalizzate ad una rivalutazione delle prove.
Il ricorrente deduce la illogicita’ della “interpretazione” delle “prove acquisite ai sensi dell’articolo 603” c.p.p., senza argomentare su un eventuale travisamento delle stesse prove, unico vizio denunziabile in questa sede e che – come e’ noto – e’ individuabile nella disposizione di cui all’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), la quale fa riferimento alla contraddittorieta’ della motivazione che risulti non dal testo del provvedimento impugnato, ma “da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”.
Quest’ultima condizione, direttamente prescrittiva dell’onere di specifica indicazione degli atti dei quali si deduce il travisamento, non si riduce tuttavia a tale aspetto procedurale, ma presuppone altresi’ che la contraddittorieta’ intercorra fra le conclusioni del provvedimento e gli atti indicati. Ne segue logicamente che l’errore deducibile in questa prospettiva, in quanto apprezzabile attraverso l’indicazione di atti singoli e determinati, deve cadere sul dato significante costituito dalla circostanza di fatto riportata quale contenuto dell’elemento di prova, per la cui rilevabilita’ in questa sede e’ necessaria la specifica indicazione dell’atto da cui l’elemento risulta, e non sul significato attribuibile allo stesso (Sez. 5, n. 18542 del 21/01/2011, Carone, Rv. 250168).
L’errore deducibile, peraltro, ricorre solo nei casi in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su un determinato elemento che si riveli insussistente o, per come esposto nel provvedimento impugnato, incontestabilmente diverso da quello reale, ovvero abbia trascurato un elemento esistente e decisivo, in modo da sollecitare un intervento del giudice di legittimita’ nel senso non di una reinterpretazione degli elementi valutati dal giudice di merito, ma della verifica sulla sussistenza e sul contenuto di detti elementi (Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099; Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215).
Pertanto, ove la censura consista – come nel caso in esame – solo nell’esposizione di valutazioni sul significato probatorio degli elementi di prova considerati, la situazione denunciata non puo’ essere ricondotta nel vizio lamentato (Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012, Maggio, Rv. 255087; Sez. 3, n. 46451 del 07/10/2009, Carella, Rv. 245611).
1.2. Infondate sono le doglianze in ordine alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
E’ bene chiarire subito che, alla stregua di quanto si desume dalla sentenza di appello e da quella di primo grado, l’imputato ha avuto la possibilita’ di esercitare pienamente il suo diritto di difesa a fronte di un articolato e dettagliato capo di imputazione, nonche’ dell’indicazione specifica da parte dei giudici di merito delle fonti di prova valutate e delle conseguenti argomentazioni poste a fondamento dell’affermazione della responsabilita’.
E, al riguardo, va rammentato che per aversi mutamento del fatto (e la correlativa violazione del principio di corrispondenza tra accusa e sentenza) occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perche’, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione e’ del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051).
1.3. Quanto all’affermazione di responsabilita’ per il reato di bancarotta contestato al capo B), va evidenziato che la Corte territoriale, sebbene a norma dell’articolo 603 c.p.p. abbia acquisito la documentazione allegata all’atto di appello (entrata nella disponibilita’ dell’imputato solo successivamente alla richiesta di abbreviato), ha affermato che i nuovi dati probatori non potessero intaccare le argomentazioni della sentenza di primo grado.
Ha osservato, infatti, che vi e’, comunque, prova dello svuotamento progressivo della (OMISSIS), poiche’ fino a gennaio 2013 i prodotti venivano acquistati dalla (OMISSIS) nonostante il ramo di produzione fosse stato ceduto alla (OMISSIS) s.r.l. gia’ il 2 aprile 2012 e la (OMISSIS) s.r.l. fosse gia’ operativa dal 2 ottobre 2012.
Il documento attestante il patto di non concorrenza, stipulato in data 11 aprile 2012, “da’ conto che solo a far data dal 3 aprile 2013 la DGSA avrebbe potuto procedere anche alla commercializzazione della produzione, oggetto del contratto di cessione del ramo di azienda e che, a partire dalla medesima data, la fallita avrebbe dovuto “dismettere ogni attivita’ residua” inerente al ramo di azienda conferito. Il documento non contiene alcun impedimento per (OMISSIS) di procedere alla commercializzazione dei prodotti e nello specifico i pannelli isolanti: cio’ e’ tanto vero che secondo l’accordo, (OMISSIS) poteva continuare a vendere i prodotti DGSA “all’abituale clientela” per un periodo di 12 mesi e, per un periodo massimo di 12 mesi, vendere alla (OMISSIS) le materie prime occorrenti alla produzione; in quest’ottica era prevista altresi’ la compensazione dei rispettivi debiti e crediti” (cosi’ la sentenza qui in esame a pag. 24).
La Corte territoriale ha, quindi, messo in evidenza che i “rapporti (stabili e permanenti) tra l’imputato, per (OMISSIS), e (OMISSIS), che prevedevano la vendita dei materiali – sia i pannelli sia il materiale per la lavorazione – alla (OMISSIS), non potevano essere in alcun modo formalizzati perche’ costituivano violazione del contratto di non concorrenza dell’aprile 2012 con la (OMISSIS). La modifica dell’oggetto sociale della (OMISSIS) nell’ottobre 2012, in esatta corrispondenza al deposito delle prime istanze di fallimento nei confronti della (OMISSIS) e la circostanza che la (OMISSIS) non fosse un cliente abituale della fallita (cui, in base al patto di non concorrenza, la fallita sarebbe stata autorizzata a vendere la merce per un ulteriore altro anno) costituiscono riprova da un lato della violazione del patto di non concorrenza, dall’altro rappresentavano una ulteriore e fondamentale utilita’ per la fallita: a fronte dei consistenti acquisti che (OMISSIS), quale legale responsabile dell'(OMISSIS), aveva effettuato dalle due parti civili (acquisti che questi sapeva di non essere in grado di pagare), la vendita del materiale a (OMISSIS) (che aveva il solo compito di una ulteriore rivendita) consentiva di frapporre tra se’ e i creditori una societa’ terza, su cui i creditori della fallita non avrebbero potuto rivalersi, e faceva apparire l’esistenza di poste attive nei confronti dell’acquirente (OMISSIS), pur nella accertata consapevolezza in capo all’imputato che questa non era in grado di onorarle (come di fatto avvenuto)” (pagg. 24 e 25 della sentenza di appello).
Ha in definitiva evidenziato la Corte di Appello che, nella condizione di insolvenza e in corrispondenza alle prime istanze di fallimento, “si e’ pensato bene di “costruire” un acquirente (la (OMISSIS)) – che, per tale diventare, ha dovuto modificare il proprio originario oggetto sociale – “non fallibile” (la richiesta del curatore del fallimento (OMISSIS) S.r.l. di dichiarare il fallimento del debitore (OMISSIS) S.r.l. non e’ stata rigettata, come pare sostenere l’imputato, per inesistenza dello stato di insolvenza, ma perche’ la S.r.l. in questione e’ stata ritenuta dal tribunale di Bergamo “soggetto non fallibile”); a questo soggetto sono stati ceduti tutti i materiali di proprieta’ della fallita, e cio’ nella consapevolezza che l’acquirente non era in grado di onorare il debito e non aveva alcuna garanzia di solvibilita’. L’operazione e’ stata certamente concordata tra i soggetti interessati se solo si tiene conto, tra l’altro, che, in data 13 gennaio 2015, a seguito di richiesta del fallimento della (OMISSIS), amministrata da (OMISSIS), questi precisava di essere amministratore anche della (OMISSIS)” (pag. 25 della sentenza).
In tali termini, dunque, i giudici di merito hanno ricostruito le operazioni dolose cui fa riferimento il capo B) delle imputazioni, ulteriormente precisando che “la (OMISSIS) si e’ inserita nella catena di commercializzazione in violazione del patto di non concorrenza, divenendo societa’ che commercializzava i prodotti della fallita; che, in ogni caso, tale inserimento aveva finalita’ elusive e pienamente inseribili nella fattispecie criminosa contestata al capo B: la vendita del materiale a detta societa’, priva di qualsiasi garanzia patrimoniale (occorre infatti evidenziare come del tutto pretestuosa sia la linea difensiva che adduce che (OMISSIS) sospese i pagamenti non sapendo se doveva pagare la fallita o il (OMISSIS), tenuto conto che, dall’accordo transattivo appena citato, risulta che la (OMISSIS), il 12 marzo 2014, convenne in giudizio il fallimento e il (OMISSIS) al fine di vedere accertato il titolare attivo del diritto di credito di Euro 704.180,00 e che a cio’ era seguita dichiarazione dell’Istituto di credito di rinuncia alla cessione e la esclusione, “con numerose comunicazioni scritte” di essere titolare del credito de quo affermando che lo stesso competeva al fallimento (OMISSIS) S.r.l. “ribadendo tale circostanza successivamente anche nella comparsa di costituzione nel giudizio”) consentiva alla fallita di apparire come creditrice di ingentissime somme (pari a quasi 1 milione di Euro) di cui conosceva la non recuperabilita’, mentre nella realta’ si era cosi’ privata di cespiti attivi.
I documenti allegati dall’imputato alla richiesta di concordato e poi alla istanza di fallimento contengono l’evidenziazione delle ingentissime perdite della societa’, risalenti gia’ al 2011, e dimostrano in maniera inequivocabile che l’intera operazione descritta al capo B dell’imputazione era volta a mascherare lo stato di dissesto, trasformando debiti che la societa’ poi dichiarata fallita aveva (anche nei confronti delle odierne parti civili), in crediti verso altra societa’, la (OMISSIS), che l’imputato sapeva perfettamente che mai avrebbe provveduto a pagare quelle somme” (pagg. 25 – 26 della sentenza).
1.4. Alla stregua di quanto su riportato in relazione alla ricostruzione dei fatti ascritti al (OMISSIS), e’ del tutto evidente come la Corte territoriale abbia ripercorso, con una valutazione puntuale, coerente e logica delle risultanze processuali, l’iter argomentativo utile all’affermazione di responsabilita’ dell’imputato per il reato di bancarotta impropria contestato nel capo di imputazione sub lettera B.
Va qui ricordato che la L. Fall., articolo 223, comma 2, n. 2 prevede due autonome fattispecie criminose; esse, dal punto di vista oggettivo, non presentano sostanziali differenze, mentre, da quello soggettivo, vanno tenute distinte: infatti, nell’ipotesi di causazione dolosa del fallimento questo e’ voluto specificamente, mentre nel fallimento conseguente ad operazioni dolose esso e’ solo l’effetto di una condotta volontaria, ma non intenzionalmente diretta a produrre il dissesto fallimentare, anche se il soggetto attivo dell’operazione ha accettato il rischio della stessa. La prima fattispecie e’ dunque a dolo specifico, mentre la seconda e’ a dolo generico.
In ragione di cio’, da tempo questa Corte ha avuto modo di affermare che non cade in contraddizione il giudice di merito che ritenga insussistente il dolo (specifico) diretto alla causazione del fallimento e, al contempo, ravvisi il dolo (generico) in relazione a singole operazioni che hanno determinato il fallimento (Sez. 5, n. 11945 del 22/09/1999, de Rosa G ed altri, Rv. 21485601; Sez. 1, n. 7136 del 25/04/1990, De Sena, Rv. 18435901).
Va pure ricordato che e’ stata gia’ ritenuta la manifesta infondatezza della questione di illegittimita’ costituzionale della norma; la fattispecie configura un reato la cui condotta e’ certamente a forma libera, ma adeguatamente definita nella sua identita’ da una serie di indici terminologici sufficientemente determinati: “la definizione dell’elemento materiale, in connessione alla configurazione di un reato proprio del ceto gestorio di una societa’ commerciale, evidenzia come le “operazioni” rilevanti siano esclusivamente quelle che si traducano in una attivita’ attinente alla funzione che qualifica i soggetti attivi selezionati dalla norma incriminatrice. In secondo luogo il fatto che le operazioni debbano essere “dolose” evoca immediatamente come l’atto di gestione debba essere posto in essere dall’autore tipico con abuso della propria carica ovvero contravvenendo ai doveri che la stessa gli impone, atteso che tale attributo – altrimenti del tutto inutile sotto il profilo tecnico-penalistico alla luce dell’articolo 43 c.p. – evidenzia un connotato d’intrinseca illiceita’ della condotta, anche a prescindere dai suoi effetti” (cosi’ in motivazione Sez. 5, n. 15613 del 05/12/2014, Geronzi e altri, Rv. 26380401).
1.5. Nel caso in esame i giudici di merito hanno correttamente ritenuto configurabile l’ipotesi del fallimento determinato da operazioni dolose, incidenti pesantemente sull’aggravamento di un dissesto gia’ in itinere.
Le operazioni dolose di cui alla L. Fall., articolo 223, comma 2, n. 2, attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedelta’ ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria della impresa e postulano una modalita’ di pregiudizio patrimoniale discendente non gia’ direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensi’ da un fatto di maggiore complessita’ strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralita’ di atti coordinati all’esito divisato (ex multis, Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Prandini e altri, Rv. 26168401).
Si e’ cosi’, per esempio, affermata la configurabilita’ della fattispecie di fallimento cagionato da operazioni dolose anche con rifermento a societa’ che avevano emesso fatture nei confronti di societa’ c.d. “cartiere”, nel quadro di una vicenda comunemente definita “truffa carosello”, osservandosi che, pdiche’ “il meccanismo della emissione di fatture per operazioni intracomunitarie inesistenti risponde ad una precisa finalita’ di violazione delle norme tributarie nazionali (nella prospettiva della generazione del credito di IVA, invece non spettante, verso lo Stato), e’ altrettanto logico ritenere che il perpetuarsi della operazione in frode all’Erario esponga (nel prevedibile caso di accertamento dei reati, nella specie concretizzatosi) le societa’ protagoniste, a un dissesto di proporzioni tanto piu’ rilevanti quanto piu’ elevato siano il fatturato interessato dalle frodi e la percentuale di incidenza dello stesso sull’intero movimento di affari della societa’ (cosi’ Sez. 5, n. 41055 del 04/07/2014, Crosta, in motivazione).
1.6. Manifestamente infondate devono poi ritenersi le censure della difesa del (OMISSIS) in ordine alla configurabilita’ nel caso in esame di una condotta di carattere distrattivo, relativamente ad un “ramo commerciale” della societa’, sussumibile al piu’ nella previsione di cui all’articolo 216, comma 1 e non in quella contestata di cui alla L. Fall., articolo 223, comma 2, n. 2.
Come si e’ visto le condotte poste in essere non si sono affatto limitate ad una cessione di un ramo commerciale, ma si sono sostanziate in un piu’ complesso meccanismo finalizzato ad aggravare fraudolentemente il dissesto della societa’ (OMISSIS), mediante assunzione di obbligazioni e correlate attivita’ di commercializzazione tramite altre societa’ di capitali comunque riconducibili al (OMISSIS).
In proposito vanno richiamati i principi costantemente affermati da questa Corte, per i quali fra il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e quello di bancarotta impropria per causazione del dissesto con operazioni dolose, ove contestati in relazione alla medesima procedura fallimentare, non e’ configurabile il concorso formale, rimanendo pertanto il secondo reato assorbito nel primo nel caso in cui la relativa condotta sia individuata nell’imputazione con riguardo agli stessi fatti addebitati nell’accusa di bancarotta fraudolenta (Sez. 5, n. 44103 del 27/06/2016, Ferlaino, Rv. 268207). Si e’ per questo precisato che le operazioni dolose, in quanto causa del dissesto, per acquisire autonoma rilevanza penale ai fini della configurabilita’ del reato di cui alla L. Fall., articolo 223, comma 2, n. 2, devono consistere in fatti diversi da quelli contestati nell’imputazione di bancarotta fraudolenta, in termini tali da integrare un concorso materiale con questi ultimi (Sez. 5, n. 533 del 14/10/2016, Zaccaria, Rv. 269019; conforme: Sez. 5, n. 24051 del 15/05/2014, Lorenzini e altro, Rv. 260142).
Nel caso in esame non e’ stata contestata la bancarotta per distrazione in relazione agli stessi fatti correttamente sussunti nella fattispecie di cui alla L. Fall., articolo 223, comma 2, n. 2, perche’ relativi a plurime operazioni di maggiore complessita’ strutturale rispetto a condotte di bancarotta patrimoniale, che si sono sostanziate in illecite iniziative societarie implicanti un procedimento o, comunque, una pluralita’ di atti coordinati all’esito divisato (si vedano in materia la gia’ citata Sez. 5, n. 24051 del 15/05/2014, Lorenzini, Rv. 260142; Sez. 5, n. 34559 del 19/05/2010, Biole’, Rv. 248167).
1.7. Ne’ hanno maggior pregio le censure con le quali il ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale non avrebbe approfondito il tema del nesso di causalita’ tra le operazioni dolose e l’aggravamento del dissesto della societa’ fallita.
Va detto in primo luogo che sul tema non risultano proposte dal difensore dell’imputato specifiche doglianze nell’atto di appello.
Invero, cosi’ come anche desumibile dall’incontestata sintetica esposizione dei motivi di appello nella sentenza qui in esame, l’imputato si e’ limitato (oltre che a chiedere la acquisizione della documentazione allegata all’atto di appello) a dolersi della infondatezza dell’accusa di aver ceduto senza corrispettivo alla (OMISSIS) s.r.l. il ramo d’azienda relativo alla commercializzazione dei pannelli in polistirene estruso, la cui produzione era gia’ stata trasferita alla (OMISSIS) S.r.l. con il contratto di cessione di ramo d’azienda del 2 aprile 2012. Ha quindi sostenuto la difesa che l’affitto del ramo d’azienda alla (OMISSIS) S.r.l. aveva ad oggetto non solo la produzione dei pannelli ma anche la loro commercializzazione, circostanza che emergerebbe con assoluta chiarezza dal contratto di affitto di ramo di azienda del 2 aprile 2012 e, soprattutto dalla integrazione all’articolo 7 del contratto, stipulata il giorno (OMISSIS), nella quale viene data miglior specificazione al “patto di non concorrenza” tra le due societa’, e di cui ai documenti 1 e 2 allegati all’atto d’appello.
Quanto all’altra condotta contestata (acquisto in proprio del materiale destinato alla successiva commercializzazione da parte della (OMISSIS) s.r.l., cui veniva rivenduto con un sovrapprezzo del tutto simbolico per un ammontare complessivo di Euro 800.000 e senza alcuna garanzia di solvibilita’), la difesa aveva osservato che le fatture allegate all’atto d’appello, che concernono la vendita del medesimo prodotto ad altri acquirenti, dimostrerebbero che il materiale era stato venduto alla (OMISSIS) s.r.l. con un sovrapprezzo identico a quello praticato per altre societa’.
Le ulteriori censure avevano riguardato la esigibilita’ dei crediti vantati dalla fallita nei confronti della (OMISSIS) s.r.l., mentre nessuna doglianza era stata svolta sulla insussistenza del nesso di causalita’.
Legittimamente, dunque, la Corte territoriale non si e’ occupata della questione, limitandosi a dare atto della puntuale ricostruzione della vicenda come desumibile dall’articolata motivazione della sentenza di primo grado.
In effetti, la lettura di tale motivazione consente di chiarire la piena sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato di causazione del fallimento mediante operazioni dolose.
Il G.U.P. ha infatti evidenziato che, nel momento in cui la societa’ era stata colpita dalla crisi di mercato (nell’anno 2012), il (OMISSIS) aveva deciso di affrontare tale crisi senza prestare attenzione agli interessi dei creditori.
Lo stesso imputato aveva dichiarato di aver cercato di salvare la sua azienda, di sistemare i suoi dipendenti anche facendoli assumere da altre societa’, ma di essersi arreso quando non aveva piu’ ottenuto finanziamenti da parte delle banche.
La gestione della societa’ appariva “opaca” anche con riferimento a condotte che non erano state poi cristallizzate in ipotesi d’accusa, tenuto conto che alla fine dell’anno 2012 risalivano le prime richieste di fallimento e che i bilanci degli ultimi tre esercizi della societa’ presentavano perdite rilevanti e crescenti.
In questo contesto problematico, il curatore aveva valorizzato l’operazione posta in essere da (OMISSIS) in relazione al ramo “commercializzazione” dell’azienda, che veniva conferito, in fatto, senza nessun rapporto giuridico formale e, quindi, senza corrispettivo alla (OMISSIS) s.r.l., societa’ costituita nell’ (OMISSIS), quando gia’ erano state presentate istanze di fallimento della (OMISSIS) s.r.l..
La nuova societa’ vedeva come punto di riferimento per gli acquisti il (OMISSIS) e la partecipazione di alcuni dipendenti di (OMISSIS) s.r.l. (tre soci su cinque); inoltre operava nella stessa sede sociale, con lo stesso personale e si rivolgeva alla stessa clientela.
Nella sentenza di primo grado allora sono state tratte le seguenti conclusioni: “appare quindi con evidenza la scelta di aggravare il dissesto della (OMISSIS), creando una societa’ “fotocopia” che di fatto la sostituisce, che gestisce gli utili. Ed infatti la (OMISSIS), mentre era gia’ in fase di dissesto economico, continuava ad acquistare le materie prime dalle societa’ (OMISSIS) e (OMISSIS), per oltre 800.000,00 mila Euro, non le pagava, le assemblava e cedeva tutto con un leggero sovraprezzo (che dalla contabilita’ non risulta neanche essere stato versato) alla (OMISSIS) s.r.l.. La societa’ fallita non ha quindi onorato il debito (credito) vantato dalla (OMISSIS) e (OMISSIS) per la fornitura ricevuta (l’ultima fattura onorata risale infatti all’agosto 2012) e tutto il prodotto creato e’ stato di fatto commercializzato dalla (OMISSIS) s.r.l., societa’ apparente se si considera la tempistica della sua costituzione, la stessa sede sociale, la stessa clientela e la compagine associativa formata da dipendenti della (OMISSIS) s.r.l.. E’ quindi evidente che l’acquisto effettuato dalla fallita pari a circa 800,000,00 mila Euro di materiali non pagati e trasferiti di fatto alla (OMISSIS) ha aggravato significativamente il dissesto in cui versava la (OMISSIS) che e’ subito dopo fallita, con cio’ concretizzando i requisiti chiesti dal Regio Decreto n. 267 del 1942, articolo 223, comma 2, n. 2″.
E’ del tutto evidente come nel caso in esame i giudici di merito abbiano correttamente ritenuto sussistente il nesso di causalita’ richiesto dalla fattispecie di reato contestata.
Peraltro rimane del tutto irrilevante che a causare il dissesto siano state anche altre circostanze, quali la crisi del settore nel quale operava la societa’ fallita, giacche’ va ribadito che, ai fini della configurabilita’ del reato di bancarotta impropria prevista dal Regio Decreto 16 maggio 1942, n. 267, articolo 223, comma 2, n. 2, non interrompono il nesso di causalita’ tra l’operazione dolosa e l’evento, costituito dal fallimento della societa’, ne’ la preesistenza alla condotta di una causa in se’ efficiente del dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all’articolo 41 c.p., ne’ il fatto che l’operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto gia’ in atto, poiche’ la nozione di fallimento, collegata al fatto storico della sentenza che lo dichiara, e’ ben distinta da quella di dissesto, la quale ha natura economica ed implica un fenomeno in se’ reversibile (Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Concu e altro, Rv. 26218901; Sez. 5, n. 8413 del 16/10/2013, Besurga, Rv. 25905101; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a. e altri, Rv. 24731601).
1.8. Quanto all’elemento soggettivo del reato gia’ nella sentenza di primo grado era stata valorizzata la complessiva fraudolenta gestione delle plurime societa’ ricollegabili a (OMISSIS).
L’imputato peraltro si era manifestato come profondo conoscitore dei meccanismi economici che consentono di salvaguardare il proprio patrimonio, poiche’ aveva costituito nel 2011 un fondo patrimoniale (di cui si dava atto in sede di denuncia-querela presentata dalle societa’ (OMISSIS) e (OMISSIS)) per porre al riparo anche i suoi beni personali; fondo in cui (OMISSIS) e la moglie avevano fatto confluire diversi beni immobili, sia di proprieta’ esclusiva, sia di proprieta’ comune, per far fronte ai bisogni della famiglia.
Con specifico riferimento ai fatti di cui al capo B) delle imputazioni si e’ gia’ visto come le operazioni poste in essere dal (OMISSIS) fossero tutte finalizzate a tradire le pretese creditorie della societa’ poi fallita.
Giova allora ribadire che il reato in esame si sostanzia in un’eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, sicche’ l’onere probatorio dell’accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volonta’ della natura “dolosa” dell’operazione alla quale segue il dissesto, nonche’ dell’astratta prevedibilita’ di tale evento quale effetto dell’azione antidoverosa, non essendo necessarie, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo, la rappresentazione e la volonta’ dell’evento fallimentare (Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a. e altri, Rv. 24731501; si vedano anche Sez. 5, n. 38728 del 03/04/2014, Rampino, Rv. 26220701; Sez. 5, n. 2905 del 16/12/1998, Carrino G ed altri, Rv. 21261301).
Manifestamente infondato e’ il secondo motivo di ricorso, con il quale si deduce violazione di legge con riferimento all’affermazione di responsabilita’ per il delitto di insolvenza fraudolenta.
2.1. Ancora una volta tutte le doglianze difensive si traducono in censure di merito, inammissibili in questa sede.
Rispondendo ai motivi di appello, la Corte territoriale ha evidenziato che “la linea difensiva, con riferimento a detto reato, si limita a prospettare la piena consapevolezza da parte dei fornitori del grave stato in cui versava la societa’ dell’imputato. La documentazione allegata a supporto delle parti civili smentisce detta prospettazione, tenuto altresi’ conto del fatto che appare evidente che mai queste si sarebbero esposte in maniera cosi’ consistente qualora avessero solo sospettato che i pagamenti delle forniture sarebbero rimasti inevasi: e’ del tutto certo che l’imputato mai rappresento’ alle parti civili la stipulazione del contratto di affitto di azienda alla (OMISSIS) (la circostanza e’ esplicitamente ammessa dallo stesso imputato che assume che detta cessione avrebbe potuto essere conosciuta, dai suoi danti causa, solo che si fossero rivolti alla Camera di Commercio chiedendo una visura della societa’); certamente (OMISSIS) neppure rappresento’ la perdita (gia’ esistente a fine 2011 di quasi un milione di euro) e il successivo deposito di due istanze di fallimento nell’ottobre 2012.
Di fatto l’ordinativo di quantitativi consistenti di merce, in presenza di condizioni economiche e patrimoniali decisamente mutate rispetto a quelle precedentemente esistenti, taciute ai propri fornitori (cui pure non erano comunicati i diversi regimi giuridici intervenuti (trasformazione della S.p.A. in S.r.l.) sono tutti elementi espressivi della volonta’ dell’imputato di ottenere le forniture pur nella consapevolezza di non potere/volere in alcun modo far fronte ai pagamenti.
Tale consapevolezza e’ resa manifesta, infine, da una serie di elementi non contestati dalla difesa: la costituzione di un fondo, in cui l’imputato ha fatto confluire i beni immobili familiari, fondo non aggredibile dai creditori della societa’; la rivendita dei materiali acquistati a societa’ terza – (OMISSIS) S.r.l. -; la ferma opposizione a restituire i pannelli presenti nello stabilimento alla (OMISSIS) perche’, asseritamente, “gia’ venduti a societa’ terza”; il deposito di una istanza di concordato preventivo in bianco una volta appreso che l’assegno postdatato in possesso della parte civile (OMISSIS) sarebbe stato presto posto all’incasso in banca” (pagg. 26 – 27 della sentenza).
2.2. Va qui ribadito che, ai fini della configurabilita’ del reato di insolvenza, puo’ assumere rilievo anche il silenzio dell’agente, quale forma di dissimulazione del proprio stato di insolvenza, nel caso in cui tale condizione non sia stata manifestata all’altra parte contraente al momento della stipula del contratto, con il preordinato proposito di non adempiere alla prestazione scaturente dal rapporto contrattuale (nella specie e’ stata ritenuta immune da censure la condanna per insolvenza fraudolenta degli amministratori di una societa’ che avevano concluso un contratto con una societa’ di trasporti tacendo il conclamato stato di insolvenza in cui versava la societa’ amministrata, assumendo l’obbligo del pagamento delle prestazioni con scadenza nello stesso giorno della presentazione della domanda di concordato) (Sez. 2, n. 8893 del 03/02/2017, Ferri e altro, Rv. 269682; Sez. 2, n. 39890 del 22/05/2009, Cuccinotto, Rv. 24523701; Sez. 2, n. 34192 del 11/07/2006, Leopaldi, Rv. 23477401; Sez. 2, n. 29454 del 05/06/2003, Candido, Rv. 22674701).
D’altronde, la prova del proposito di non adempiere la dovuta prestazione puo’ essere desunta anche da argomenti induttivi seri ed univoci, ricavabili dal contesto dell’azione e da comportamenti anche successivi alla assunzione della obbligazione (Sez. 2, n. 6847 del 21/01/2015, Spalanzino, Rv. 26257001; Sez. 2, n. 39887 del 16/06/2015, Straputicari e altri, Rv. 26451401; Sez. 2, n. 39890 del 22/05/2009, Cuccinotto, Rv. 245237; Sez. 2, n. 14990 del 11/07/1977, Borgia, Rv. 13735601).
Infondato e’ l’ultimo motivo con il quale si lamenta violazione di legge in ordine al mancato ritenuto assorbimento del reato di insolvenza fraudolenta in quello di bancarotta impropria.
Il ricorrente, pur riconoscendo che in astratto tali delitti possano concorrere, sostiene che nel caso in esame cio’ sia precluso dalla circostanza che la condotta rilevante ai sensi dell’articolo 641 c.p. “sia parte integrante del reato di bancarotta”.
3.1. Questa Corte ha gia’ avuto modo di chiarire che i reati di appropriazione indebita e bancarotta patrimoniale, pur essendo fattispecie tra loro strutturalmente diverse, contemplano elementi costitutivi che danno luogo ad un reato complesso ex articolo 84 c.p., sicche’ gli stessi fatti riconducibili nel reato di appropriazione indebita possono essere contestati, dopo la declaratoria di fallimento, come bancarotta (Sez. 5, n. 2295 del 03/07/2015, P.C. in proc. Marafioti e altri, Rv. 26601901; Sez. 5, n. 48743 del 29/10/2014, Flecchia, Rv. 261301; Sez. 5, n. 37298 del 09/07/2010, Lombardo e altro, Rv. 248640).
Peraltro anche la decisione irrevocabile di estinzione per prescrizione del delitto d’appropriazione indebita imputato all’amministratore di una societa’ non preclude, dopo l’intervento della dichiarazione di fallimento della societa’, l’esercizio dell’azione penale nei confronti dello stesso per il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione dei medesimi beni. Si e’ precisato, infatti, che le due fattispecie sono strutturalmente diverse, integrando, se consumate contestualmente, un reato complesso con assorbimento del delitto d’appropriazione indebita in quello di bancarotta fraudolenta e, se realizzate in tempi diversi, un reato progressivo, con conseguente applicazione dell’articolo 170 c.p. (Sez. 5, n. 4404 del 18/11/2008, Ricci e altri, Rv. 241887; Sez. 5, n. 37567 del 04/04/2003, Sivieri, Rv. 228297). Si e’ pure affermato, tuttavia, che il delitto di bancarotta fraudolenta puo’ concorrere con quello di truffa e con quello di appropriazione indebita, sia perche’ l’obiettivita’ giuridica delle distinte ipotesi delittuose e’ diversa, sia perche’ l’iter criminis della seconda si esaurisce con l’acquisizione di beni mediante mezzi fraudolenti, mentre il fatto dell’imprenditore truffaldino, che sottragga successivamente alla garanzia patrimoniale le entita’ economiche illecitamente acquisite al suo patrimonio, costituisce un’azione distinta ed autonoma, punita a titolo di bancarotta fraudolenta, se viene dichiarato il fallimento (Sez. 5, n. 39610 del 21/09/2010, Meschieri e altro, Rv. 24865201; Sez. 5, n. 42635 del 04/10/2004, Collodo ed altri, Rv. 22990701; Sez. 6, n. 6791 del 10/04/2000, Salerno ed altri, Rv. 21671201; Sez. 5, n. 8805 del 17/05/1985, Drogo, Rv. 17064201; Sez. 5, n. 11711 del 08/10/1997, Romano, 20927001).
3.2. Nel caso in esame non puo’ operare l’assorbimento invocato dal ricorrente. Invero i fatti contestati nel capo C) delle imputazioni, sussunti nella fattispecie di cui all’articolo 641 c.p., non sono gli stessi oggetto della imputazione di bancarotta di cui al capo B).
E’ sufficiente confrontare le due imputazioni per verificare che il nucleo centrale delle condotte del delitto di insolvenza fraudolenta e’ costituito dall’acquisto di materiale dalle due societa’ fornitrici con il proposito di non pagare, mentre quello del delitto di bancarotta impropria e’ costituito da una serie di operazioni fraudolente, sostanziatesi in un complesso meccanismo (cosi’ come meglio descritto sopra nel paragrafo sub n. 1), nell’ambito del quale l’assunzione di obbligazioni non adempiute si colloca solo come antefatto.
Non puo’ sostenersi quindi che vi sia “identita’” delle condotte, tanto da consentire l’assorbimento del delitto d’appropriazione indebita in quello di bancarotta fraudolenta, potendo essi concorrere ed essere avvinti dal vincolo della continuazione ex articolo 81 c.p., cosi’ come correttamente ritenuto dai giudici di merito.
E in proposito e’ doveroso richiamare i principi affermati dalla giurisprudenza maggioritaria di questa Corte, secondo i quali l’identita’ del fatto sussiste solo quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, P.G. in proc. Donati ed altro, Rv. 23179901).
In applicazione di tali principi questa Sezione ha ribadito, in un caso di “bis in idem” tra processi aventi ad oggetto il reato di truffa aggravata e di bancarotta fraudolenta, che l’identita’ del fatto deve essere valutata in relazione al concreto oggetto delle imputazioni, senza confrontare gli elementi delle fattispecie astratte di reato (Sez. 5, n. 47683 del 04/10/2016, Robusti e altro, Rv. 26850201).
Tali principi sono in linea con l’orientamento espresso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (si veda in particolare la sentenza Grande Stevens c. Italia del 4 marzo 2014), secondo la quale il principio del “ne bis in idem” impone una valutazione ancorata ai fatti e non alla qualificazione giuridica degli stessi, dal momento che quest’ultima e’ da ritenersi troppo restrittiva in vista della tutela dei diritti della persona.
Si e’ affermato, quindi, che la nozione di “condotta” si traduce nell’insieme delle circostanze fattuali concrete, collocate nel tempo e nello spazio, la cui esistenza deve essere dimostrata ai fini della condanna.
Negli stessi termini si era gia’ espressa la sentenza della Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotoukhine contro Russia, che, intervenendo per risolvere un articolato conflitto manifestatosi tra le sezioni della Corte EDU sulla portata dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, aveva affermato che la medesimezza del fatto si apprezza alla luce delle circostanze fattuali concrete, indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio.
Tali principi non sono stati messi in discussione dalla piu’ recente sentenza 15 novembre 2016, A e B contro Norvegia, con la quale la Grande Camera della Corte di Strasburgo ha impresso un nuovo sviluppo alla materia del divieto “convenzionale” di bis in idem alle ipotesi di duplicazione dei procedimenti sanzionatori per il medesimo fatto (si veda in proposito la motivazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 43 del 24 gennaio 2018).
Non e’ fuor di luogo, peraltro, ricordare che, con la sentenza n. 200 del 21 luglio 2016, la Corte costituzionale, nel dichiarare illegittimo l’articolo 649 c.p.p. (per violazione dell’articolo 117 Cost., comma 1, in relazione all’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU) nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato gia’ giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui e’ iniziato il nuovo procedimento penale, ha recepito sul piano interpretativo i principi affermati dalla Corte Europea sul criterio dell’idem factum e non dell’idem legale onde valutare la medesimezza del fatto storico oggetto di nuovo giudizio.
Si e’, infatti, affermato, che – se e’ vero che appare ormai pacifico che la Convenzione recepisce, nell’interpretare il principio del ne bis in idem (che vieta di perseguire o giudicare per un secondo illecito una persona gia’ condannata o sanzionata per gli stessi fatti), il piu’ favorevole criterio dell’idem factum anziche’ la piu’ restrittiva nozione di idem legale – il “fatto storico-naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento, perche’ l’approccio epistemologico fallisce nel descriverne un contorno identitario dal contenuto necessario. Fatto, in questa prospettiva, e’ l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione e’ condotta secondo criteri normativi.
Non vi e’, in altri termini, alcuna ragione logica per concludere che il fatto, pur assunto nella sola dimensione empirica, si restringa all’azione o all’omissione, e non comprenda, invece, anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto, se non anche, al limite estremo della nozione, l’evento naturalistico che ne e’ conseguito, ovvero la modificazione della realta’ indotta dal comportamento dell’agente. E’ chiaro che la scelta tra le possibili soluzioni qui riassunte e’ di carattere normativo, perche’ ognuna di esse e’ compatibile con la concezione dell’idem factum. Questo non significa che le implicazioni giuridiche delle fattispecie poste a raffronto comportino il riemergere dell’idem legale. Esse, infatti, non possono avere alcun rilievo ai fini della decisione sulla medesimezza del fatto storico. Ad avere carattere giuridico e’ la sola indicazione dei segmenti dell’accadimento naturalistico che l’interprete e’ tenuto a prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto”.
Nella sentenza della Corte Costituzionale, peraltro, si prende atto che “l’identita’ del “fatto” sussiste – secondo la giurisprudenza di legittimita’ (Cass. Sez. un. 28 giugno 2005, n. 34655) quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona” (sentenza n. 129 del 2008). E’ in questi termini, e soltanto in questi, in quanto segnati da una pronuncia delle sezioni unite, che l’articolo 649 c.p.p. vive nell’ordinamento nazionale con il significato che va posto alla base dell’odierno incidente di legittimita’ costituzionale. E si tratta di un’affermazione netta e univoca a favore dell’idem factum, sebbene il fatto sia poi scomposto nella triade di condotta, nesso di causalita’, ed evento naturalistico”.
La stessa Corte ha dato pure atto che persiste nella stessa giurisprudenza di legittimita’ un orientamento minoritario, diverso da quello adottato dalle sezioni unite fin dal 2005, secondo il quale va tenuta in conto non solo la dimensione storico-naturalistica del fatto ma anche quella giuridica; ovvero che vanno considerate le implicazioni penalistiche dell’accadimento (Sez. 2, n. 19712 del 06/02/2015, Alota e altri, Rv. 26354301; Sez. 2, n. 18376 del 21/03/2013, P.G. in proc. Cuffaro, Rv. 25583701; Sez. 5, n. 16703 del 11/12/2008, Palanza e altri, Rv. 24333001).
Precisa quindi la sentenza in esame che queste e “altre simili formule celano un criterio di giudizio legato all’idem legale, che non e’ compatibile, ne’ con la Costituzione, ne’ con la CEDU, sicche’ e’ necessario che esso sia definitivamente abbandonato”, ulteriormente ribadendo che “il diritto vivente, con una lettura conforme all’attuale stadio di sviluppo dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, impone di valutare, con un approccio storico-naturalistico, la identita’ della condotta e dell’evento, secondo le modalita’ con cui esso si e’ concretamente prodotto a causa della prima”.
3.3. Inammissibile per carenza di interesse deve ritenersi l’ultima doglianza del ricorrente, secondo la quale la contestazione autonoma del reato di insolvenza fraudolenta determinerebbe in capo alle relative parti civili un posizione privilegiata rispetto a tutti gli altri creditori insinuati al passivo del fallimento.
Ne’ puo’ rilevare in questa sede quanto assunto circa il fatto che non sarebbe consentito al ricorrente di beneficiare della causa di estinzione del reato, prevista dall’articolo 641, comma 2, conseguente all’adempimento dell’obbligazione prima della condanna senza incorrere in responsabilita’ per bancarotta preferenziale.
Tale affermazione presuppone l’evidente erronea confusione tra il patrimonio della societa’ fallita (sottoposto alla procedura fallimentare) e quello personale dell’imputato.
Infatti, quest’ultimo, onde usufruire della suindicata causa di estinzione, avrebbe potuto adempiere alle obbligazioni assunte con le societa’ persone offese del delitto di cui all’articolo 641 c.p. attingendo al suo patrimonio personale senza incorrere in responsabilita’ legate alla sua carica di amministratore unico della fallita (OMISSIS) s.r.l..
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche’ alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, liquidate nella misura qui di seguito indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonche’ alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili che liquida per ciascuna di esse in complessivi Euro 2500,00, oltre accessori di legge.