Per ramo d’azienda, ai sensi dell’art. 2112 cod. civ. (così come modificato dalla legge 2 febbraio 2001, n. 18, in applicazione della direttiva CE n.98/50), come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica autonoma ed organizzata in maniera stabile, la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, senza che sia necessaria anche la completezza materiale e l’autosufficienza del gruppo.
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCRIARELLI Guglielmo – Presidente
Dott. MAIORANO Francesco Antonio – rel. Consigliere
Dott. VIDIRI Guido – Consigliere
Dott. DE MATTEIS Aldo – Consigliere
Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
GA. GI., (E ALTRI OMISSIS)
– ricorrenti –
contro
BA. CR. FI. S.P.A., (gia’ Ca. di. Ri. di. Fi. S.p.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA SALARIA 332, presso lo studio dell’avvocato DE MAJO GIUSEPPE, rappresentata e difesa dagli avvocati ICHINO PIETRO, GENNARELLI ROBERTO, BECHI VITTORIO, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 525/04 della Corte d’Appello di FIRENZE, depositata il 14/05/04 R.G.N. 2391/04;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 13/12/07 dal Consigliere Dott. Francesco Antonio MAIORANO;
udito l’Avvocato RUSCONI;
udito l’Avvocato BECHI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso alla Corte d’Appello di Firenze Ga. Gi. ed altri ex dipendenti della Ca. di. Ri. di. Fi. (oggi Ba. CR. Fi. Spa) proponevano appello avverso la sentenza del Tribunale di Firenze con la quale era stata rigettata l’opposizione avverso il licenziamento loro intimato a decorrere dal 31/12/2001, con passaggio diretto alle dipendenze della CE. Spa (costituita dalla stessa Cassa per la gestione del servizio riscossione tributi) sia per insussistenza della cessione di ramo d’azienda, ex articolo 2112 c.c., sia per violazione di un obbligo della Banca assunto con lettere di garanzia risalenti al 1972, 1974 e 1978.
La Banca contrastava il gravame e la Corte d’Appello lo rigettava sulla base delle seguenti considerazioni: era pacifico in causa che la Banca avesse costituito la Ce. Spa con capitale interamente proprio, assumendone il controllo, ed avesse scorporato la Divisione che gestiva in regime di concessione pubblica il servizio esattoriale, affidandolo alla nuova societa’ in esito alla procedura amministrativa stabilita dalla legge; all’uopo aveva utilizzato lo schema normativo di cui al D.Lgs 13 aprile 1999, n. 112, articolo 57 e aveva disposto poi, ai sensi dell’articolo 63 del suddetto decreto legislativo, il trasferimento del personale addetto al servizio esattoriale alla nuova societa’ appositamente costituita. La disciplina in questione prevedeva la possibilita’ del trasferimento dei “rapporti concessori e commissariali in atto … ad una societa’ facente parte dello stesso gruppo societario, a condizione che detenga .. la totalita’ del capitale”, con la garanzia della conservazione del posto a favore del personale che fosse iscritto da almeno due anni al fondo speciale; la norma pero’ non escludeva che la nuova societa’ potesse essere appositamente costituita per effettuare l’operazione di scorporo del servizio d’esattoria, purche’ fossero rispettate tutte le condizioni previste dalla legge, come era avvenuto nella specie. L’operazione quindi era pienamente legittima, sulla base della normativa speciale, che peraltro prevedeva una disciplina di tutela sostanziale dei lavoratori uguale a quella prevista dalla norma generale costituita dall’articolo 2112 c.c.. La valutazione della correttezza e legittimita’ dell’operazione autorizzata e descritta dalla legge non era rappresentata dalla norma codicistica, essendo disciplinata dalla norma speciale ( Decreto Legislativo n. 112 del 1999 articoli 57, 3 e 63) che autorizzava la creazione di una nuova societa’ e prevedeva il passaggio diretto di tutti i dipendenti addetti al settore esattoriale alla nuova impresa, con tutte le garanzie ivi previste ed il mantenimento del posto di lavoro presso il concessionario subentrante (Cass, n, 13258/00; 15295/01) in regime di stabilita’ e sicurezza. Si trattava di un passaggio indolore che garantiva al lavoratore stabilita’, pari livello retributivo e professionale senza rischi di peggioramento. Gli appellanti, pur essendo dipendenti di una azienda di credito, avevano un rapporto regolato dalla disciplina propria degli esattoriali, anche con riguardo al regime retributivo, per cui il passaggio ad altra societa’ del settore, con il mantenimento del livello retributivo e di anzianita’, non comportava alcun pregiudizio patrimoniale o di carriera, ne’ rischi di solvibilita’ perche’ la nuova azienda era posseduta e controllata dalla stessa Banca e vi era la consistenza numerica per garantire il regime di stabilita’ dei rapporti di lavoro. Erano quindi soddisfatte tutte le esigenze di garanzia per un passaggio senza pregiudizio, presente o futuro, ed il meccanismo di sostituzione della titolarita’ del rapporto previsto dalla legge speciale esauriva autonomamente le ragioni di tutela dei lavoratori, previste dalla norma generale in tema di trasferimento d’azienda e di un ramo di essa.
Pur non ritenendo applicabile al caso di specie l’ articolo 2112 c.c., la Corte d’Appello riteneva opportuno esaminare anche la questione sollevata dalle parti relativa all’applicabilita’ della normativa generale: secondo la giurisprudenza di legittimita’ (Cass. 10701/02; 10761/02; 15105/02) la nuova formulazione dell’articolo 2112 c.c. (nel testo previsto dal Decreto Legislativo n. 18 del 2001) realizzava una successione legale di contratto che non richiedendo il consenso del contraente ceduto non poteva essere assimilata alla cessione negoziale, per la quale quel consenso era un elemento costitutivo della fattispecie: la funzione socio-economica del trasferimento d’azienda era d’ostacolo all’applicabilita’ dell’articolo 1406 c.c., in quanto la necessita’ del consenso del contraente ceduto non era conciliabile con i processi di ristrutturazione aziendale e riconversione industriale; la normativa dettata dall’articolo 2112 c.c., tendeva invece a coniugare le ragioni dell’economia con quelle della tutela del lavoro, approntando, in coerenza con le direttive comunitarie, uno strumento alternativo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo ed alle procedure di mobilita’ di cui alle Legge n. 756 del 1977 e Legge n. 223 del 1991 disciplinando con criteri di garanzia e maggior favore per la parte piu’ debole una operazione imprenditoriale che in astratto poteva giustificare il recesso per ragioni oggettive. Non sussisteva quindi alcun obbligo di mantenimento del posto di lavoro presso il cedente, in quanto la direttiva comunitaria (187/77) invocate dai ricorrenti garantiva un eventuale recesso del lavoratore dal nuovo rapporto, senza danni, in quanto il lavoratore era libero di scegliere il suo datore di lavoro e non poteva essere obbligato a proseguire il rapporto con il cessionario; la legge nazionale doveva prevedere un meccanismo che garantisse tale recesso ma non anche il diritto al mantenimento del posto in capo al cedente, in quanto ne’ le direttive comunitarie, ne’ la legge nazionale ponevano in discussione la legittimita’ dell’operazione datoriale (Cass. 206/2004).
Gli appellanti avevano contestato che l’operazione della Banca potesse qualificarsi come trasferimento di ramo d’azienda: perche’ alcuni dipendenti erano impiegati promiscuamente in attivita’ del settore creditizio ed in quello esattoriale, anche dopo la creazione della CE.; perche’ i vertici della nuova struttura prestavano la loro attivita’ in regime di distacco dalla Banca; perche’ alcune strutture erano utilizzate promiscuamente dall’una e dell’altra societa’ (centralino, libro paga, ecc.). Tali circostanze non erano contestate dall’altra parte, ma non erano rilevanti, innanzi tutto perche’ le regole enunciate dall’articolo 2112 c.c., si applicavano anche nel caso di trasferimento di parte dell’azienda intesa come articolazione funzionalmente autonoma di una attivita’ economica organizzata; la norma in esame rappresentava l’attuazione della direttiva comunitaria n. 50/1998, secondo cui per “azienda” trasferita si doveva intendere l’insieme dei mezzi organizzati al fine di svolgere una attivita’ economica, che doveva conservare anche dopo il trasferimento la propria identita’ (Cass. 206/04). La corretta lettura del ramo d’azienda si fondava prima di tutto sulla destinazione funzionale e l’autonomia organizzativa che preesisteva al trasferimento e si conservava dopo; si doveva quindi trattare di una struttura funzionalmente identificabile che avesse un suo connotato circoscritto ad un settore, ad una funzione organizzata o ad una fase della lavorazione agevolmente cedibile.
Nella specie, erano stati trasferiti presso la nuova azienda, che si occupava esclusivamente della gestione esattoriale in concessione, tutti i lavoratori che erano gia’ addetti alla divisione esattoria; la promiscuita’ denunciata era quantificabile intorno al 5% del totale dei dipendenti e comunque l’operazione di distacco era autorizzata dal CCNL; la circostanza pero’ che alcuni dipendenti operassero in regime di distacco non rilevava al fine di stabilire se ed in che termini il settore esattoria fosse stato un settore definibile come parte dell’azienda ai sensi dell’articolo 2112 c.c., essendo invece rilevante l’autonomi’a funzionale del settore prima e dopo il trasferimento e non certo la completezza materiale e l’autosufficienza del gruppo. Queste autonomia funzionale non era messa in discussione nemmeno per l’utilizzazione da parte della CE. di alcuni supporti operativi della Banca (centralino, servizio paghe, supporti informatici) e quindi non sussisteva alcun elemento contrario alla configurazione della divisione esattoria come ramo d’azienda suscettibile di cessione, con le garanzie per i lavoratori previste dalla normativa generale.
Ne’ la illegittimita’ della cessione poteva derivare dalla violazione degli obblighi della Banca assunti con lettere di garanzia risalenti al 1972, 1974 e 1978: la Cassa nel 1972, in relazione alle future vicende relative alla prevista riforma tributaria ed all’emanazione dei decreti delegati, aveva garantito al personale una sistemazione alle dipendenze della Cassa medesima; la garanzia era stata ribadita nel 1974 e poi nel 1989; paventandosi l’eventualita’ che la concessione passasse a diversa societa’ venne in quest’ultima occasione stipulata un’ipotesi di accordo con le OO.SS. con la quale la Cassa si impegnava a reinserire nel proprio organico il personale assunto a tempo indeterminato qualora si verificasse lo scioglimento della nuova societa’ o la cessazione della concessione per la riscossione. Dopo analogo impegno assunto dalla Banca nel 1990, seguiva nel 2000 un nuovo schema di accordo nel quale, dandosi atto del passaggio degli esattoriali ad una nuova costituenda societa’ (la CE.), le parti avevano precisato che “le garanzie rivenienti dalle lettere 13/7/1972, 9/6/1974 e 18/7/1978 sono da considerarsi rispettate”. L’affermazione era contraddittoria, perche’ in realta’ si era verificato il passaggio alla nuova societa’, ma significativa del fatto che era venuto meno l’oggetto della tutela accordata ai lavoratori: in sostanza quelle garanzie avevano un significato in vista della possibile gestione diretta da parte dello Stato della riscossione delle imposte, conseguente alla riforma tributaria del 1971 ed avevano conservato una ragion d’essere fino a quando non era decaduto il disegno di Legge 19 dicembre 1977, su tale possibile gestione; la garanzia non aveva piu’ significato nel periodo successivo, tanto che nel 1989, quando si profilava il passaggio della concessione ad altra societa’ (CE.) gli effetti delle precedenti lettere erano considerati dalle parti sociali come “esauriti” e la Banca assumeva l’obbligo di reinserimento in organico in caso di verificazione di nuove e diverse condizioni. Di scarso rilievo era il contenuto dell’accordo del 1990 in occasione della cessazione della concessione per due province.
La riprova del fatto che gli impegni degli anni ’70 non era piu’ attuali era data dall’accordo del 2000 sul passaggio alla CE., quando i lavoratori venivano trasferiti alla nuova societa’ sulla base della normativa di settore in precedenza esaminata e quindi le parti intendevano come “rispettati” gli impegni della Banca cedente, ritenendo implicitamente che la stessa non avesse alcun obbligo di mantenimento del posto di lavoro. L’accordo non aveva avuto seguito, ma era pur sempre valido per individuare la volonta’ delle parti in senso contrario a quello sostenuto dagli attuali ricorrenti appellanti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
E’ domandata ora la cassazione di detta pronuncia con cinque motivi: col primo si lamenta violazione del Decreto Legislativo n. 112 del 1999 articoli 57, 3, 63, articolo 12 preleggi articolo 1372 e 1406 c.c., Legge n. 604 del 1966 articolo 1 Legge n. 300 del 705, articolo 18 Legge n. 223 del 1991 articoli 4, 5 e 24 nonche’ articoli 2 e 3 Cost. e del diritto fondamentale enunciato, ex articolo, 2 paragrafo, Trattato UE, dalla Corte di Giustizia CE con le sentenze 16/12/92, 7/3/96, 24/1/02, della Dichiarazione della Organizzazione Internazionale del Lavoro ratificata con Legge 13 novembre 1947, n. 1622, articolo 10 Cost., per avere il giudice erroneamente interpretato le citate disposizioni della Legge n. 112 del 1999 attribuendo alle stesse un precetto opposto a quello ivi espresso: l’articolo 57 di detta legge infatti disciplina i rapporti fra le imprese cedente e cessionaria e l’articolo 63 si preoccupa di dettare tutele in favore dei dipendenti coinvolti nel trasferimento e la Corte d’Appello, stravolgendo il significato della disposizione di cui all’articolo 63, comma 4, ha trasformato il diritto e facolta’ in obbligo ed automatismo, anche contro l’espressa volonta’ del titolare del diritto. E’ vero che la norma prevede il “diritto” al mantenimento del rapporto di lavoro presso il concessionario e non presso il cedente, ma il motivo di tale previsione sta nel fatto che “il rapporto di lavoro con il concessionario cessante e’ in realta’ in atto e tutelato dall’articolo 1372 c.c. e, in relazione alle iniziative che questi si avvia ad assumere per effetto della perdita della concessione esattoriale, dagli Legge n. 604 del 1966 articolo 1 articolo 18 SL, Legge n. 223 del 1991 articoli 4, 5 e 24 e articolo 1406 c.c.”; il lavoratore e l’impresa cedente sono legati da un rapporto di lavoro che “non puo’ che essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge” (articolo 1372 c.c.) per cui non coglie nel segno l’argomento della Corte d’Appello secondo cui il meccanismo previsto dall’articolo 63 e’ idoneo ad “assicurare il lavoratore da ogni possibile rischio derivante dal mutamento della titolarita’ del rapporto”, in quanto quel meccanismo opera soltanto in favore di alcuni soltanto dei lavoratori ceduti (che abbiano cioe’ determinati requisiti di iscrizione al fondo speciale); se in concreto e’ vero che la CE. ha il requisito numerico per l’applicazione dell’articolo 18 SL, e’ anche vero che “in astratto” ci possono essere situazioni nelle quali i lavoratori possano perdere quel beneficio. La garanzia della personalita’ del lavoratore prevista dall’articolo 2 Cost., impedisce che lo stesso possa essere costretto ad accettare un nuovo datore di lavoro che egli non abbia liberamente scelto, essendo l’impresa una “formazione sociale” nella quale si svolge la personalita’ del soggetto.
Il lavoratore quindi e’ libero di scegliere se esercitare il diritto continuare nel suo rapporto di lavoro in atto, anche a costo di affrontare il rischio di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, oppure di passare col nuovo concessionario. Questo diritto peraltro e’ garantito dalla pronuncia della Corte di Giustizia (77/187/CE) secondo cui ove il lavoratore non accetti il trasferimento del suo contratto o del suo rapporto di lavoro, spetta agli Stati membri determinare la disciplina da applicare al contratto di lavoro col cedente; la direttiva non puo’ essere interpretata nel senso che il – lavoratore sia obbligato a proseguire il rapporto col cessionario in violazione dei suoi diritti fondamentali, fra cui quello di “dissentire a fronte della cessione del suo rapporto di lavoro ad altro datore”. La pretesa di leggere nell’articolo 63 Decreto Legislativo una disposizione difforme dalla volonta’ di legge che abbia l’effetto di violare la forma fondamentale comporterebbe necessariamente o la disapplicazione della norma interna configgente con le superiori direttive comunitarie, oppure il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell’articolo 234 del Trattato CE. Peraltro sulla base dei principi sanciti dalla OIL, che vincola gli Stati, come l’Italia, che l’abbiamo ratificato la Dichiarazione di Filadelfia “il lavoro non e’ una merce” e quindi il lavoratore non puo’ essere oggetto di automatismi nel trasferimento del suo rapporto ad altro datore di lavoro.
Col secondo motivo si lamenta violazione dell’articolo 2112 e 2697 c.c. e vizio di motivazione in ordine alla pretesa sussistenza del ramo d’azienda, in quanto nel ragionamento della Corte sono ravvisabili una serie di vizi: per avere il giudice d’appello ingiustamente addossato ai dipendenti l’onere di dimostrare che il complesso trasferito alla CE. non costituisca ramo d’azienda; per non avere indicato quali siano gli elementi di prova addotti dall’azienda a sostegno della tesi che sussistono i requisiti per qualificare la divisione esattoria come ramo d’azienda; perche’ dopo avere affermato che sono quattro gli elementi da tenere presenti a tal fine poi ne esamina uno solo ed infine perche’ finisce per violare la definizione legale di ramo d’azienda motivando lacunosamente sul nesso fra gli elementi di fatto valutati e la fattispecie legale.
L’onere della prova che sia stato trasferito un ramo d’azienda grava sulla Banca che ha dedotto tale circostanza per dedurne un automatismo nel trasferimento dei rapporti di lavoro alla nuova societa’ appositamente costituita; la circostanza e’ stata contestata dai ricorrenti sin dall’atto introduttivo, adducendo circostanze ritenute sintomatiche per dimostrare il contrario, e quindi spettava alla Banca dimostrare la correttezza del suo operato. La sentenza, dopo avere affermato che per la configurazione della fattispecie legale di ramo d’azienda sono necessari la “destinazione funzionale”, la “autonomia organizzativa”, la “preesistenza al trasferimento” ed il “mantenimento della propria identita’” dopo la cessione, non esamina la sussistenza di tali elementi e della prova che eventualmente ne abbia fornito la Banca e motiva soltanto in rapporto agli elementi “anomali” che i ricorrenti avevano addotto per rafforzare la loro contestazione. I quattro elementi vengono in sostanza ridotti ad uno solo, l’autonomia funzionale, con conseguente stravolgimento della nozione di ramo d’azienda posta dall’articolo 2112 c.c., che invece li presuppone tutti. Fino al momento della cessione l’intera struttura superiore al reparto e cioe’ la Divisione, la Direzione cui la stessa rispondeva, Uffici e servizi vari (ufficio personale, relazioni sindacali, paghe, centralino, sistema informatico ecc.) sono stati promiscui col settore bancario e tali sono rimasti anche dopo il trasferimento. Non e’ in discussione la legittimita’ della costituzione della nuova societa’, ma cio’ non basto a risolvere la Questione dibattuta fra le parti, perche’ tale costituzione non e’ sufficiente a risolvere il problema dell’esistenza del ramo d’azienda, stante l’assenza di autonoma struttura prima e dopo il trasferimento.
Col terzo motivo si lamenta violazione dell’articolo 2112 c.c., articoli 1372 e 1406 c.c., Legge n. 604 del 1966 articolo 1 Legge n. 300 del 1970 articolo 18 Legge n. 223 del 1991 articoli 4, 5 e 24 nonche’ articoli 2 e 3 Cost. e del diritto fondamentale enunciato, ex articolo 2 paragrafo, Trattato UE, dalla Corte di Giustizia CE con le sentenze 16/12/92, 7/3/96, 24/1/02, della Dichiarazione della Organizzazione Internazionale del Lavoro ratificata con Legge 13 novembre 1947, n. 1622, articolo 10 Cost., per avere il giudice ritenuto irrilevante il dissenso dei lavoratori anche nell’ambito della seconda motivazione, nell’ipotesi cioe’ di eventuale applicabilita’ dell’articolo 2112 c.c. e della diversa opzione interpretativa non condivisa dalla Corte d’Appello: la soluzione non e’ rispettosa del contesto comunitario e sopranazionale entro il quale deve essere collocata.
Sul punto la giurisprudenza di legittimita’ ha di recente affermato che la direttiva CEE n. 187 del 14/2/77 prevede che con la cessione d’azienda il trasferimento del rapporto di lavoro dall’azienda cedente a quella cessionaria avviene automaticamente, ferma restando la facolta’ dei lavoratori di opporsi al trasferimento al cessionario (Cass. 19379/04). Esistono peraltro altre pronunce, basate su diversi profili: innanzi tutto viene valorizzato il dato testuale dell’articolo 2112 c.c., secondo cui in caso di trasferimento d’azienda il rapporto di lavoro continua con il cessionario”; in secondo luogo si pone in evidenza che la previsione della facolta’ del lavoratore di dimettersi “nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda” conferma l’automatismo del passaggio; in terzo luogo si afferma che direttiva comunitaria non mira alla continuazione del contratto col cedente e che, pur in presenza della contestazione del prestatore, non obbliga lo Stato membro a prevedere che il contratto o il rapporto di lavoro continua col cedente: con la precisazione che non sarebbe applicabile la disciplina ordinaria in tema di cessione del contratto ex articolo 1406 c.c. (Cass. 15105/02) giustificata dalla pretesa inscindibilita’ fra il rapporto di lavoro e l’impresa, per cui si verificherebbe una successione a titolo particolare nel contratto di lavoro come effetto legale immancabile della cessione d’azienda.
Nessuna di queste impostazioni e’ condivisibile, perche’ l’ articolo 2112 c.c., comma 4, si limita a riconoscere al lavoratore una facolta’ di recesso dal contratto fondata sulla sostanziale modifica delle condizioni di lavoro, pur avendo accettato la cessione del suo rapporto; facolta’ pienamente compatibile con il diritto di opporsi, conformemente a quanto riconosciuto dalla giurisprudenza comunitaria, alla cessione prima che avvenga per mutamento di un elemento essenziale costituito dall’identita’ del datore di lavoro, cui corrisponde la possibilita’ per il cedente di procedere ai licenziamenti in conformita’ della disciplina generale, sempre che non sia possibile la ricollocazione del lavoratore nella struttura organizzativa. La pretesa inscindibilita’ del rapporto lavoro-impresa e’ poi in netto contrasto con la disciplina comunitaria, vincolante per l’interprete al pari della norma positiva: la direttiva comunitaria, nell’interpretazione della Corte di Giustizia, ha lo scopo immediato di assicurare ai lavoratori la tutela del rapporto di lavoro col cessionario e non puo’ essere intesa in senso opposto di obbligare il lavoratore a proseguire il rapporto col cessionario. Non e’ condivisibile la tesi che la Corte non abbia “ritenuto preoccuparsi delle conseguenze che l’esercizio della facolta’ di opposizione e’ in grado di generare sulla sorte del rapporto di lavoro. Ha pertanto rimesso agli ordinamenti interni la soluzione del problema se questo debba proseguire con il cedente, oppure se possa cessare a domanda del lavoratore o del cedente”; la Corte di Giustizia invece ha ammesso in via incondizionata la facolta’ di opposizione, lasciando all’ordinamento interno di disciplinarne le conseguenze. La tesi del contemperamento delle esigenze dell’impresa con le esigenze di tutela dei diritti dei lavoratori non puo’ essere condivisa, perche’ la normativa comunitaria tende solo a proteggere i lavoratori in caso di cambiamento dell’imprenditore; i principi generali possono essere derogati in melius e non in senso peggiorativo. La norma di cui all’articolo 2112 c.c. e’ certamente speciale rispetto alla disciplina generale, ma la sua interpretazione letterale non puo’ capovolgere i fondamentali principi lavoristici di tutela del lavoratore, trasformando il suo diritto in un assurdo vincolo di natura reale, lavoratore-azienda. Il diritto di restare alle dipendenze del cedente e’ una manifestazione del diritto alla esecuzione del contratto con il contraente originario, salve le determinazioni del datore ove sussistano le condizioni di legge ( Legge n. 604 del 1966 e Legge n. 223 del 1991).
Sotto altro profilo, l’orientamento della Suprema Corte in materia merita un ripensamento in considerazione del contrasto con i principi comunitari sopra richiamati, che non puo’ ritenersi composto con il riconoscimento del diritto alle dimissioni dopo il trasferimento previsto dall’articolo 2112 c.c., comma 4, nel testo novellato col Decreto Legislativo n. 18 del 2001. Il diritto di opposizione riconosciuto al lavoratore prima del trasferimento comporta la non operativita’ della regola sancita dall’articolo 2112 c.c. e la permanenza del rapporto fra le parti originarie.
Col quarto motivo si lamenta violazione dell’articolo 1362 c.c. e vizio di motivazione in relazione all’interpretazione degli accordi sindacali del 2001 e 2002 relativi al passaggio presso la CE. che doveva poi essere trasmesso in un atto di conciliazione individuale.
Col quinto motivo si lamenta violazione degli articoli 1362 e ss. c.c. e vizio di motivazione in relazione al mancato annullamento dei licenziamenti per violazione delle lettere di garanzia rilasciate dalla Banca nel 1972, 1974 e 1978. Resiste le Banca con controricorso. Entrambe le parti hanno presentato memorie illustrative.
Il ricorso e’ infondato.
Il primo e terzo motivo possono essere trattati congiuntamente perche’ sono aspetti della medesima censura sotto il duplice profilo della violazione della normativa speciale dettata dal Decreto Legislativo n. 112 del 1999 articoli 51 e 63 e di quella generale di cui all’articolo 2112 c.c.. In proposito si osserva che la Corte ha gia’ precisato che “l’ articolo 2112 cod. civ., anche nel testo anteriore alle modifiche di cui al Decreto Legislativo n. 18 del 2001 attuativo della direttiva comunitaria n. 50 del 1998, consente, letto in linea con la giurisprudenza comunitaria formatasi in merito alla interpretazione della direttiva n. 187 del 1977 e con le esplicite indicazioni fomite dalla direttiva n. 50 del 1998, di ricondurre, ai fini da esso considerati, alla cessione di azienda anche il trasferimento di un ramo della stessa, purche’1 si tratti di un insieme di elementi produttivi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attivita’, che si presentino prima del trasferimento come una entita’ dotata di autonoma ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa e che conservi nel trasferimento la propria identita’.
In presenza di tali condizioni, puo’ configurarsi un trasferimento aziendale che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacita’ operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare “know how” …, realizzandosi in tale ipotesi una successione legale di contratto non bisognevole del consenso del contraente ceduto, ex articolo 1406 e segg. cod. civ.. Requisito indefettibile della fattispecie legale tipica delineata dal diritto comunitario e dall’articolo 2112 cod. civ., resta comunque, anche in siffatte ipotesi, l’elemento della organizzazione, intesa come legame funzionale che rende le attivita’ dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni o servizi ben individuabili, configurandosi altrimenti la vicenda traslativa come cessione del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del contraente ceduto (Cass. n. 206/04; K Conf 10701/02).
Le censure mosse non possono condurre all’auspicato ripensamento della Corte, perche’ la legislazione nazionale non si pone in contrasto con i principi fondamentali della disciplina comunitaria che tutelano non solo la liberta’ del lavoratore di scegliere il proprio datore di lavoro, ma anche e soprattutto il diritto al lavoro in situazione di sicurezza e con tutte le garanzie previste dall’ordinamento lavoristico nazionale ed internazionale. La circostanza che la legislazione nazionale, generale e speciale, abbia preferito porre l’accento sul diritto al lavoro, piuttosto che sulla liberta’ di scelta, che comunque viene garantita con la concessione della facolta’ di recesso senza danno, non comporta quella violazione del diritto comunitario, che secondo l’assunto dovrebbe portare alla disapplicazione del diritto interno o la rimessione della questione alla Corte di Giustizia. Nella prospettazione dei ricorrenti la tutela del diritto di scelta da effettuarsi prima del trasferimento dell’azienda o del ramo d’azienda, e non dopo col riconoscimento del diritto alle dimissioni, comporta sempre la possibilita’ per il cedente di procedere ai licenziamenti in conformita’ della disciplina generale, sia pure ovviamente con tutte le garanzie per il lavoratore in materia di repechage. La scelta del legislatore nazionale di evitare per quanto possibile una simile eventualita’, garantendo comunque il diritto al lavoro in condizioni di assoluta sicurezza, non puo’ essere considerata in contrasto con le garanzie comunitarie cosi’ come interpretate dalla Corte di Giustizia.
Nella specie il giudice d’appello ha considerato che la norma speciale ( Decreto Legislativo n. 112 del 1999 articoli 57, 3, 63) autorizza la creazione di una nuova societa’ e prevede il passaggio diretto di tutti i dipendenti addetti al settore esattoriale alla nuova impresa, con tutte le garanzie ivi previste ed il mantenimento del posto di lavoro presso il concessionario subentrante in regime di stabilita’ e sicurezza; che il passaggio pertanto e’ indolore nel senso che garantisce ai lavoratori stabilita’, pari livello retributivo e professionale senza rischi di peggioramento; che gli appellanti, pur essendo dipendenti di una azienda di credito hanno un rapporto regolato dalla disciplina propria degli esattoriali, anche con riguardo al regime retributivo, per cui il passaggio ad altra societa’ del settore, con il mantenimento del livello retributivo e di anzianita’, non comporta alcun pregiudizio patrimoniale o di carriera, ne’ rischi di solvibilita’ perche’ la nuova azienda e’ posseduta e controllata dalla stessa Banca e ha la consistenza numerica per garantire il regime di stabilita’; con la conseguenza che possono considerarsi soddisfatte tutte le esigenze di garanzia per un passaggio senza pregiudizio presente o futuro. Le censure non sono idonee a contrastare validamente questa motivazione e quindi i due motivi vanno quindi disattesi.
In ordine al secondo si osserva che la Corte ha gia’ precisato che “per “ramo d’azienda”, ai sensi dell’articolo 2112 cod. civ. (cosi’ come modificato dalla Legge 2 febbraio 2001, n. 18, in applicazione della direttiva CE n. 98/50), come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entita’ economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identita’, il che presuppone una preesistente realta’ produttiva autonoma e funzionalmente esistente, e non anche una struttura produttiva creata “ad hoc” in occasione del trasferimento, o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo (Cass. 19842/03).
Nella specie, la sentenza ha accertato la sussistenza di tutte le condizioni per la qualificazione come ramo d’azienda della entita’ ceduta alla nuova societa’: parte dalla considerazione che per “azienda” trasferita si deve intendere l’insieme dei mezzi organizzati al fine di svolgere una attivita’ economica, che deve conservare la propria identita’ anche dopo il trasferimento; che a tal fine conta prima di tutto la destinazione funzionale e l’autonomia organizzativa preesistente, nel senso che si deve trattare di una struttura funzionalmente identificabile che abbia un suo connotato circoscritto ad un settore, ad una funzione organizzata o ad una fase della lavorazione agevolmente cedibile. Accerta quindi, in punto di fatto, che sono stati trasferiti presso la nuova azienda, che si occupa esclusivamente della gestione esattoriale, tutti i lavoratori che in precedenza erano gia’ addetti alla divisione esattoria; che la promiscuita’ denunciata e’ quantificabile intorno al 5% del totale dei dipendenti ed e’ comunque irrilevante al fine di stabilire se ed in che termini il settore esattoria sia definibile come parte dell’azienda ai sensi dell’articolo 2112 c.c.: che per l’individuazione del ramo d’azienda determinante e’ l’autonomia funzionale del settore prima e dopo il trasferimento e non certo la completezza materiale e l’autosufficienza del gruppo; autonomia funzionale che non e’ messa in discussione nemmeno per l’utilizzazione da parte della CE. di alcuni supporti operativi della Banca (centralino, servizio paghe, supporti informatici); che non sussiste quindi alcun elemento contrario alla configurazione della divisione esattoria come ramo d’azienda suscettibile di cessione, con tutte le garanzie per i lavoratori previste dalla normativa generale. Questa complessa motivazione non viene adeguatamente censurata dalle critiche mosse e quindi anche il secondo motivo va rigettato.
Il quarto e quinto motivo coinvolgono questioni di puro fatto e tendono ad ottenere una diversa valutazione della Corte inammissibile in questa sede e quindi vanno disattesi ed il ricorso rigettato. Le spese vanno poste a carico dei ricorrenti e liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
LA CORTE
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese che liquida in euro 37,00 oltre ad euro 5000,00 per onorario, nonche’ alle spese generali IVA e CPA.