Con riferimento al danno biologico si rammenta preliminarmente che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, in caso di morte di un soggetto cagionata dal fatto illecito altrui, i congiunti del defunto acquistano iure hereditatis il diritto al risarcimento del danno biologico sofferto dal proprio dante causa limitatamente ai soli danni verificatisi tra il momento dell’illecito e quello del decesso, qualora i due momenti siano separati da un apprezzabile lasso di tempo. Laddove sia configurabile il suddetto danno lo stesso andrà liquidato, secondo i più recenti arresti giurisprudenziali, in relazione alla menomazione dell’integrità fisica patita dal danneggiato dal momento di verificazione dell’illecito sino al decesso e pertanto andrà commisurato “soltanto all’inabilità temporanea, adeguano tuttavia la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita anzi, nella morte.

 

Tribunale Firenze, Sezione 2 civile Sentenza 28 settembre 2018, n. 2543

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale ordinario di Firenze, seconda sezione civile, in funzione monocratica, nella persona del giudice onorario dott.ssa Micaela Picone, ha pronunziato

SENTENZA

nella causa civile n. 18164 di R.G. del Ruolo generale degli affari civili contenziosi del 2014, promossa da,

LU.MA., ST.MA. e MA.MA., con avv.ti Si.Gr. e An.Co. giusto mandato in atti

– Attori –

CONTRO

AZIENDA OSPEDALIERO – UNIVERSITARIA CAREGGI, in persona del rappresentante legale pro tempore, con avv.ti En.Br. e Ma.Pa. giusto mandato in atti

– Convenuta –

Oggetto: Risarcimento danni da responsabilità professionale.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. i sigg.ri Lu.Ma., St.Ma. e Ma.Ma. hanno convenuto in giudizio l’azienda A.O.U. Careggi di Firenze, in persona del legale rappresentante pro tempore, affermando la responsabilità del personale intervenuto durante il ricovero presso la struttura di Terapia Intensiva della sig.ra Ri.Ma. la quale stante il comportamento negligente del medesimo decedeva in data 27 febbraio 2012.

I ricorrenti hanno esposto di avere già promosso un accertamento tecnico preventivo, conclusosi con relazione depositata dalla dott.ssa Gr. la quale ha individuato il nesso causale tra il decesso della lor congiunta e la malpratica del personale sanitario. I sigg.ri Lu.Ma., St.Ma. e Ma.Ma., quindi, hanno chiesto l’accoglimento delle seguenti domande: “acquisiti gli esiti della procedura ATP, ritenuta la responsabilità dei sanitari in ordine alle lesioni occorse e al decesso della Sig.ra Ri.Ma. avvenuto in data 27/02/12, voglia condannare la resistente Azienda Ospedaliero Universitaria Ca. al risarcimento, iure hereditatis in favore dei ricorrenti, dei danni non patrimoniali tutti patiti dalla de cuius, nonché al risarcimento, iure proprio, dei danni patiti dai ricorrenti per la perdita del rapporto parentale con la consanguinea, nella misura che parrà di giustizia, in ipotesi anche da determinarsi con criteri equitativi”.

Nel costituirsi ritualmente in giudizio, l’Azienda Ospedaliero – Universitaria Careggi in primis eccepiva la carenza di legittimazione attiva del Sig. St.Ma. a proporre la procedura di ATP nonché contestava nell’an e nel quantum le pretese attoree.

Mutato il rito e concessi i termini ex art. 183 c.p.c., VI comma, la causa veniva istruita solo con acquisizione documentale tra cui la relazione della dott.ssa Gr. redatta a conclusione del procedimento per ATP.

All’udienza del 13 dicembre 2018 lo scrivente Giudice, nuovo assegnatario del fascicolo in forza del decreto n. 40/2016 del Presidente del Tribunale di Firenze, tratteneva la causa in decisione con concessione dei richiesti termini ex art. 190 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I fatti rappresentati da parte attrice

Gli attori hanno dedotto che la a Sig.ra Ma. soffriva di LES (Lupus Eritematoso Sistemico) che nel tempo aveva determinato una gravissima compromissione della funzione renale.

Per tale ragione il 18/11/11 la medesima si era recata presso S.O.D. Nefrologia dell’Ospedale di Careggi per il posizionamento di un CVC (catetere venoso) per il trattamento emodialitico in occasione del quale si evidenziava un sanguinamelo pelvico extraperitoneale che rendeva necessario un intervento chirurgico, svoltosi senza difficoltà il 10/11/11.

A seguito di detto intervento la paziente veniva ricoverata presso l’Unità di Terapia intensiva della stessa struttura ospedaliera ove si verificava uno stravaso (fuoriuscita dal letto venoso) del farmaco contenuto nella flebo posizionata sul braccio della medesima i cui effetti furono gravissimi: necrosi di una vastissima area del braccio a partire dal dorso della mano fino a ben oltre il gomito.

Si assumeva, pertanto, che tale evento diveniva per la degente il punto di inizio di un dolorosissimo quanto disperato calvario, destinato a culminare, di lì a pochi mesi, con l’amputazione del braccio e, dopo due settimane, con la sua morte.

Eccezione di carenza di legittimazione attiva del sig. St.Ma.

Parte convenuta ha sollevato eccezione di carenza di legittimazione attiva del sig. St.Ma. il quale, qualificatosi come erede, adiva l’intestato Tribunale depositando ricorso ex art. 696 bis affinché venissero accertate l’origine e le cause del decesso della sig.ra Ma.Ri.

In particolare, sulla scorta del testamento olografo della sig.ra Ma.Ri. pubblicato in data 26 marzo 2012 dal notaio dott.ssa Montano, risultava evidente come fosse stata nominata erede universale esclusivamente la sig.ra Lu.Ma., propria sorella gemella, con ciò escludendosi qualsiasi successione, anche come legittimario, del sig. St.Ma. il quale non avrebbe avuto titolo per instaurare il procedimento di ATP nonché risulterebbe carente di legittimazione attiva a pretendere il risarcimento iure hereditatis nel presente giudizio.

Adesso è pacifico in dottrina e giurisprudenza come, qualora per effetto di una responsabilità medico sanitaria vi sia stato il decesso di un proprio parente, è possibile agire per il risarcimento dei danni sia iure hereditatis che iure proprio.

Per risarcibilità dei danni iure hereditatis occorrerà seguire le norme dell’ordinamento sulla successione; per il risarcimento del danno “iure proprio”, i c.d. “danni riflessi”, occorrerà far riferimento a quei danni che, seppur sorti per effetto di un evento che ha coinvolto il paziente vittima della malasanità, si producono “di riflesso” nella sfera giuridica delle cc.dd. vittime secondarie. Queste acquistano così il diritto al risarcimento al relativo giudizio subito sulla propria persona e che va ad aggiungersi (e non si sostituisce) al risarcimento spettante invece iure hereditatis.

Nella fattispecie in esame il sig. Ma.St. non ha contestato la circostanza di non essere erede tant’è che ha precisato in prima memoria ex art. 183 c.p.c. di essere titolare di un pieno diritto al risarcimento del danno patito, iure proprio, per la perdita della relazione parentale; pertanto, la domanda del medesimo potrà essere vagliata esclusivamente sotto tale profilo di risarcibilità.

Inoltre, non può condividersi l’assunto di parte convenuta per il quale l’assenza della qualità di erede della sorella del sig. Ma.St. provoca la nullità e/o comunque l’inutilizzabilità nel presente procedimento della CTU emessa all’esito del procedimento di ATP ciò in quanto dalla lettura del ricorso introduttivo del procedimento per ATP emerge che questo non abbia mai dedotto di aver agito in qualità di erede. Difatti, il sig. Ma. in quanto fratello della vittima, e come tale in astratto titolare di un pieno diritto al risarcimento del danno patito, iure proprio, per la perdita della relazione parentale, era pienamente legittimato ad agire giuridicamente per vedere accertate le cause della morte della sorella e la conseguente responsabilità dei sanitari e, con essi, dell’azienda.

Infine, alcun rilievo può darsi alla circostanza che le sig.re Ma.Lu. e Ma.Ma. non abbiano partecipato al procedimento per ATP dal momento che le stesse sono ricorrenti nel presente giudizio e sono esse stesse a richiamare nel loro atto introduttivo la relazione eseguita nel procedimento per ATP, evidentemente accettandone le conclusioni.

L’eccezione pertanto deve essere disattesa.

In diritto

Per i motivi esposti parte attrice instaurava il presente giudizio proponendo un’azione di risarcimento del danno nei confronti della convenuta Azienda Ospedaliera avente natura di responsabilità contrattuale, per effetto dell’autonomo contratto di spedalità che sorge tra struttura sanitaria pubblica e paziente, e del contatto sociale tra medico e paziente (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 577 del 11/01/2008; Cass. Sez. civile III, 3 febbraio 2012, n. 1620 e Cass. Sez. III, sentenza 20 marzo 2015, n. 5590).

Adesso, i criteri di ripartizione dell’onere probatorio nelle controversie di responsabilità professionale (dell’ente ospedaliero e/o del sanitario) devono essere individuati in base al principio enunciato in termini generali dalle Sezioni Unite dalla Suprema Corte con la sentenza 30 ottobre 2001, n. 13533, in tema di onere della prova dell’inadempimento contrattuale e dell’inesatto adempimento: il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento.

In conclusione, come quelle della fattispecie per cui è causa, la struttura ospedaliera contrae un’obbligazione contrattuale in virtù della quale si adopera diligentemente e con tutti i mezzi disponibili ai fini della cura e della risoluzioni delle problematiche del paziente: la nascente obbligazione non è tuttavia di risultato ma di mezzi.

Ciò in quanto “porre a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova dell’esatto adempimento della prestazione medica soddisfa in pieno a quella linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova che va accentuando il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla. Infatti, nell’obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell’inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. In queste obbligazioni in cui l’oggetto è l’attività, l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell’esecuzione della prestazione, cosicché non vi è dubbio che la prova sia “vicina” a chi ha eseguito la prestazione; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell’inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto” (in motivazione Cass. 10297/2004).

La responsabilità

In applicazione dei principi esposti va, dunque, esaminata la domanda spiegata dagli attori, tenendo conto che era onere dei medesimi provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) ed allegare l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e l’inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare (quale causa o concausa efficiente) il danno lamentato, rimanendo a carico della struttura sanitaria dimostrare che tale inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur esistendo, esso non è stato causa del danno.

Orbene, nel caso di specie, è pacifica l’esistenza del contratto tra le parti; difatti, alla luce della documentazione sanitaria in atti risulta che in data 10 novembre 2011 la sig.ra Ma.Ri. venne inizialmente ricoverata presso l'(…) dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Ca. e dopo varie vicessitudini trasferita in altri reparti fino al decesso intervenuto in data 27 febbraio 2012.

Tale assunto non è stato contestato dalle difese della parte convenuta.

Inoltre, nei giudizi risarcitori promossi da chi lamenti un pregiudizio derivante dall’attività medica, è da ritenersi ormai consolidato l’orientamento secondo il quale l’accertamento del rapporto di causalità debba compiersi secondo il criterio della preponderanza dell’evidenza (Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2014, n. 22225).

Peraltro, qualora l’azione o l’omissione siano in se stesse concretamente idonee a determinare l’evento, il difetto di accertamento del fatto astrattamente idoneo a escludere il nesso causale tra condotta ed evento non può essere invocato, benché sotto il profilo statistico quel fatto sia “più probabile che non”, da chi quell’accertamento avrebbe potuto compiere e non l’abbia, invece, effettuato. Tant’è si osserva come se è onere del sanitario che non abbia correttamente adempiuto la propria prestazione dimostrare che l’esito infausto delle cure si è verificato per fattori causali diversi, a sé non imputabili, vi è da rilevare che da parte del convenuto non si è affatto fornita tale prova liberatoria.

Con riferimento alle ragioni del decesso della sig.ra Ma., all’esistenza di eventuali comportamenti colposi dei sanitari ed all’esistenza di un nesso eziologico tra tali comportamenti e la morte, la causa può essere decisa sulla base della CTU espletata nel corso de procedimento per ATP, svolta con motivazione convincente e pienamente condivisibile, che ha adeguatamente replicato ai rilievi della parte odierna convenuta, dalla quale il Giudicante non ha motivo di discostarsi in quanto frutto di un iter logico ineccepibile e privo di vizi, condotto in modo accurato ed in continua aderenza ai documenti agli atti ed allo stato di fatto analizzato. Orbene, la dott.ssa Gr. ha accertato come dopo l’intervento chirurgico per shock emorragico, cui era sottosposta la sig.ra Ma. presso l'(…). Chilurgia Generale 3 dell’AOC, la stessa veniva trasferita alla Terapia Subintensiva Moretti dove “…veniva già segnalata una lesione da stravaso di farmaco e immediatamente trattata con Alginato e schiuma e coperta da garza”. Poi “In data 14.11.2011 trasferimento alla S.O.D. Nefrologia dei Trapianti e Dialisi. Erano effettuati trattamenti dialitici richieste eco controllo e consulenza degli specialisti della Chilugia della Mano che la prendevano in ura solo il 1.12.2011, ossia dopo 20 giorni dallo stravaso. La lesione dell’avambraccio sn evolveva in una ampia necrosi tessutale accompagnata da stato febbrile. Seguivano medicazioni. Il 27.12.2011 alla S.O.D. Chilurgia Plastica e Ricostruttiva era sottoposta, in Anestesia Generale, ad escarectomia e posizionamento della VAC……. (ndr. dopo il peggioramento della situazione dell’arto superiore sn ed a dispetto delle terapie poste in essere dai sanitari della struttura ospedaliera) Previo consenso informato, i chilurgi plastici decidono per l’amputazione dell’arto superiore sn perché, visti i livelli di coagulazione, il prelievo di innesti cutani sottoporrebbe la paziente a rischi di emorragia sia nel punto del prelievo che nel punto di innesto. Durante l’intervento di amputazione, dopo la rimozione della VAC viene segnalato sanguinamento incontrollabile e fuoriuscita di materiale necrotico dal foro prossimale del braccio.”.

Tanto ricostruito la CTU ha osservato come “…alla Ma., al momento dello stravaso, questo non è stato gestito come emergenza medica vera e propria, ossia non le sono stati immediatamente somministrati antidoti, né è stata trattata con jaluronidasi, né è stato tentato un trattamento con tecnica del Flush Out, finalizzato alla rimozione fisica del farmaco pericoloso stravasato, conservando la cute sovrastante, con abbondante irrigazione dei tessuti con soluzione salina (…). I successivi trattamenti conservativi praticati non hanno sortito alcun beneficio, tanto che vista l’estensione della lesione (suggestiva di una notevole quantità di farmaco stravasato nei tessuti della mano e dell’avambraccio) in data 17.02.2012 è stata decisa l’amputazione dell’arto. I trattamenti conservativi fino ad allora effettuati .erano controindicati visto appunto l’alto rischio di emorragia. La applicazione della VAC therapy, pur indicato nei casi di lesioni/ulcere cutanee di una certa gravità (…) in questo caso, visto l’alterato assetto coagulativo e la sindrome emorragica – uremica e la avanzata vasculopatia lupica, oltre ad essere controindicata in presenza di necrosi, ha di fatto concausato crisi ipovolemiche emorragiche, rendendo necessarie le relative emotrasfusioni o infusioni con cristalloidi e ricoveri in terapia intensiva ed hanno verosimilmente concausato la pancreatite emorragica rilevata al riscontro diagnostico, e non diagnosticata alla ecografia addominale del 6.2.12 quando il pancreas era risultato non esplorabile”.

In conclusione “Ne risulta allora un evidente caso di Nursing Malpractice da parte del personale infermieristico, e non solo, della Terapia Intensiva di Emergenza ed Anestesia e Rianimazione della AOUC in cui il personale infermieristico ha sottovalutato uno stravaso in corso di una infusione di un farmaco pericoloso, quale il calcio cloruro, e che invece meritava una ben più accurata sorveglianza, in una paziente con una grave patologia vascolare come la sig.ra Ma., affetta da Lupus eritematoso sistemico in cui il rischio di stravaso era altamente ipotizzabile vista la relativa fragilità vascolare. .. .si può senza dubbio affermare come si sia in presenza di un comportamento colposo in termini di imperizia e negligenza in quanto la infusione di un farmaco pericoloso, quale è il calcio cloruro, seppur in elettrolita, avrebbe richiesto una stretta ed attenta sorveglianza, soprattutto in un soggetto con una evidente e già diagnosticata fragilità vasale. Per la affermazione della responsabilità professionale si ricorda che il calcio cloruro come altri elettroliti, che se stravasa fuori dal torrente circolatorio ha effetto citossico e necrotizzante (dato ampiamente descritto anche nel foglietto illustrativo della confezione “Nel caso di stravaso durante infusione della soluzione si può determinare necrosi tessutale”) per cui era necessaria la massima attenzione e che la tumefazione attorno alla venipuntura, anche se verosimilmente immediatamente non dolorosa, ma resasi subito evidente, doveva immediatamente allertare il personale sia infermieristico che medico perché lo stravaso di farmaco è emergenza medica vera e propria! La significativa quantità del farmaco fuoriuscito è dimostrata dalla vastità della lesione, quasi tutto l’arto superiore sn, (quando il sito della venipuntura verosimilmente era a livello del dorso della mano) con successiva massiva necrosi cutanea anche muscolare e tendinea dell’avambraccio e della mano sn, indicativi di gravità della lesione tale da portare successivamente alla amputazione dell’arto, ormai irrecuperabile”.

Quindi la dott.ssa Gr. ha senza dubbio ritenuto che “la sig.ra Ri.Ma., pur affetta da una serie di patologie gravi tutte correlate con il Lupus eritomatoso sistemico, una insufficienza renale cronica grave con necessità di trattamento

dialitico, una sindrome emorragico, dovuta sia al deficit del fattore XI del completamento e da terapia coumadinica per gli esiti di una sostituzione valvolare aortica e da esiti ischemici cerebrali, dal mese di novembre 2011 è stata affetta da tossicosi generalizzata, oltre all’insulto operatorio e anestesiologico per l’intervento di amputazione, dovuta alla vasta necrosi tissutale all’arto superiore sn, conseguenza diretta dello stravaso di calcio cloruro somministratole per via endovenosa, e che tale stravaso ha reso necessaria, dopo un percorso clinico di oltre tre mesi di tentativi conservativi, la amputazione dell’arto leso. Questa seria di eventi hanno senza dubbio peggiorato le condizioni generali della paziente, già compromesse, ma non tali a fini prognostici quoad vitam, giocando un ruolo non secondario nel determinismo della morte, quanto meno togliendole sostanziali aspettative di vita. Il motivo del ricovero del novembre 2011 era solo finalizzato all’impianto di accessi arteriovenosi a fini dialitici”.

Ai fini dell’accertata responsabilità non ha alcun rilievo la circostanza che la Ma. fosse soggetto in condizioni di salute già decisamente compromesse e le sue speranze di vita ridotte. Tale stato di salute infatti non incide in alcun modo sull’an della responsabilità (anche ammesso che le patologie preesistenti abbiano avuto un rilievo concausale, il principio della equivalenza delle cause non consentirebbe di escludere o ridurre la responsabilità) a maggior ragione laddove si consideri che la colpa medica, secondo quanto ravvisato dal consulente, ha costituito invece la causa del decesso.

Alla luce di tali considerazioni poco vi è da aggiungere sulla responsabilità della convenuta, in quanto ne emergono evidenti sia il nesso causale fra l’attività terapeutica e la morte, tanto da aver privato la paziente di apprezzabili chances di sopravvivenza, per la qui quantificazione si è espresso il CTU che ha ritenuto come “In seguito alla condotta colposa da parte del personale infermieristico della Terapia Intensiva di Emergenza Anestesia e Rianimazione della AOUC, conseguente allo stravaso di calcio di Cloruro, (solo in questa sede faticosamente identificato in calcio cloruro, in quanto mai nelle cartelle cliniche si è segnalata la vera origine, pur conoscendola consapevolmente, in cui si è indicato solo un generico termine di “stravaso di farmaco”. Infatti il 12.11.2011 alle 12.56 era segnalato soltanto una lesione cutanea con ematoma di probabile stravaso di liquidi considera come probabile allergia o reazione al cerotto – medicazione in paziente con fragilità cutanea, mentre si era in una emergenza medica vera e propria) ne è derivato uno stato di malattia, causato dallo stravaso di calcio di cloruro, che ha auto una durata dal 11.11.2011 fino al 27.2.2012 data della morte avvenuta 17 giorni dopo l’intervento di amputazione dell’arto superiore sn. Uno stato di malattia che civilmente si traduce come inabilità temporanea assoluta di gg. 108. Il danno biologico quale menomazione dell’integrità psicofisica derivante dallo stravaso di calcio di cloruro e costituito da esiti di amputazione dell’arto superiore sn è da valutarsi nella misura del 60% …”.

Dall’altro lato, quanto alla “.probabilità di sopravvivenza della Ma. in relazione alle gravi patologie da cui era affetta.” il CTU ha ritenuto come “il suo stato di salute, ancorché compromesso non faceva prevedere una morte a breve tempo, poiché la necessità del trattamento dialitico era stata posta nel mese di ottobre 2011 ed era stata ricoverata presso la nefrologia nel mese di novembre successivo, per applicazione degli accessi arterovenosi a fini dialitici. Presumibilmente, una volta in dialisi, e corretta la grave insufficienza renale, le sue aspettative di vita potevano essere migliori se non fosse accaduto il fatto de quo. Quantificarne la probabilità è verosibilmente impossibile, ma certamente è stato abbreviato il tempo di sopravvivenza con il penoso e gravoso percorso clinico che ha dovuto affrontare e che è sfociato concausalmente nella genesi della morte.”.

Tant’è che, in risposta alle osservazioni del CTP di parte convenuta, la dott.ssa Gr. ha tenuto a precisare che il prolungato stato tossico generalizzato sostenuto dalla vasta area di necrosi tessutale dovuta allo stravaso di cloruro di calcio che ha interessato l’arto superiore sn”… oltre a compromettere significativamente le condizioni cliniche della Ma.Ri., sia dal punto di vista generale sia cardiocircolatorio, l’ha costretta a subire un ulteriore intervento chilurgico in Anestesia Generale (ndr l’amputazione dell’arto superiore sn), ossia un ulteriore insulto sia operatorio che anestesiologico con il suo relativo stress organico correlato all’anestesia generale stessa. Questi tre elementi patologici …assumono senza alcun dubbio un ruolo concausale nel determinismo della morte!”; inoltre, seppur “Una previsione di periodo di sopravvivenza, anche nelle condizioni cliniche della Ma., prima dello stravaso di cloruro di calcio, non è ipotizzabile o quantificabile” è pur vero che in letteratura i tempi di sopravvivenza per i pazienti con Insufficienza renale al V stadio (per come osservato proprio dal ctp della convenuta) “.possono essere pari a 38.4 e 36.6 mesi dall’inizio della dialisi Extracorporea. Proprio in virtù di questo periodo prognostico l’evento avverso dovuto a nursing malpractice ha privato la Ma. di quelle chances o di quelle aspettative di via, di circa tre anni, statisticamente provate, negandole la possibilità di vivere alcuni mesi o alcuni anni in più, impedendole il suo essere persona in vista del decesso”.

La condotta erronea riscontrata dal c.t.u. in attività riferibile al personale della struttura ospedaliera convenuta deve ritenersi, quindi, una concausa della morte della Ma.Ri., che, per come desumibile dal puntuale ragionamento della dott.ssa Gr., sarebbe arrivata solo a distanza di parecchi mesi od anni per l’Insufficienza Renale al V stadio che affliggeva la medesima.

Pertanto, nella fattispecie in esame, a fronte delle conclusioni del CTU non può che farsi applicazione della regola probatoria della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (ed. probabilità logica o baconiana). Nello schema generale della probabilità come relazione logica va determinata l’attendibilità dell’ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma (c.d. evidence and inference nei sistemi anglosassoni)” (Cass. 11.1.2008 n. 581).

Vi è, pertanto, responsabilità della struttura ospedaliera in relazione al sopravvenuto decesso della paziente, essendo configurabili il nesso causale tra condotta negligente e decesso, secondo la regola del “più probabile che non”, e non essendovi, pacificamente, diversi fattori alternativi, suscettibili di aver condotto in via autonoma la medesima alla morte, diversi cioè dalle particolari e precarie condizioni che la convenuta avrebbe avuto comunque il dovere di valutare e soppesare attentamente, adeguando ad esse le modalità dell’intervento successivo al travaso, e dunque, nessun fattore idoneo a recidere il ridetto nesso di causalità.

Quindi, ricondotta la causalità civile al criterio del ‘più probabile che non’, resta irrilevante determinare l’esatto processo eziologico: l’individuazione di una causa probabile (vale a dire, di un fatto che appartiene a un genere di fatti a cui è noto conseguire, con una qualche significatività in termini di regolarità statistica, un altro fatto del genere di quello che costituisce l’evento di danno) esaurisce, allora, l’onere del danneggiato, e sarà allora onere del convenuto dimostrare che vi è stata un’altra causa più probabile.

I criteri di priorità logica nell’analisi della fattispecie sono stati così indicati: “In tema di responsabilità civile il giudice di merito, conclusivamente, deve accertare separatamente dapprima la sussistenza del nesso causale tra la condotta illecita e l’evento di danno, e quindi valutare se quella condotta abbia avuto o meno natura colposa o dolosa, con la conseguenza – quindi – che, nell’ipotesi di responsabilità del medico, è viziata la decisione la quale escluda il nesso causale per il solo fatto che il danno non potesse essere con certezza ascritto ad un errore del sanitario, posto che il suddetto nesso deve sussistere non già tra l’errore ed il danno, ma tra la condotta ed il danno, mentre la sussistenza dell’eventuale errore rileverà sul diverso piano della imputabilità del danno a titolo di colpa” (Cass. 16.1.2009 n. 975).

In tal senso si è espressa pressoché tutta la giurisprudenza più recente, per la quale si rinvia a Cass. 21.7.2011 n. 15993 (“lo sforzo probatorio dell’attore può non spingersi oltre la deduzione di qualificate inadempienze in tesi idonee a porsi come causa o concausa del danno, restando poi a carico del convenuto l’onere di dimostrare o che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia può essergli mosso, o che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non ha avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno”) e Cass. 7.6.2011 n. 12274 (“in caso di prestazione professionale medica in struttura ospedaliera, resta a carico del debitore (medico o struttura sanitaria) l’onere di dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo diligente, e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sé non imputabile, in quanto determinato da un evento non prevedibile ne’ prevenibile con la diligenza nel caso dovuta, in particolare con la diligenza qualificata dalle conoscenze tecnico – scientifiche del momento”), Cass. ord. 29.7.2010 n. 17694 (“in caso di prestazione professionale medico – chirurgica di “routine”, spetta al professionista superare la presunzione che le complicanze siano state determinate da omessa o insufficiente diligenza professionale o da imperizia, dimostrando che siano state, invece, prodotte da un evento imprevisto e imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico – scientifiche del momento e che (Cass. Sez. 3, n. 24791 del 2008) costituisce onere del medico, per evitare la condanna in sede risarcitoria, provare che l’insuccesso del suo intervento professionale è dipeso da fattori indipendenti dalla propria volontà e tale prova va fornita dimostrando di aver osservato nell’esecuzione della prestazione sanitaria la diligenza normalmente esigibile da un medico in possesso del medesimo grado di specializzazione… il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del professionista, restando a carico dell’obbligato l’onere di provare l’esatto adempimento, con la conseguenza che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà rileva soltanto per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà”).

Accertata la responsabilità dell’A.O.U. convenuta, deve procedersi alla determinazione dei danni risarcibili ed alla loro quantificazione laddove si tratta di risarcire per quanto detto la perdita di chances e non la perdita della vita subita dalla sig.ra Ma.

Occorrerà difatti distinguere – nei casi in cui alla condotta negligente ed imperita del sanitario segua il decesso del paziente – tra la domanda di risarcimento per morte, che postula lo scrutinio positivo sull’esistenza del nesso di causalità tra l’omissione e l’evento morte (che può dirsi accertato ai fini di causa anche in termini solo probabilistici e ciò a fronte della nota prospettiva “vittimologica” che ispira l’illecito civile rispetto a quello penale, in forza della quale, nel primo, il dubbio sul nesso di causa, quando la sua esistenza è comunque ritenuta “più probabile che non”, è posto a carico del danneggiante per una precisa opzione del diritto vivente estranea a valutazioni di tipo epistemologico) e la domanda di risarcimento per diminuzione della speranza di sopravvivenza, dove la valutazione degli effetti della condotta omissiva si sposta dal profilo della causalità a quello dell’individuazione stessa del bene della vita leso a seguito di tale condotta. In tale ultimo caso, l’omissione dei sanitari non viene tanto valutata per la sua idoneità a determinare probabilmente l’evento quanto per la suscettibilità di privare il paziente di chances di sopravvivenza (privazione che, per consentire di accedere al risarcimento, deve comunque essere seria e non puramente teorica). In altri termini, il punto da valutare è se, una volta rappresentata la possibilità di ascrivere l’evento morte al sanitario in forza dei principi che governano la causalità omissiva in campo civile, vi sia, alla luce delle circostanze concrete, la possibilità di risarcire la perdita di una chance di maggior sopravvivenza ad una malattia pregressa qualora la medesima sia comunque irreversibile, dovendosi rilevare che, per consolidata giurisprudenza, la chance costituisce un bene della vita la cui lesione può dare luogo a responsabilità risarcitoria (in tale senso si è pronunziata la giurisprudenza di legittimità proprio con riferimento ad un caso di responsabilità sanitaria – Cass. civ., sez. III, sent. n. 23846 del 18.9.2008).

La stessa giurisprudenza ha pure chiarito che quando il fatto illecito non è la causa della morte in sé, ma solo della morte in quella data e non successivamente, il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale in favore degli aventi diritto, non potrà che investire detta anticipazione della morte, ed avere quindi come termine di riferimento il lasso di tempo intercorrente tra la data in cui l’evento si è effettivamente verificato e quello in cui si sarebbe presumibilmente verificato se il fatto illecito acceleratore dei fattori patogenetici preesistenti non vi fosse stato (cfr. Cass. n. 5962/00; Cass. 7195/2014).

Il risarcimento

Nel ricorso introduttivo gli attori hanno chiesto il risarcimento dei danni iure hereditatis (rappresentati dal danno biologico (legato alla degenza in ospedale, all’intervento infausto ed alla conseguente morte) e dal danno morale (dovuto alle sofferenze ingiustamente patite) subiti dalla sig.ra Ma.Ri.) ed il risarcimento del danno morale subito iure proprio e derivante dalle sofferenze patite dai medesimi per la degenza del proprio congiunto, per la sua morte, per la perdita della comunione della vita e degli affetti nonché il danno patrimoniale rappresentato dalle spese funerarie.

In prima memoria ex art. 183 c.p.c., VI comma, il sig. Ma.St. rispondendo alle puntualizzazioni della convenuta in merito alla sua non qualifica di erede ha specificato la domanda limitandosi a richiedere il risarcimento non iure hereditatis bensì iure proprio.

Pertanto, in via preliminare devono essere esaminate le questioni in rito, sollevata dalla struttura sanitaria convenuta di inammissibilità della modifica della domanda svolta dal sig. Ma. e di inammissibilità della domanda di risarcimento del danno da perdita di chances asseritamente mai formulata in maniera espressa e specifica.

Le eccezioni devono essere disattese.

Quanto alla prima la specificazione della domanda del ricorrente Ma.St. è un minus rispetto alla più ampia svolta in ricorso attenendo alla mera qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, o meglio alla disciplina a tale fatto applicabile, e pertanto non rappresenta domanda nuova né rinuncia valutabile ai fini della statuizione alla condanna alle spese per come richiesto dalla struttura convenuta.

Quanto alla seconda si osserva come nella fattispecie qui in esame gli odierni attori nelle conclusioni del ricorso introduttivo hanno domandato il “risarcimento iure hereditatis …dei danni non patrimoniali tutti patiti dalla de cuius, non chè al risarcimento iure proprio”.

Nell’esaminare tale domanda, deve considerarsi che essa attiene a diritti di credito, vale a dire diritti cc.dd. eterodeterminati, la cui individuazione passa necessariamente per la puntuale delimitazione anche della loro causa petendi, oltre che del loro petitum, attesa la vigenza nel nostro ordinamento del principio dispositivo e del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Tale individuazione e delimitazione viene precisamente svolta da parte attrice nel proprio atto introduttivo laddove si deduce che “la sig.ra Ma. ha vissuto un lasso di tempo considerevole tra il danno evento e l’exitus come possa considerarsi risarcibile la perdita di chances di vita, bene ad ogni effetto già esistente nel “patrimonio” del soggetto prima della sua morte” (pag. 14); inoltre, dopo vari riferimenti alla giurisprudenza di merito e legittimità ha concluso “Dopodichè tale valore può essere adattato al caso di specie, considerando l’aspettativa di vita e le altre circostanze concomitanti”.

Il quadro delle allegazioni offerto dagli attori risulta quindi essere esaustivo ai fini dell’individuazione delle domande del presente giudizio e delle ragioni a loro fondamento.

Per quanto sintetica l’espressione che nelle conclusioni del ricorso viene utilizzata richiamando genericamente i “danni non patrimoniali tutti”, non può per questo considerarsi il danno da perdita di chances non contenuto fin dall’origine nelle domande degli attori, poiché specificato nella parte narrativa della citazione. Si richiama, sul punto, il precedenti giurisprudenziale di Cass. civ. sent. n. 17023/2003 nel quale si afferma che: “l’identificazione dell’oggetto della domanda va operata avendo riguardo all’insieme delle indicazioni contenute nell’atto di citazione e dei documenti ad esso allegati”.

Conseguentemente anche questa eccezione deve essere disattesa.

Ancora deve rilevarsi come ai fini dell’attribuzione delle quote relative al richiesto risarcimento iure hereditatis dovrà tenersi conto comunque della disposizione testamentaria e delle norme relative alla successione ereditaria qualora il de cuius muoia senza discendenti né coniuge; risulta documentalmente provato come la sig.ra Ri.Ma. con proprio testamento olografo, pubblicato in data 26.03.2012, abbia designato quale sua erede l’attuale attrice Lu.Ma.

Pertanto, in considerazione dell’assunto per il quale qualsiasi disposizioni testamentaria non potrà mai pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari, il problema si sposta semplicemente sul quantum del risarcimento spettante alla sig.ra Malandrini con riferimento proprio alla quota di legittima a lei spettante pari ad 1/3.

I danni

Le sig.re Ma. e Me. agiscono, in questa sede, per il risarcimento, jure hereditaris, del danno da perdita di chances nonché del danno cd. biologico terminale.

Quanto al danno da perdita di chances si è già scritto.

Con riferimento al danno biologico si rammenta preliminarmente che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, in caso di morte di un soggetto cagionata dal fatto illecito altrui, i congiunti del defunto acquistano iure hereditatis il diritto al risarcimento del danno biologico sofferto dal proprio dante causa limitatamente ai soli danni verificatisi tra il momento dell’illecito e quello del decesso, qualora i due momenti siano separati da un apprezzabile lasso di tempo.

Laddove sia configurabile il suddetto danno lo stesso andrà liquidato, secondo i più recenti arresti giurisprudenziali, in relazione alla menomazione dell’integrità fisica patita dal danneggiato dal momento di verificazione dell’illecito sino al decesso e pertanto andrà commisurato “soltanto all’inabilità temporanea, adeguano tuttavia la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita anzi, nella morte” (Cass. 15941/2014); tale danno biologico terminale, che è sempre presente a prescindere dallo stato di coscienza del soggetto leso (Sentenza n. 21060 del 19/10/2016), va liquidato, quanto meno, negli importi previsti dalle tabelle relative alla invalidità temporanea assoluta. Al danno terminale, come noto, può sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofico) che, integrando un danno non patrimoniale di natura affatto peculiare, comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro, ancorché sempre puntualmente correlato alle circostanze del caso, che sappia tener conto della enormità del pregiudizio (Cass. 23183/14; Cass. 18163/07; Cass. 1877/06).

Ciò posto, e venendo dunque al merito della fattispecie, si deve rilevare come la C.T.U. dott.ssa Gr. è giunta alla conclusione il comportamento dei sanitari dell’azienda ospedaliera convenuta, per le motivazioni sopra riportate, abbia assolutamente ridotto le chances di sopravvivenza della paziente per i mesi o anni a venire; è quindi possibile affermare che l’evento – morte non si sarebbe verificato con tale tempistica se non vi fosse stata una condotta negligente ed imperita dei sanitari. In conclusione, si può però dire che la paziente ha perso, per effetto dell’inadempimento sopra accertato, delle chances che statisticamente aveva, quanto meno di godere di una più lunga sopravvivenza. Conseguentemente trova accoglimento la domanda risarcitoria avanzata dalle sig.re Ma.Lu. e Ma.Ma. a titolo ereditario per la perdita di tali chances di una qualitativamente migliore e/o quantitativamente maggiore sopravvivenza della sorella e figlia.

Orbene, nel caso di specie, nel procedere alla liquidazione dei danni si terrà in debito conto: dello stato di salute complessivo della sig.ra Ma.Ri., come sopra puntualmente analizzato ed aggravato da plurime complicanze; dell’età della paziente (48 anni); delle possibilità di sopravvivenza della paziente quantificato dal CTU in senso assoluto seppur senza precisa puntualizzazione in ordine al tempo (mesi o massimo 3 anni); del non trascurabile arco di tempo tra la data dell’insorgenza della patologia (stravaso del Cloruro di calcio) e la data del decesso (oltre 3 mesi) durante il quale la paziente è stata sottoposta ad amputazione dell’arto superiore sn, fattori che ulteriormente hanno accelerato il peggioramento del suo quadro clinico.

Nel caso di specie risulta documentalmente che la sig.ra Ma. trascorse oltre tre mesi in agonia con progressivo peggioramento delle condizioni fisiche dal momento del ricovero al momento della morte.

Si riporta quindi quanto già osservato in merito alle conclusioni del CTU dott.ssa Gr. per la quale “In seguito alla condotta colposa da parte del personale infermieristico della Terapia Intensiva di Emergenza Anestesia e Rianimazione della AOUC, conseguente allo stravaso di calcio di Cloruro, (solo in questa sede faticosamente identificato in calcio cloruro, in quanto mai nelle cartelle cliniche si è segnalata la vera origine, pur conoscendola consapevolmente, in cui si è indicato solo un generico termine di “stravaso di farmaco”. Infatti il 12.11.2011 alle 12.56 era segnalato soltanto una lesione cutanea con ematoma di probabile stravaso di liquidi considera come probabile allergia o reazione al cerotto – medicazione in paziente con fragilità cutanea, mentre si era in una emergenza medica vera e propria) ne è derivato uno stato di malattia, causato dallo stravaso di calcio di cloruro, che ha auto una durata dal 11.11.2011 fino al 27.2.2012 data della morte avvenuta 17 giorni dopo l’intervento di amputazione dell’arto superiore sn. Uno stato di malattia che civilmente si traduce come inabilità temporanea assoluta di gg. 108. Il danno biologico quale menomazione dell’integrità psicofisica derivante dallo stravaso di calcio di cloruro e costituito da esiti di amputazione dell’arto superiore sn è da valutarsi nella misura del 60% …”.

Ciò posto, per la liquidazione concreta, il giudice ritiene di dover ricordare che il valore complessivo (100%) del benessere psico-fisico di una donna di 48 anni (tale l’età della Ma. nel 2011 quando si ebbe il danno) è stimato dalle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano per il risarcimento del danno alla salute in Euro 932.807,00: non si sta qui confondendo il diritto alla salute con quello alla vita, ma, come ovvio, ai peculiari fini dell’esercizio del potere equitativo di liquidazione di un danno come quello in esame, si tratta del miglior e più pertinente valore equitativo disponibile che possa utilmente fungere da dato di partenza.

La Ma., peraltro, non possedeva certo, al momento dell’errore medico, un pieno benessere psico – fisico del 100%, essendo stata sottoposta a dialisi sin dall’età di 19 anni ed essendo affetta da grave insufficienza renale V stadio (cioè ultimo stadio detto anche di insufficienza renale “terminale”), e da Lupus Erimatoso Sistemico da circa 20 anni (pag. 45 CTU) ed inoltre ha subito l’amputazione di un arto superiore; tali condizioni, stante la valutazione medico – legale specifica da parte del c.t.u., hanno pesato in misura del 60% sulla salute della Ma.

La predetta somma va dunque abbattuta a Euro 373.122,80.

Si tratta, però, ancora di un dato non direttamente utilizzabile, perché esso esprime, per equivalente, il valore del benessere del quale la Ma. avrebbe potuto fruire se, con certezza, fosse vissuto per altri 35 anni circa, ossia sino al limite della vita media di una donna (http://www.salute.gov.it).

Nel presente caso, peraltro, non si tratta di risarcire la reale diminuzione di quel periodo di vita, bensì la perdita della possibilità che esso si avverasse.

Tale possibilità è stimata dal c.t.u. in massimo tre anni così che la predetta somma va corrispondentemente abbattuta a Euro 31.981.95 (Euro 373.122,80: 35 anni x 3 anni di vita residua).

Su tale somma liquidata in valori attuali, spettano gli interessi compensativi al tasso legale dal giorno del decesso (27 febbraio 2012), calcolati sulla somma svalutata a tale data e via via rivalutata anno per anno secondo gli indici Istat fino alla data di pubblicazione della presente sentenza.

Deve, inoltre, essere riconosciuto il danno da invalidità temporanea come fissato dalle tabelle di Milano per il periodo intercorrente fra lo stravaso, e quindi il verificarsi del danno, e l’amputazione, il ristoro può essere quantificato nella somma complessiva Euro 15.660,00 (108 giorni di ITT x Euro 145,00) considerando l’importo massimo proprio vista l’estrema intensità ed entità di tale danno che è esitato nel decesso.

Su tale somma liquidata in valori attuali, spettano gli interessi compensativi al tasso legale dal giorno del decesso (27 febbraio 2012), calcolati sulla somma svalutata a tale data e via via rivalutata anno per anno secondo gli indici Istat fino alla data di pubblicazione della presente sentenza.

Gli importi sopra quantificati sono suscettibili di ripartizione tra le eredi legittime nella misura di 2/3 in favore della sig.ra Ma. e di 1/3 in favore della sig.ra Me.

Viene poi in rilievo il c.d. danno da perdita del rapporto parentale, per come richiesto da tutti gli attori, poiché la perdita di un prossimo congiunto viola un diritto giuridicamente tutelato, la cui lesione è meritevole di risarcimento: la stessa natura del vincolo che unisce i componenti della famiglia nucleare giustifica il diritto al risarcimento del danno morale, in virtù di una presunzione, rilevante ex art. 2727 c.c.

Più nello specifico, tale danno va al di là del dolore che la morte in sé di una persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nell’impossibilità di potere godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno; pertanto, avuto riguardo ai criteri delineati dalla giurisprudenza di legittimità, è compito del giudice del merito accertare in concreto la consistenza dei rapporti familiari, al fine di graduare il risarcimento del danno in funzione dell’intensità del legame. E’ evidente che un tale vaglio prescinde dall’intimo legame affettivo, dovendosi basare su riscontri di carattere oggettivo che nella fattispecie in esame non è stato possibile accertare dal momento che sul punto parte attrice non ha richiesto istruttoria né in ricorso né nella memoria a ciò deputata (II memoria ex art. 183 c.p.c., VI comma) neanche depositata.

Nel caso di specie, va tenuto in debito conto, come appurato nella ctu, che lo stadio generale di salute della sig.ra Ma. al momento del ricovero presso l’ente ospedaliero, non fosse ottimale, ed anzi fortemente compromesso; sicché, in assenza di prova sul punto, tenuto conto anche della sua età e delle speranze di vita futura alquanto limitate, nonché della circostanza ammessa in ricorso che la medesima fosse andata via di casa all’età di 18 anni, la quantificazione del danno da perdita parentale va operata in via equitativa ex artt. 1226 e 2056 c.c. a prescindere dalla prescrizioni previste dalle Tabelle di Milano, applicabili nella diversa ipotesi, qui non ricorrente, in cui la morte si ponga in collegamento eziologico diretto con il fatto illecito. Tali valori risultano inutilizzabili nel caso di specie sia in ragione della necessità di ridurre in forte misura i valori esposti in applicazione dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in tema di perdita di chance, sia in ragione della circostanza che paziente non avrebbe mai raggiunto i livelli medi di aspettativa di vita stante lo stato di salute altamente compromesso, sicché risulta sommamente difficile individuare in che misura si sia concretizzata la lesione della sua ulteriore aspettativa di vita.

Si ritiene pertanto rispondente ad equità riconoscere;

a) alla madre la somma complessiva di Euro 20.000,00;

b) alla sorella, stante comunque l’intimo valore affettivo desumibile dal tenore del testamento, la somma complessiva di Euro 50.000,00

c) al fratello la somma complessiva di Euro 8.000,00.

Tale somma, riconosciuta a titolo di danno non patrimoniale connesso alla perdita del rapporto parentale è comprensiva oggi di ogni pregiudizio esistenziale e morale connesso a tale lesione (Cass. Sez. Unite, 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974 e 26975; Cass. civ., Sez. lavoro, 18 gennaio 2011, n. 1072).

Sulle complessive somme (Euro 78.000,00), liquidate ai valori attuali, spettano i soli interessi dal giorno del decesso (27 febbraio 2012), calcolati sulla sorte capitale svalutata a tale data e via via rivalutata anno per anno secondo gli indici Istat fino alla data del deposito della presente sentenza.

Non possono riconoscersi alla sig.ra Ma. Lucia, a titolo di danno patrimoniale, le spese funerarie sostenute direttamente, in quanto seppur genericamente dedotte sin dal ricorso introduttivo non sono state provate nell’effettivo esborso e nel quantum.

Le spese di lite

Le spese processuali seguono la soccombenza e devono essere liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale ordinario di Firenze, seconda sezione civile, definitivamente pronunciando assorbita ogni altra eccezione deduzione e domanda:

– condanna la Azienda Ospedaliero – Universitaria Careggi al pagamento della somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale iure heditatis: a favore della sig.ra Ma.Ma. di Euro 10.660,95 (per perdita di chance) e di Euro 5.220,00 (danno terminale) nonché a favore della sig.ra Ma.Lu. di Euro 21.321,30 (per perdita di chance) e di Euro 10.440,00 (danno terminale) importi tutti su cui devono calcolarsi gli interessi compensativi al tasso legale dal giorno del decesso (27 febbraio 2012), calcolati sulla somma svalutata a tale data e via via rivalutata anno per anno secondo gli indici Istat fino alla data di pubblicazione della presente sentenza;

– condanna la Azienda Ospedaliero – Universitaria Careggi al pagamento della somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio a favore; della sig.ra Ma.Ma. di Euro 20.000,00, della sig.ra Lu.Ma. di Euro 50.000,00 e del sig. St.Ma. di Euro 8.000,00 importi tutti su cui devono calcolarsi gli interessi compensativi al tasso legale dal giorno del decesso (27 febbraio 2012), calcolati sulla somma svalutata a tale data e via via rivalutata anno per anno secondo gli indici Istat fino alla data di pubblicazione della presente sentenza;

– liquida le spese del presente giudizio in Euro 12.000,00 oltre spese generali, accessori di legge e spese vive (contributo unificato, bollo, spese notifica e CTP) che, pone a carico della convenuta Azienda Ospedaliero – Universitaria Careggi in favore di parte attrice.

Così deciso in Firenze il 27 settembre 2018.

Depositata in Cancelleria il 28 settembre 2018.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.