Sul punto, deve escludersi che nell’ammortamento con rata costante e rimborso graduale del capitale vi possa essere l’applicazione di interessi anatocistici, in quanto tale fenomeno può sussistere e si avrebbe “interesse composto” soltanto se gli interessi maturati sul debito in un dato periodo si aggiungono al capitale, andando così a costituire la base di calcolo, ossia il capitale produttivo di interessi, del periodo successivo e così via. Questo non si verifica nell’ammortamento a rata costante perché:
1) gli interessi di ciascun periodo vengono calcolati su una base formata dal solo capitale residuo;
2) alla scadenza della rata gli interessi maturati non vengono capitalizzati, ma sono pagati come quota interessi nella rata di rimborso, laddove tale pagamento periodico della totalità degli interessi costituisce elemento essenziale e caratterizzante, in particolare dell’ammortamento francese dove la rata è costante e la quota capitale rimborsata è determinata per differenza rispetto alla quota interessi;
3) il pagamento a scadenza del periodo riduce il capitale produttivo di interessi nel periodo successivo e quindi si verifica un fenomeno addirittura inverso rispetto alla capitalizzazione;
4) la produzione di interessi su interessi scaduti può verificarsi soltanto con riguardo agli interessi moratori maturati sulla quota degli interessi corrispettivi compresi nella rata scaduta, qualora resti insoluta, ma trattasi in questo caso di un’ipotesi di capitalizzazione consentita dall’art. 3 della Del.CICR 9 febbraio 2000, in deroga all’art. 1283 c.c.
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Tribunale Treviso, Sezione 2 civile Sentenza 28 febbraio 2019, n. 479
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI TREVISO – SECONDA SEZIONE CIVILE
in composizione monocratica, nella persona del giudice dott.ssa Petra Uliana,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile n. 2080/2016 promossa con atto di citazione da:
(…) SRL e da (…), con l’avv.to DE.GI. del Foro di Roma ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avv.to DA.SA. in Treviso;
attori
contro
(…) SPA, con l’avv.to BA.LO. del Foro di Venezia; RE.PI. del Foro di Modena e VI.MA. del Foro di Treviso, presso il cui studio ha eletto domicilio;
convenuta
OGGETTO: leasing;
FATTO E DIRITTO
Con atto di citazione ritualmente notificato, (…) SRL in persona del legale rappresentante (…) e (…) in proprio hanno convenuto in giudizio, avanti al Tribunale di Treviso, (…) spa, chiedendo, in via principale, di condannare la convenuta alla restituzione di tutti i canoni corrisposti, oltre interessi, pari ad Euro 541.880,70 in applicazione dell’art. 1526 c.c.; in subordine, di condannare la società di leasing alla restituzione degli interessi pagati, previo accertamento della loro usurarietà; in ulteriore subordine di condannare la convenuta alla restituzione della somma di Euro 84.129,58 per effetto dell’applicazione dell’art. 117 TUB per nullità della clausola di determinazione del tasso di interesse; tutto oltre alla condanna al risarcimento del danno.
(…) si è costituita in giudizio, deducendo che, a fronte del corrispettivo pattuito nel contratto di leasing di Euro 1.44.875,12 oltre IVA e del rilascio di apposita fideiussione da parte di (…), la società (…) SRL aveva omesso il pagamento di diversi canoni.
La società di leasing aveva, quindi, comunicato di avvalersi della clausola risolutiva espressa prevista nel contratto, dichiarando la risoluzione del rapporto e chiedendo il rilascio dell’immobile e il pagamento degli importi dovuti. Stante l’inerzia dell’utilizzatrice, (…) ha provveduto a depositare apposito ricorso cautelare volto alla restituzione del bene, domanda accolta dal Tribunale. In esecuzione del provvedimento, l’immobile veniva restituito in data 19/12/2013 a (…).
La convenuta ha chiesto il rigetto delle domande attoree, affermando la legittimità della risoluzione contrattuale, l’applicabilità al caso di specie dell’art. 72 quater l.f. e il diritto della concedente di trattenere i canoni corrisposti, stante la prerogativa della società di leasing di ottenere un equo compenso per l’uso della cosa. La società ha chiesto in vai subordinata riconvenzionale la condanna della società attrice al pagamento di una somma a titolo di equo compenso per l’uso della cosa e al risarcimento del danno ex art. 1526 c.c.
(…) ha altresì precisato di vantare un credito complessivo di Euro 660.395,60 e dichiarato di riservarsi la facoltà di agire per il pagamento delle somme all’esito della riallocazione del bene. In punto usura, la società concedente ha affermato di aver pattuito sia il tasso corrispettivo che quello moratorio entro le soglie previste dal decreto ministeriale di riferimento e di non aver mai chiesto il pagamento di interessi di mora.
Assegnati i termini per il deposito delle memorie di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c., il G.I. ha disposto consulenza tecnica volta a determinare il valore locativo e di mercato del bene.
La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza del 22/11/2018, con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c.
In via preliminare va dichiara l’inammissibilità della domanda di accertamento della nullità del contratto di fideiussione stipulato da (…) per essere stata proposta tardivamente, nella sola memoria conclusionale. Nell’atto introduttivo, oltre a non esserci traccia della domanda, non vi era neppure alcuna deduzione circa l’avvenuto rilascio di una fideiussione da parte di (…).
Sempre in via preliminare, va accertato il legittimo esercizio della facoltà di scioglimento prevista dalla clausola risolutiva espressa.
La clausola di cui all’art. 17 delle condizioni generali di contratto è valida, rivestendo forma scritta ed essendo state indicate specificamente le obbligazioni che, ove inadempiute, avrebbero comportano la risoluzione del contratto. La diffida, atto unilaterale recettizio avente natura negoziale, è stata ritualmente effettuata.
(…) assume di essere creditrice della complessiva somma di Euro 660.395,60 a titolo di canoni scaduti e a scadere in forza della clausola penale. L’art. 17 delle condizioni generali di contratto prevede che, in caso di anticipata risoluzione del contratto, il danno debba essere determinato nei canoni a scadere attualizzati, maggiorati dell’opzione di acquisto, importo dal quale deve essere decurtato quello ricavato dalla vendita a terzi dell’immobile.
La Corte di Cassazione, nella nota sent. n. 888/2014, affrontando un caso del tutto analogo, ha affermato che
“le clausole contrattuali che attribuiscano alla società concedente il diritto di recuperare, nel caso di inadempimento dell’utilizzatore, l’intero importo del finanziamento ed in più la proprietà e il possesso dell’immobile, attribuiscono alla società stessa vantaggi maggiori di quelli che essa aveva il diritto di attendersi dalla regolare esecuzione del contratto, venendo a configurare gli estremi della penale manifestamente eccessiva rispetto all’interesse del creditore all’adempimento, di cui all’art. 1384 cod. civ. (Cass. civ. Sez. 3, 13 gennaio 2005 n. 574; Idem, 2 marzo 2007 n. 4969; Idem, 27 settembre 2011 n. 19732, ed altre)”.
La pronuncia si è soffermata sul sindacato che deve essere svolto dal giudice, il quale, nel valutare se la penale sia manifestamente eccessiva, è tenuto a comparare il vantaggio che assicura al contraente adempiente con il margine di guadagno che egli si riprometteva legittimamente di trarre dalla regolare esecuzione del contratto.
La Corte ha specificato che, al fine di evitare che clausole penali del tipo di quella in oggetto attribuiscano al concedente vantaggi eccessivi, “occorre che sia specificamente attribuito all’utilizzatore – una volta restituito l’intero importo del finanziamento – (…) il diritto di imputare il valore dell’immobile alla somma dovuta in restituzione delle rate a scadere, ove le parti cosi preferiscano: sempre che le relative decisioni e scelte siano concordate e non rimesse all’arbitrio dell’una o dell’altra di esse”.
La clausola di cui all’art. 17 è valida ove interpretata alla luce del principio di conservazione degli atti giuridici, ovvero a condizione che essa sia intesa nel senso che il prezzo di realizzo dell’immobile sia pari al valore di mercato del bene. Solo in questi termini il meccanismo congeniato è idoneo a porre la concedente nella stessa situazione nella quale si sarebbe trovata se l’utilizzatore avesse esattamente adempiuto.
Considerato che, in conseguenza della riacquistata disponibilità dell’immobile, la società finanziaria ha la possibilità di reimpiegarlo, essa ha il diritto di pretendere a titolo risarcitorio la differenza tra l’intero corrispettivo contrattuale e il valore del bene, secondo i prezzi correnti al tempo della liquidazione.
Come ribadito nella sentenza n. 2538 del 09/02/2016 della Corte di Cassazione, l’art. 72 quater l.fall., trova applicazione solo nel caso in cui il contratto di leasing sia pendente al momento del fallimento dell’utilizzatore, mentre, ove si sia già anteriormente risolto, occorre distinguere a seconda che si tratti di leasing finanziario o traslativo, dovendosi per quest’ultimo utilizzare, in via analogica, l’art. 1526 c.c. (così anche Cass. n. 8110/2017).
Va quindi affermata l’applicazione analogica dell’art. 1526 c.c., il quale è però soggetto ad adeguamenti e a temperamenti, in considerazione del fatto che, mentre nella vendita con riserva di proprietà, nel caso di inadempimento dell’acquirente, il venditore soddisfa il suo principale interesse con il recupero del bene, nel leasing la riconsegna dell’immobile è insufficiente quale risarcimento del danno, ove la restituzione dell’immobile non segua e il valore dell’immobile non valga a coprire l’intero importo (v. Cass. sent. n. 888/2014).
Il legislatore del 2017 si è posto nel solco del citato orientamento, stabilendo nella l. 124: “138. In caso di risoluzione del contratto per l’inadempimento dell’utilizzatore ai sensi del comma 137, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotta la somma pari all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, nonché le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita. Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti dell’utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene è inferiore all’ammontare dell’importo dovuto dall’utilizzatore a norma del periodo precedente. 139. Ai fini di cui al comma 138, il concedente procede alla vendita o ricollocazione del bene sulla base dei valori risultanti da pubbliche rilevazioni di mercato elaborate da soggetti specializzati”.
Dalla disposizione in esame si ricava che, nel valutare il vantaggio che la società di leasing si aspettava di ricavare, deve essere preso in considerazione anche il prezzo pattuito per l’acquisto del bene. Ciò è conforme alla causa del contratto di leasing traslativo, che si caratterizza per essere finalizzato al trasferimento del bene.
Alla luce delle suesposte argomentazioni, avuto riguardo al corrispettivo complessivamente pattuito, al prezzo per l’esercizio del diritto di opzione e ai risultati della CTU disposta, che ha quantificato in Euro 322.280 il valore di presumibile realizzo del bene, va dichiarato che la società utilizzatrice non ha il diritto alla restituzione dei canoni versati.
L’applicazione nel caso di specie dell’art. 1526 c.c. comporta che il diritto al compenso per l’uso del bene in capo alla società di leasing estingua qualsivoglia pretesa creditoria dell’utilizzatore, tenuto altresì conto che il relativamente modesto valore residuo del bene va fatto dipendere dall’incuria serbata dall’utilizzatore, il quale come è emerso dalla consulenza disposta, ha reso l’immobile inidoneo all’insediamento di alcuna unità produttiva al suo interno.
Il CTU ha evidenziato che, al momento della perizia, l’immobile presentava evidenti necessità di manutenzione sia ordinaria che straordinaria (piove all’intero del fabbricato). Sul punto va osservato che non vi è prova che l’utilizzatore avesse provveduto a comunicare al proprietario la necessità di effettuare gli interventi in questione, né che li avesse eseguiti in proprio, con conseguente ulteriore deterioramento dello stato dei luoghi.
L’Ausiliario ha sottolineato che in data 5/10/2007 fu presentata domanda per il rilascio del certificato di agibilità dell’immobile e che a quell’epoca l’immobile era già detenuto dall’utilizzatrice in forza di contratto di locazione con la precedente proprietà.
Avendo la società attrice mantenuto la detenzione dei locali senza soluzione di continuità, dapprima quale conduttore, poi dal 23/11/2007 quale utilizzatore, è evidente che il degrado dell’immobile, certamente assente al momento del rilascio del certificato di agibilità, è da imputare alla gestione del bene da parte della società (…) SRL.
Per fugare ogni dubbio circa l’insussistenza di un indebito arricchimento della società di leasing, va sottolineato che il valore locativo mensile dell’immobile al momento della stipula del contratto di leasing nel novembre 2007 era pari a circa Euro 5.800, valore quindi prossimo al canone mensile di Euro 6.678,28, oltre IVA, pattuito nel contratto di leasing.
La domanda proposta in via principale va quindi rigettata.
Per quanto riguarda le domande proposte in via subordinata si osserva quanto segue.
In via preliminare va rilevato che l’atto di citazione, la perizia attorea e i successivi scritti sono caratterizzati da un frequenti refusi: le tesi e gli orientamenti giurisprudenziali sono sempre riferiti al contratto di mutuo, giammai al contratto di leasing.
In disparte il rilievo per cui il fideiussore non è legittimato a chiedere la restituzione delle somme, posto che secondo la sua stessa prospettazione egli fa valere i diritti della società utilizzatrice, si osserva che le tesi di parte attrice circa l’usurarietà del tasso è infondata.
Gli atti di parte attrice si limitano al mero assunto dell’usurarietà del tasso di interesse sulla base della tesi che, essendo il cumulo dei tassi di interesse corrispettivo e moratorio superiore al tasso soglia previsto pro tempore nei decreti ministeriali, il contratto sarebbe usurario ab origine, con conseguente applicabilità dell’art. 1815, comma 2, c.c. Parte attrice inoltre, chiede di accertare il carattere anatocistico degli interessi e deduce la nullità del contratto per mancata previsione del TAEG o ISC.
Innanzitutto (…) SRL fa propria la tesi della sommatoria tra il tasso corrispettivo ed il tasso di mora, sotto il profilo della mera somma che andrebbe a verificarsi nella singola rata non pagata. Questa tesi dev’essere senz’altro respinta, essendo frutto di un totale travisamento della sentenza della Corte di Cassazione n. 350/2010, la quale si è limitata a riconoscere che, ai fini della valutazione sull’usurarietà, devono essere considerate tutte le remunerazioni, ivi compresi gli interessi di mora, senza però giungere ad affermare che tale valutazione deve essere effettuata sommando algebricamente i due tassi.
Va poi osservato che, per stessa affermazione di parte attrice, il tasso di mora è stato pattuito in misura pari al tasso soglia all’epoca in vigore, sicché di per sé non è usurario.
In riferimento alle deduzioni articolate da parte attrice circa l’usurarietà degli interessi moratori, mai pagati dall’utilizzatrice, va data continuità all’orientamento che ha sancito l’assoluta irrilevanza degli scenari probabilistici, dovendosi dare rilievo agli interessi moratori e agli oneri eventuali solo se, nella loro concreta applicazione, vi fosse superamento del tasso soglia (Trib Tv, sent. 14/4/2016; Trib Pn, ord. 23/5/2016; Trib. To, sent. n. 2365/2016; Trib Ud. Sent. n. 1441/2017).
Infatti, l’applicazione dell’art. 1815, comma 2, c.c., se implica il computo, nel periodo di mora, di tutti gli interessi che hanno concorso a superare il limite usurario, non comporta che la sanzione della non debenza di alcun interesse si applichi antecedentemente alla messa in mora del debitore, in quanto i soli interessi corrispettivi applicati non presentavano alcun profilo di usurarietà, com’è evidente confrontando il tasso leasing previsto, pari al 7,02%, e il tasso soglia pro tempore vigente (10,23%).
La tesi secondo la quale le modalità di calcolo del canone mensile previste nel contratto determinerebbero un fenomeno anatocistico non è condivisibile ed è stata recepita da un unico, isolatissimo, precedente di merito edito (Trib. Bari 29.10.2008 n. 113 in Resp. civ. e prev. 2009, 5, 1144).
Sul punto, deve escludersi che nell’ammortamento con rata costante e rimborso graduale del capitale vi possa essere l’applicazione di interessi anatocistici, in quanto tale fenomeno può sussistere e si avrebbe “interesse composto” soltanto se gli interessi maturati sul debito in un dato periodo si aggiungono al capitale, andando così a costituire la base di calcolo, ossia il capitale produttivo di interessi, del periodo successivo e così via.
Questo non si verifica nell’ammortamento a rata costante perché:
1) gli interessi di ciascun periodo vengono calcolati su una base formata dal solo capitale residuo;
2) alla scadenza della rata gli interessi maturati non vengono capitalizzati, ma sono pagati come quota interessi nella rata di rimborso, laddove tale pagamento periodico della totalità degli interessi costituisce elemento essenziale e caratterizzante, in particolare dell’ammortamento francese dove la rata è costante e la quota capitale rimborsata è determinata per differenza rispetto alla quota interessi;
3) il pagamento a scadenza del periodo riduce il capitale produttivo di interessi nel periodo successivo e quindi si verifica un fenomeno addirittura inverso rispetto alla capitalizzazione;
4) la produzione di interessi su interessi scaduti può verificarsi soltanto con riguardo agli interessi moratori maturati sulla quota degli interessi corrispettivi compresi nella rata scaduta, qualora resti insoluta, ma trattasi in questo caso di un’ipotesi di capitalizzazione consentita dall’art. 3 della Del.CICR 9 febbraio 2000, in deroga all’art. 1283 c.c.
L’apparente pregiudizio deriva, quindi, non dalla produzione di interessi sugli interessi, ma dalla più lenta riduzione del debito residuo, indotta dalla prioritaria imputazione dei periodici pagamenti agli interessi di tempo in tempo maturati (cfr. Trib. Tv sent. n. 2476/2015 e Trib. Ve ord. 27/11/2014).
La domanda va quindi rigettata.
Pe quanto riguarda la doglianza circa la mancata previsione dell’ISC o TAEG, va osservato che l’attuale normativa prevede l’obbligo della sua indicazione solamente nei contratti sottoscritti dai soggetti consumatori, mentre la società (…) SRL ha sottoscritto il contratto nell’esercizio della propria attività professionale.
Le domande proposte in via subordinata vanno quindi rigettate.
Va dichiarata assorbita la domanda riconvenzionale proposta dalla convenuta, essendo stata formulata in via condizionata all’accoglimento della domanda principale attorea.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo, tenendo conto della nota spese depositata e dei parametri previsti dal D.M. n. 55 del 2014.
P.Q.M.
Il Tribunale di Treviso, definitivamente pronunziando, così provvede:
rigetta le domande proposte da parte attrice;
dichiara assorbita la domanda riconvenzionale formulata dalla convenuta;
condanna (…) SRL e (…) in solido alla rifusione delle spese processuali a favore di parte convenuta, liquidate in Euro 13.400,00 per onorari, al 15% per spese generali, oltre ad I.V.A. e C.P.A. come per legge;
pone definitivamente a carico solidale di (…) SRL e di (…) le spese di CTU come liquidate.
Così deciso in Treviso il 25 febbraio 2019.
Depositata in Cancelleria il 28 febbraio 2019.