In tema di affitto d’azienda, l’art. 2558 cod. civ. considera come effetto naturale dell’affitto, salvo patto contrario, il subingresso dell’affittuario nei contratti inerenti all’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale, e tale effetto esclude (con conseguente mancata liberazione del locatore d’azienda e contraente originario) solo in presenza di una specifica manifestazione di opposizione dell’altro contraente. Ne consegue che, in presenza dei detti presupposti (inerenza del contratto all’azienda; carattere non personale dello stesso), affinché si realizzi la successione dell’affittuario nel contratto, non è necessario dimostrare il consenso del terzo contraente.
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Contratto di Affitto di azienda
Corte di Cassazione, Sezione 1 civile Sentenza 16 giugno 2004, n. 11318
Integrale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Giovanni Olla – Presidente
Dott. Donato Plenteda – Consigliere
Dott. Giuseppe Vito Antonio Magno – Consigliere
Dott. Renato Rordorf – Consigliere Relatore
Dott. Gianfranco Gilardi – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Ia. di Ma. Le. Mo. & C. S.a.s., elettivamente domiciliata in Ro. via Gi. da Ca. 6, presso l’avvocato Ri. Sz., che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Da. Ga., giusta procura a margine del ricorso;
ricorrente
contro
Ti. Ca., elettivamente domiciliato in Ro. via Si. 3, presso l’avvocato Do. Ma., che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Al. Pi., giusta procura in calce al controricorso;
controricorrente
contro
Pi. del Po. di Mo. Ci. & C. S.a.s., Ca. S.a.s.;
intimati
avverso la sentenza n. 1678/00 della Corte d’Appello di Venezia, depositata il 05/10/00;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/02/2004 dal Consigliere Dott. Renato Rordorf;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Rosario Russo che ha concluso per il rigetto del primo motivo del ricorso, accoglimento del secondo motivo e inammissibilità del terzo motivo del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La società Ia. S.a.s. di Ma. Le. Mo. & C. (che in prosieguo, per brevità, sarà indicata solo come Ia.), chiese ad ottenne dal presidente del Tribunale di Venezia l’emissione di un decreto ingiuntivo col quale fu ordinato alla Pi. del Po. S.a.s. di Me. Ci. & C. (in prosieguo menzionata solo come Pi. del Po.) di pagare alla ricorrente la somma di £ 6.479.897, a titolo di corrispettivo per una fornitura di caffè eseguita il 3 settembre 1990 in base ad un precedente contratto stipulato tra dette parti il 1 settembre 1989.
L’ingiunta propose opposizione, assumendo di avere e suo tempo rifiutato la contestata fornitura di caffè, giacché questa avrebbe invece dovuto essere eseguita in favore della società Ca. S.a.s. di Ti. Ca. & C., subentrata nella gestione dell’azienda di essa opponente in data anteriore al 3 settembre 1990.
La Ia. si costituì in giudizio per resistere all’opposizione e fece presente, tra l’altro, che la summenzionata azienda era stata in seguito restituita alla Pi. del Po.. Chiamò comunque in causa la società Ca. S.a.s. nei cui confronti propose, in via subordinata, una domanda volta a far accertare il subingresso di detta società nel contratto originariamente stipulato con la Pi. del Po. e la risoluzione del contratto medesimo per inadempimento della terza chiamata, con condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni.
La società Ca. non si costituì, ma intervenne volontariamente il sig. Ti. Ca., il quale riferì che l’anzidetta società era da tempo cessata. Rifiutò peraltro di accettare in proprio il contraddittorio sulle domande dedotte in causa dalle altre parti.
Il Tribunale di Venezia, con sentenza depositata il 27 febbraio 1996, dichiarò inammissibile l’intervento del sig. Ti. Ca., accolse nel merito l’opposizione proposta dalla Pi. del Po. e pertanto revoca il decreto ingiuntivo, compensando per intero tra le parti le spese del giudizio.
Tale pronuncia, a seguito del gravame proposto dalla Ia., è stata confermata dalla Corte d’Appello di Venezia, con scadenza emessa il 5 ottobre 2000, e l’appellante è stata condannata a rifondere le spese del giudizio di secondo grado sostenute dall’appellata Pi. del Po., mentre quelle del sig. Ti. Ca. sono state ulteriormente compensate.
Nel motivare la propria decisione la Corte ha osservato: a) che nel contratto di fornitura di caffè originariamente stimolato tra la Ia. e la Pi. del Po. era stata espressamente prevista l’eventualità che quest’ultima potesse, in seguito, cedere o dare in affitto ad altri la propria azienda e le parti avevano in proposito richiamato la disposizione dall’art. 2558 c. c. (in forra della quale l’acquirente o l’affittuario subentra nei contratti inerenti all’azienda), salvo la facoltà per la Ia. di non accettare la cessione del contratto, e quindi di non liberare il cedente, o di recedere; b) che, tuttavia, di tale facoltà la medesima Ia. non risultava essersi avvalsa, avendo anzi dimostrato nei fatti la volontà di proseguire il rapporto contrattuale con l’affittuaria dell’azienda, la società Ca. S.a.s., a beneficio della quale aveva eseguito numerose altre forniture; c) che, d’altro canto, il successivo rientro della Pi. del Po. nella gestione diretta dell’azienda non implicava una sua assunzione di responsabilità per lo obbligazioni sorte nel periodo dell’affittanza, non essendo dimostrato che i relativi debiti risultassero dai libri contabili obbligatori, come richiesto dall’art. 2560 c. c. ; d) che il sig. Ti. Ca. non aveva alcun diritto alla rifusione delle spese processuali, essendo intervenuto in causa senza avere in realtà alcun interesse giuridico da difendere.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Ia., prospettando tre motivi di censura illustrati con successiva memoria.
Con ordinanza comunicata il 7 ottobre 2003, questa Corte ha disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti della società Ca. S.a.s. e del sig. Ti. Ca. personalmente.
Solo quest’ultimo ha depositato controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo d’impugnazione la ricorrente lamenta difetti di motivazione dell’impugnata sentenza ed errori di diritto nell’applicazione degli artt. 2697 e 2727 c. c. .
La censura investe quel punto della decisione in cui la Corte d’Appello, per negare che la discussa fornitura di caffè fosse riferibile alla società Pi. del Po., contro la quale il decreto ingiuntivo era stato spiccato, ha affermato che la creditrice Ia. aveva prestato il proprio consenso alla cessione in affitto dell’azienda operata dalla medesima Pi. del Po. in favore della Ca. S.a.s., la quale soltanto poteva perciò dirsi tenuta al pagamento di detta fornitura.
La ricorrente obietta che non vi erano elementi da cui dedurre presuntivamente l’esistenza del suo consenso alla successione dell’affittuaria nel contratto originariamente stipulato con la Pi. del Po., giacché le poche forniture da essa direttamente eseguite a beneficio della Ca. S.a.s. non costituivano, da sole, un fatto così univoco da giustificare la conclusione che nel consenso vi fosse stato, ed ulteriori risultanze processuali anzi lo smentivano.
2.1. La prospettata doglianza non coglie però nel segno.
Essa trascura il fondamentale presupposto di cui muove la decisione adottata sul punto dalla Corte d’Appello: cioè il fatto che sia l’ art. 2558 c. c., sia una specifica clausola del contratto di cui si discute, considerano come naturale il subingresso dell’affittuario nei contratti inerenti all’esercizio dell’azienda; e tale effetto escludono, con conseguente mancata liberazione del locatore d’azienda e contraente originario, solo in presenza di una specifica manifestazione di opposizione dell’altro contraente. Non si trattava, dunque, di provare per mezzo di presunzioni (o altrimenti) che vi fosse stato il consenso della odierna ricorrente Ia. alla successione nel contratto, pacificamente non di carattere personale ed inerente all’esercizio dell’azienda, giacché questa successione era un effetto naturale della concessione dell’azienda in affitto ad un terzo (cfr., in argomento, nell’analoga tematica del trasferimento dell’azienda, Cass. 7 marzo 2001. n. 3312; Cass. 29 aprile 1999, n. 4301; e Cass. 19 giugno 1996, n. 5636).
Avrebbe semmai dovuto essere la stessa Ia., dunque, a provare di aver tempestivamente esercitato la facoltà di opporsi a quell’effetto, una volta venuta a conoscenza dell’affitto dell’azienda. Ma di ciò – come si evince dall’impugnata sentenza – nessuna prova è stata invece offerta, onde la Corte territoriale ha accettato che “l’appellante non si avvalse della facoltà suindicata per impedire la successione nel contratto di fornitura o per recedere dal medesimo”.
Tale accertamento è palesemente di per sé solo idoneo a fondare il punto in esame della decisione impugnata; né esso è oggetto di idonea censura ad opera della ricorrente, la quale si limita a richiamare documenti il cui esame però travalica i limiti del giudizio di legittimità e di cui non è in alcun modo dimostrata la decisività.
Pertanto, la successiva affermazione della Corte d’Appello, secondo cui la Ia. avrebbe, anzi, dimostrato la propria accettazione senza riserve al subingresso dell’affittuaria nel contratto, eseguendo direttamente in favore della medesima numerose forniture, ha il valore di una mera argomentazione di rincalzo, come tale priva di autonomo valore decisivo. Le censure della ricorreste, che, come s’è detto, investono essenzialmente quest’ultima argomentazione (quasi la Corte di merito avesse fondato la propria decisione sull’accertamento di una positiva manifestazione di volontà negoziale di accettazione del nuovo contraente, e non, invece, sull’accertamento della mancata espressione di una volontà contraria) risultano perciò del tutto inidonee a scalfire questa parte del provvedimento impugnato.
2. Il secondo motivo di gravame, con cui si denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 2558 c. c., nonché l’omessa pronuncia su un punto decisivo, investe una fase successiva del rapporto.
La doglianza muove dal rilievo che l’azienda affittata dalla Pi. del Po. alla società Ca. è stata successivamente restituita alla locatrice. Di conseguenza, per effetto di quanto disposte il citato art. 2558, la ricorrente assume essersi determinata una nuova successione nel rapporto contrattuale controverso, questa volta dall’affittuaria alla locatrice. La quale, dunque, per ciò stesso, sarebbe tenuta a rispondere dell’adempimento delle obbligazioni derivanti dal vincolo contrattuale non esaurito, indipendentemente dalle condizioni poste dall’art. 2560 c. c., erroneamente posto dalla Corte d’Appello a fondamento della propria decisione.
2.1. La censura, nei termini di cui si dirà, appare fondata.
La Corte d’Appello ha motivato la propria decisione in proposito unicamente con il sintetico rilievo secondo cui il fatto che la Pi. del Po. fosse rientrata nella diretta disponibilità dell’azienda “non implica che essa risponde dei debiti nel frattempo contratti dall’affittuario, a meno che non ricorra la condizione (indimostrata nella fattispecie: il relativo onere grava sull’appellante) prevista dall’art. 2560, secondo comma, del c. c. che detti debiti risultino dai libri contabili obbligatori”.
Sennonché l’obbligazione di cui l’odierna ricorrente ha chiesto l’adempimento, a quanto dalla narrativa della medesima sentenza d’appello si desume, discende da un contratto sinallagmatico per l’approvvigionamento di caffè, che la Corte veneta definisce “di fornitura”, verosimilmente intendendo trattarsi di un contratto di somministrazione, ma in verità senza mai formulare una precisa qualificazione giuridica.
Ma, allora, il riferimento alla disciplina dettata dal citato art. 2560, in tema di debiti dell’azienda ceduta, non appare pertinente. Le sorte dei rapporti contrattuali pendenti all’atto del trasferimento dell’azienda (come pure all’atto della sua restituzione, dopo la cessazione convenzionale dell’affitto) sfugge infatti al dettato di quell’articolo, per ricadere semmai nella previsione un’altra disposizione, specificamente dettata allo scopo di disciplinare la sorte delle vicende aziendale: quella contenuta nel pure già citato art. 2558.
E’ infatti principio acquisito quello per cui il regime fissato dal citato art. 2560, con riferimento ai debiti dell’azienda ceduta, sia destinato a trovare applicazione quando si tratti di debiti in sé soli considerati, e non anche quando, viceversa, essi si ricolleghino a posizioni contrattuali non ancora definite, in cui il cessionario sia subentrato a norma del precedente art. 2558 (cfr. Cass. 20 luglio 1991, n. 8121; e Cass. 8 maggio 1981, n. 3027). Posizioni, queste, che seguono la sorte del contratto e, quindi, transitano con esso, purché non già del tutto esaurito, anche se in fase contenziosa al tempo della cessione dell’azienda (Cass. 11 agosto 1990, n. 8219).
Né può invero dubitarsi che una tal regola debba trovare applicazione anche nella fase della restituzione dell’azienda dall’affittuario al locatore, quando il relativo rapporto sia venuto a scadenza o sia stato convenzionalmente risolto. Lo si ricava, indirettamente, dalla stessa dizione adoperata nel terzo comma del menzionato art. 2558, che rende applicabili le disposizioni dei precedenti commi in tema di successione nei contratti anche all’affittuario (ed all’usufruttuario), ma solo “per la durata dell’affitto” (o dell’usufrutto), lasciando così intendere che, cessato l’affitto (o l’usufrutto), anche la situazione di detti contratti deve ritornare allo stato originario. Ma lo si desume soprattutto – come la dottrina ha puntualmente posto in luce – dal fatto che quella regola è espressione della naturale ed oggettiva inerenza al complesso aziendale di tutti i rapporti che attengono alla gestione dell’azienda e potenzialmente incidono sul suo avviamento: di modo che essa è destinata ad operare in tutti i casi nei quali la gestione dell’azienda passi di mano, e dunque pur quando si tratti della sua restituzione al locatore, dopo la cessione dell’affitto; con la sola condizione che anche la cessazione di tale rapporto d’affitto e la conseguente retrocessione dell’arida al proprietario si ricolleghino direttamente alla volontà contrattuale delle parti, o ad un fatto da queste espressamente previsto nel contratto precedentemente stipulato (per quest’ultimo rilievo, vedi Cass. 7 novembre 2003, n. 16734).
La Corte d’Appello si è infondatamente discostata da questi principi. La sua decisione deve perciò essere causata, per consentire al giudice di rinvio di accertare, posto che l’obbligazione di cui si discute pacificamente trae origine da un contratto a prestazioni corrispettive inerente all’esercizio dell’azienda, se tale contratto fosse ancora in essere o avesse invece del tutto esaurito i suoi effetti quando l’azienda medesima fu restituita alla Pi. del Po.; e se tale restituzione abbia avuto luogo su base contrattuale.
Il giudice di rinvio provvederà anche – nei rapporti tra le società Ia., Pi. del Po. e Ca. S.a.s. – in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
3. Il terzo motivo di ricorso, con cui la ricorrente si duole della compensazione delle spese processuali disposta dalla Corte d’Appello, nel definire il rapporto processuale tra la medesima Ia. ed il sig. Ti. Ca. in proprio, è inammissibile.
La valutazione dell’opportunità della compensazione totale o parziale delle spese processuali, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca sia in quella della ricorrenza di altri giusti motivi, rientra infatti nei poteri discrezionali del giudice di merito e non richiede specifica motivazione. Essa è perciò incensurabile in sede di legittimità, salvo che – ma non è questo il caso – risulti violato il principio secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, ovvero quando a fondamento della decisione del giudice di merito di compensare le spese siano addotte ragioni palesemente illogiche ed erronee (in tal caso, ex multis, cfr. Cass. 14 novembre 2002, n. 16012).
Tenuto conto dell’andamento complessivo della vicenda, si ravvisano giusti motivi per compensare tra le società Ia. ed il sig. Ti. Ca. (ormai estraneo al giudizio di rinvio) anche le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte:
1. rigetta il primo motivo di ricorso ed accoglie il secondo;
2. cassa l’impugnata sentenza, in relazione alla censura accolta, e rinvia la causa tra le sole società Ia. S.a.s. di Ma. Le. Mo. & C., Pi. del Po. S.a.s. di Me. Ci. & C., e Ca. S.a.s. di Ti. Ca. & C. ad altra sezione della Corte d’Appello di Venezia, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità concernente dette parti,
3. dichiara inammissibile il terzo motivo di ricorso;
4. compensa le spese del giudizio di legittimità per quanto attiene al rapporto processuale facente capo personalmente al sig. Ti. Ca..