davanti all’eccezione di prescrizione della banca – da ritenersi correttamente formulata mediante la mera deduzione della inerzia del titolare, non essendo necessaria la specifica indicazione delle singole rimesse solutorie ritenute prescritte – spetta al correntista dimostrare la natura ripristinatoria delle rimesse, tale da impedire il decorso della prescrizione: in materia di contratto di conto corrente bancario, poiché la decorrenza della prescrizione è condizionata al carattere solutorio, e non meramente ripristinatorio, dei versamenti effettuati dal cliente, essa matura sempre dalla data del pagamento, qualora il conto risulti in passivo e non sia stata concessa al cliente un’apertura di credito, oppure i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento; ne discende che, eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito per decorso del termine decennale dal pagamento, è onere del cliente provare l’esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quel versamento come mero ripristino della disponibilità accordata. Altrettanto indubbio è che tale prova debba essere offerta in giudizio con rigore e non possa ritenersi soddisfatta per via indiretta, o sulla base di vaghe impressioni desunte dall’andamento del rapporto come risultante dagli estratti conto o dai riassunti scalari. È ormai assodato il principio per cui il contratto di apertura di credito, al pari di ogni altro contratto bancario, deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità ai sensi dell’art. 117 TUB. Ora, è ben vero che ai sensi della medesima disposizione il CICR può prevedere, per motivate ragioni tecniche, che particolari contratti possano essere stipulati in forma diversa da quella scritta, ma dalla delibera CICR del 4.3.2003 si ricava che il contratto di apertura di credito è svincolato dal requisito della forma scritta solo ove l’affidamento sia già previsto e disciplinato nel contratto scritto di conto corrente, ciò in quanto “l’intento di agevolare particolari modalità della contrattazione non comporta una radicale soppressione della forma scritta, ma solo una relativa attenuazione della stessa che, in particolare, salvaguardi l’indicazione nel “contratto madre” delle condizioni economiche cui andrà soggetto il “contratto figlio”. Ne consegue che la stipulazione dell’apertura di credito può essere dimostrata solo producendo in giudizio il relativo accordo scritto, completo di tutte le condizioni economiche dell’affidamento, mentre non può essere provata in via indiretta, mediante gli estratti conto, i riassunti scalari o altri indici esteriori incapaci di attestare i contenuti dell’affidamento. La generica sensazione che questi siano stati concessi resta infatti compatibile con la possibilità che le rimesse rilevanti ai fini del decidere siano state eseguite dal cliente extra fido, o fuori delle particolari condizioni presupposte dal fido (ad esempio concesso per sconto di portafoglio commerciale, piuttosto che per elasticità di cassa), assumendo così fisionomia solutoria e, del resto, in tanto può concettualmente configurarsi una funzione ripristinatoria, in quanto il correntista abbia il diritto concretamente tutelabile su basi certe e vincolanti di fruire di una determinata provvista, altrimenti viene soltanto a manifestarsi in via di fatto una tolleranza della banca allo sconfinamento, che non ripristina niente e non rende le rimesse giuridicamente ripristinatorie.
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Corte d’Appello|Firenze|Sezione 2|Civile|Sentenza|11 ottobre 2022| n. 2239
Data udienza 4 ottobre 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE D’APPELLO DI FIRENZE
SEZ. II CIV.
composta dai magistrati:
– dott. Edoardo Enrico Alessandro Monti Presidente rel.
– dott. Ludovico Delle Vergini Consigliere
– dott. Annamaria Loprete Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sull’appello proposto
da
– (…), rappresentato e difeso dall’avv. (…)
– appellante –
contro
– (…) s.p.a. (già (…) s.p.a.), rappresentata e difesa dagli avv.ti (…)
– appellata –
avverso la sentenza n. 595 emessa il 19 settembre 2019 dal Tribunale di Prato; sulle seguenti
CONCLUSIONI
– per l’appellante:
“voglia l’Ill.ma Corte, in riforma dell’impugnata sentenza, accogliere la domanda dell’attrice e, per gli effetti: Nel merito:
accertare e dichiarare che le somme indicate nei saldi dei conti correnti per cui è causa non risultano corrette per i motivi indicati in narrativa, accertando conseguentemente le somme effettivamente risultanti a seguito del corretto calcolo del saldo dei c/c per cui è causa per i motivi indicati in premessa, e condannare conseguentemente la convenuta al pagamento delle somme che risulteranno dovute all’attrice all’esito degli accertamenti sopra indicati, oltre interessi legali dalla domanda, limitando la domanda all’importo di Euro 25.000,00; con vittoria di spese e compensi di entrambi i gradi di giudizio da distrarsi in favore del procuratore antistatario.
In sede istruttoria si chiede ammettersi CTU già richiesta in memoria ex art-183 VI co. N. 2 c.p.c.”.
– per l’appellata:
l’Ill.ma Corte d’Appello di Firenze, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa e reietta Voglia, per i motivi esposti in premessa:
NEL MERITO IN TESI: rigettare l’appello avversario in quanto inammissibile nonché infondato in fatto ed in diritto
NEL MERITO IN IPOTESI: nella denegata ipotesi di riforma della sentenza impugnata accogliere le domande rassegnate nel giudizio di primo grado che rilevano in questa sede e che qui si riportano: “In via preliminare nel merito:
– accertare e dichiarare la prescrizione delle avverse pretese;
– accertare e dichiarare la prescrizione delle avverse pretese nella parte in cui chiedono il riconoscimento in proprio favore di interessi maturati più di un quinquennio prima della notifica dell’atto di citazione e/o dalla diversa data di decorrenza ritenuta di giustizia;
Nel merito in via principale: rigettare le avverse domande in quanto inammissibili nonché infondate in fatto ed in diritto e prescritte. Nel merito in via subordinata: nella denegata ipotesi di accoglimento totale e/o parziale delle avverse domande, limitare il quantum liquidato alla misura che risulterà di giustizia a seguito dell’espletanda istruttoria ed accogliere l’eccezione di compensazione proposta dalla Banca fino alla concorrenza delle somme riconosciute a parte attrice.
Con opposizione in ogni caso a qualsiasi valutazione equitativa degli importi ex adverso richiesti che, pertanto, dovranno essere provati nel loro preciso ammontare.
Con vittoria di competenze e spese di lite”.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 31.1.2017, (…) conveniva dinanzi al Tribunale di Prato la (…) s.p.a. (oggi (…) s.p.a.) deducendo di aver con quest’ultima intrattenuto un rapporto di conto corrente ormai chiuso, in relazione al quale contestava: 1) l’applicazione di tassi usurari e comunque di interessi ultra-legali non pattuiti; 2) l’applicazione di interessi anatocistici in violazione delle condizioni previste nella delibera CICR del 9.2.2000; 3) l’applicazione di valute e spese illegittime, in quanto contra legem e comunque in assenza di una valida pattuizione; 4) l’applicazione della commissione di massimo scoperto (CMS) in assenza di apposita convenzione; 5) la mancanza di prova del saldo iniziale del c/c; ciò premesso, chiedeva la condanna della banca alla restituzione delle somme indebitamente percepite.
Si costituiva in giudizio la (…) eccependo, in via preliminare, la mancanza di prova del fatto costitutivo del credito restitutorio azionato dall’attore, non avendo quest’ultimo prodotto il contratto di conto corrente né quello di apertura di credito e, in secondo luogo, la prescrizione di ogni pretesa avversa collegabile a tutte le rimesse effettuate sul conto nel decennio antecedente alla notifica dell’atto di citazione (quindi fino al 1.2.2007).
Nelle more del giudizio di primo grado la banca CR di Firenze veniva incorporata da (…) s.p.a., che dunque subentrava nella posizione processuale della convenuta; dopodiché, istruita la causa solo in via documentale, il giudice adito con sentenza pubblicata il 19 settembre 2019 si pronunciava come segue: – rilevava l’impossibilità di accertare la regolarità delle pattuizioni stabilite inter partes in mancanza del contratto di conto corrente che era onere della parte attrice produrre in giudizio, considerato che non era stata la banca ad aver attivato un’azione giudiziaria contro il cliente, ma era stato quest’ultimo a domandare in giudizio la restituzione degli importi pagati asserendone la natura indebita;
– riteneva ritualmente formulata l’eccezione di prescrizione sollevata dalla convenuta, anche in assenza di una specifica indicazione delle singole rimesse ritenute prescritte;
– accertava che le lettere del 2.3.2015 e del 16.11.2015 non erano idonee a interrompere il termine prescrizionale del diritto restitutorio, non contenendo alcuna contestazione specifica in ordine alle pretese creditorie e ai fatti costitutivi da porre a fondamento di queste ultime;
– per l’effetto, dato che al 31.12.2006 il conto risultava attivo per Euro 6.224,39, gli addebiti dovevano ritenersi pagati integralmente nel decennio antecedente all’instaurazione del giudizio, con conseguente prescrizione del relativo diritto restitutorio;
– per quanto riguardava invece il residuo periodo analizzato (anno 2007), dalla circostanza che il conto era risultato sostanzialmente attivo in quell’arco temporale il Tribunale traeva la conseguenza della superfluità della CTU richiesta per l’accertamento della natura usuraria degli interessi applicati, anche considerando il fatto che il CTP di parte attrice aveva applicato una formula diversa da quella indicata dalla Banca d’Italia;
– rigettava quindi la domanda di parte attrice, condannandola al pagamento delle spese di lite, liquidate nel complessivo importo di Euro 4.835,00 oltre accessori di legge.
Con atto di citazione in appello del 29 novembre 2019, il soccombente si doleva della decisione e ne chiedeva la riforma in sintesi sulla base dei seguenti motivi. 1) “Errata applicazione delle norme in materia di riparto dell’onere della prova ed errata valutazione delle risultanze istruttorie” (pag. 6 appello), avendo l’attore “contestato che le poste indicate negli estratti conto in atti sono illegittime, in quanto compiute in assenza di valide pattuizioni o comunque contra legem. Onere dell’attore è dunque produrre le annotazioni ritenute illegittime e dimostrare il motivo di tale illegittimità. Le annotazioni sono prodotte negli estratti conto in atti; l’illegittimità discende dalle mancate pattuizioni, vale a dire l’esatto contrario di quanto sostenuto nell’impugnata sentenza” (pag.6, ib.).
2) “Errata applicazione delle norme in materia di prescrizione ed errata valutazione circa la fondatezza dell’eccezione sollevata” (pag.10, ib.), in quanto “l’impugnata sentenza afferma un principio (la sufficienza della contestazione dell’inerzia del titolare ai fini della validità dell’eccezione di prescrizione) che è tuttavia solo una parte del principio espresso dalla Suprema Corte nella sentenza che viene citata. Al riguarda infatti si rileva come la decorrenza del termine decennale parte dalla chiusura del conto per tutte le operazioni ripristinatorie (e in presenza di fido, come nel caso di specie, tutte le operazioni si presumono avere tale natura), mentre dalla singola operazione la prescrizione correrà solo per le rimesse solutorie. Prevenendo l’avversa eccezione, il fido nel caso di specie è dimostrato dall’incontestata tolleranza dell’esposizione debitoria sul conto, così come evidenziato negli estratti in atti e non contestati” (pag. 11, ib.).
3) “L’affermazione secondo la quale la CTU sarebbe superflua perché la CTP non utilizza i criteri di Banca d’Italia è contestata. Infatti, non solo detti criteri potranno essere utilizzati soltanto quando non saranno contra legem (e la CTU evidenzia per quale motivo gli stessi possano essere ritenuti, invece, contra legem), ma soprattutto non è escluso che con detti criteri l’usura non sia comunque rilevata: solo una CTU potrebbe dar riposta al quesito” (pag. 14, ib.).
Banca (…) si costituiva anche nel giudizio di appello, eccependo in via preliminare l’inammissibilità ai sensi dell’art. 342 c.p.c. del gravame, che contestava anche nel merito, chiedendone il rigetto integrale con vittoria di spese anche del secondo grado.
Senza svolgimento di alcuna attività istruttoria, disposta per l’udienza del 24 maggio 2022 la trattazione scritta del procedimento a norma dell’art. 83 comma 7 lett. H del D.L. n. 18/2020 convertito in legge n. 27/2020 e successive modificazioni, la causa veniva trattenuta in decisione sulle conclusioni riportate in epigrafe e discussa all’odierna camera di consiglio dopo la decorrenza dei termini concessi per il deposito delle difese conclusionali.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Va preliminarmente respinta l’eccezione di inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 342 c.p.c.. Tale norma, pur dopo la novella del 2012, richiede all’appellante, al pari di quanto già avveniva nel vigore della precedente formulazione, di articolare i motivi di gravame in una parte volitiva – vale a dire l’individuazione dell’oggetto e della latitudine della cognizione devoluta al giudice di appello – ed una parte argomentativa – vale a dire l’esposizione delle ragioni di erroneità di ciascuna delle statuizioni impugnate. Tuttavia, è ormai pacifico in giurisprudenza che, da un lato, la specificità delle censure rivolte alla sentenza impugnata deve proporzionarsi all’ampiezza ed alla specificità della motivazione della stessa (cfr. ex multis Cass. S.U. n. 27199/2017) e, d’altro lato, “ai fini della specificità dei motivi d’appello richiesta dall’art. 342 c.p.c., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, non essendo necessaria l’allegazione di profili fattuali e giuridici aggiuntivi, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice” (Cass. n. 23781/2020).
Nella specie il gravame è stato proposto nel sostanziale rispetto delle prescrizioni di legge come chiarite in via pretoria, risultando indicate in maniera comprensibile le ragioni di doglianza, come sopra accennate, unitamente alle modifiche richieste, col corredo di un apparato argomentativo proporzionato all’ampiezza e al grado di approfondimento raggiunto nella corrispondente parte della sentenza gravata.
2. Passando al merito, con il primo motivo di gravame l’appellante si duole dell’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto la domanda non adeguatamente provata, non avendo il correntista/attore adempiuto l’onere di produrre in giudizio il contratto costitutivo del rapporto di conto corrente controverso, così impendendo la verifica della validità delle pattuizioni vigenti tra le parti. Deduce in proposito l’appellante di avere “contestato che le poste indicate negli estratti conto in atti sono illegittime, in quanto compiute in assenza di valide pattuizioni o comunque contra legem. Onere dell’attore è dunque produrre le annotazioni ritenute illegittime e dimostrare il motivo di tale illegittimità (…) Provata dunque l’esistenza del rapporto, indubitabile in forza degli estratti conto depositati e comunque mai contestata da controparte, e provata la sussistenza di addebiti per interessi al tasso ultra-legale, per commissioni di varia natura, applicazione di anatocismo, variazioni unilaterali e valute fittizie (…) diventa onere di chi ha compiuto tali addebiti dimostrare la legittimità in forza di un contratto sottoscritto, perché la illegittimità discende dall’assenza di un contratto che determina le relative pattuizioni” (pagg. 6-7 atto di appello).
Il motivo è infondato, avendo il giudice di prime cure fatto buon governo dell’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di riparto dell’onere probatorio nell’ambito dell’azione di ripetizione dell’indebito promossa dal correntista. L’attore/appellante ha fatto valere in giudizio la nullità, non già dell’intero contratto di conto corrente per mancanza di forma scritta, ma solo di specifiche clausole contrattuali, assumendone la natura indeterminata o l’assenza di pattuizioni specifiche e domandando per l’effetto la restituzione di quanto indebitamente percepito dalla banca, come risulta con tutta chiarezza dal punto riepilogativo posto al termine dell’atto introduttivo del giudizio di prime cure, che di seguito si riporta: “riassumendo, dunque, abbiamo
1) nullità di ogni addebito per interessi, commissioni ed oneri stante il superamento del tasso soglia usurario;
2) nullità dell’applicazione di interessi ultra-legali stante la mancanza di valida pattuizione e/o loro indeterminatezza per variazioni non approvate durante il rapporto;
3) illegittima applicazione di CMS stante la mancanza della relativa clausola e comunque la sua indeterminatezza;
4) illegittima applicazione di interessi anatocistici, stante la mancata pattuizione dei medesimi e comunque il mancato rispetto delle condizioni di legge per la loro applicazione;
5) illegittima applicazione del regime delle valute, stante la mancanza di una loro pattuizione al riguardo; 6) mancata prova del credito reclamato nel saldo dei c/c” (pag. 6).
Per l’effetto chiedeva al Tribunale di “accertare e dichiarare che le somme indicate nei saldi di conti correnti per cui è causa non risultano corrette (…) e condannare conseguentemente la convenuta al pagamento delle somme che risulteranno dovute all’attrice”; di identico tenore sono le richieste formulate a mezzo del presente gravame. La domanda giudiziale svolta dal (…) consiste dunque in un’azione di ripetizione ex art. 2033 c.c. fondata sull’asserita nullità parziale e non totale del contratto di conto corrente n. 187/00, che implicitamente egli ammette essere stato stipulato in forma idonea, sicché eventuali nullità parziali possono essere, sì, rilevate anche d’ufficio, ma solo ove il contenuto viziato emerga dagli atti di causa, non potendo la mancata produzione del contratto equivalere alla sua nullità totale per carenza di forma (come già affermato da questa Corte nell’ordinanza dell’11.2.2022), come erroneamente vorrebbe la difesa appellante.
Ne deriva dunque che il giudice di prime cure, nel porre in capo all’odierno appellante l’onere di produrre il contratto di conto corrente, si è conformato all’unanime giurisprudenza secondo cui “in tema di ripetizione di indebito opera il normale principio dell’onere della prova a carico dell’attore il quale, quindi, è tenuto a dimostrare sia l’avvenuto pagamento sia la mancanza di una causa che lo giustifichi (Cass. n. 30713/2018; con specifico riguardo alla ripetizione in materia di conto corrente bancario: Cass. n. 24948 del 2017). Il principio trova applicazione anche ove si faccia questione dell’obbligazione restitutoria dipendente dalla (asserita) nullità di singole clausole contrattuali: infatti, chi allega di aver effettuato un pagamento dovuto solo in parte, e proponga nei confronti dell’accipiens l’azione di indebito oggettivo per la somma pagata in eccedenza, ha l’onere di provare l’inesistenza di una causa giustificativa del pagamento per la parte che si assume non dovuta” (Cass. n. 33009/2019).
In tale ottica, anche “nei rapporti di conto corrente bancario, il cliente che agisca per ottenere la restituzione delle somme indebitamente versate in presenza di clausole nulle, ha l’onere di provare l’inesistenza della causa giustificativa dei pagamenti effettuati mediante la produzione del contratto che contiene siffatte clausole, senza poter invocare il principio di vicinanza della prova al fine di spostare detto onere in capo alla banca, tenuto conto che tale principio non trova applicazione quando ciascuna delle parti, almeno di regola, acquisisce la disponibilità del documento al momento della sua sottoscrizione” (ib.). In ambito bancario, infatti, la disciplina di protezione del correntista – quale parte debole del rapporto – affianca al requisito della forma scritta del contratto l’obbligo di consegnarne un esemplare al cliente (art. 117 c. 1 TUB), al fine di consentire a quest’ultimo di acquisire, sin dalla stipulazione, la disponibilità del documento contrattuale e la conseguente possibilità di controllarne la correttezza formale, nonché la regolare esecuzione. Il sistema normativo giustifica quindi l’onere del correntista di produrre in giudizio il contratto bancario al fine di dimostrare la fondatezza della asserita invalidità di talune clausole in esso contenute: è appunto mediante la produzione di tale scritto che il correntista può evidenziare la mancanza, nel contratto, della pattuizione degli interessi o la nullità di essa.
L’odierno appellante, non avendo prodotto né il contratto di conto corrente né (come di seguito si preciserà) il contratto di apertura di credito, è venuto meno all’onere probatorio di pertinenza, come rilevato dal primo giudice. Anche il rilievo, svolto dal (…), circa il fatto che prima dell’introdurre il giudizio, con missive del 2.3.2015 e 16.11.2015 (doc. 1 del fascicolo attoreo di primo grado), egli avesse chiesto alla banca la consegna della documentazione in questione ai sensi dell’art. 119 c. 4 TUB, non fa che confermare l’esistenza del contratto scritto. D’altra parte, della mancata trasmissione da parte della banca del contratto, pur richiesto, il correntista avrebbe potuto e dovuto ribadire quell’istanza in giudizio, chiedendo ex art. 210 c.p.c. l’esibizione del documento. Non avendo l’appellante compiuto lo sforzo esigibile per ottemperare all’onere probatorio incombente, è tenuto a sopportarne le conseguenze processuali, in termini di rigetto della domanda azionata.
Non può inoltre tacersi che, ove il (…) avesse voluto far valere l’assenza di un contratto scritto di conto corrente, avrebbe dovuto impostare diversamente la linea difensiva, facendo valere la nullità dell’intero rapporto (e non di singole clausole) per mancanza della forma imposta dall’art. 117 TUB. Allora sì, sarebbe stato onere della banca, in base ai principi generali, produrre la documentazione contrattuale.
3. Con la terza ragione di gravame la difesa lamenta l’erronea applicazione delle norme in materia di prescrizione, rilevando che nell’impugnata sentenza si afferma un principio, cioè la sufficienza della contestazione dell’inerzia del titolare ai fini della validità dell’eccezione di prescrizione “che è solo una parte del principio espresso dalla Suprema Corte nella sentenza che viene citata”. In particolare, l’appellante rileva che “la decorrenza del termine decennale parte dalla chiusura del conto per tutte le operazioni ripristinatone (e in presenza di fido, come nel caso di specie, tutte le operazioni si presumono avere tale natura), mentre dalla singola operazione correrà solo per le rimesse solutorie. Prevenendo l’avversa eccezione, il fido nel caso di specie è dimostrato dall’incontestata tolleranza dell’esposizione debitoria sul conto, così come evidenziato negli estratti conto in atti e non contestati” (pagg. 10-11, atto di appello).
Orbene, è ormai pacifico in giurisprudenza che davanti all’eccezione di prescrizione della banca – da ritenersi correttamente formulata mediante la mera deduzione della inerzia del titolare, non essendo necessaria la specifica indicazione delle singole rimesse solutorie ritenute prescritte – spetta al correntista dimostrare la natura ripristinatoria delle rimesse, tale da impedire il decorso della prescrizione: “in materia di contratto di conto corrente bancario, poiché la decorrenza della prescrizione è condizionata al carattere solutorio, e non meramente ripristinatorio, dei versamenti effettuati dal cliente, essa matura sempre dalla data del pagamento, qualora il conto risulti in passivo e non sia stata concessa al cliente un’apertura di credito, oppure i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento; ne discende che, eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito per decorso del termine decennale dal pagamento, è onere del cliente provare l’esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quel versamento come mero ripristino della disponibilità accordata” (massima tratta ex multis da Cass. n. 2660/2019).
Altrettanto indubbio è che tale prova debba essere offerta in giudizio con rigore e non possa ritenersi soddisfatta per via indiretta, o sulla base di vaghe impressioni desunte dall’andamento del rapporto come risultante dagli estratti conto o dai riassunti scalari. È ormai assodato nella giurisprudenza di legittimità il principio per cui il contratto di apertura di credito, al pari di ogni altro contratto bancario, deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità ai sensi dell’art. 117 TUB. Ora, è ben vero che ai sensi della medesima disposizione il CICR può prevedere, per motivate ragioni tecniche, che particolari contratti possano essere stipulati in forma diversa da quella scritta, ma dalla delibera CICR del 4.3.2003 si ricava che il contratto di apertura di credito è svincolato dal requisito della forma scritta solo ove l’affidamento sia già previsto e disciplinato nel contratto scritto di conto corrente, ciò in quanto “l’intento di agevolare particolari modalità della contrattazione non comporta una radicale soppressione della forma scritta, ma solo una relativa attenuazione della stessa che, in particolare, salvaguardi l’indicazione nel “contratto madre” delle condizioni economiche cui andrà soggetto il “contratto figlio”” (Cass. n. 926/2022).
Ne consegue che la stipulazione dell’apertura di credito può essere dimostrata solo producendo in giudizio il relativo accordo scritto, completo di tutte le condizioni economiche dell’affidamento, mentre non può essere provata in via indiretta, mediante gli estratti conto, i riassunti scalari o altri indici esteriori incapaci di attestare i contenuti dell’affidamento. La generica sensazione che questi siano stati concessi resta infatti compatibile con la possibilità che le rimesse rilevanti ai fini del decidere siano state eseguite dal cliente extra fido, o fuori delle particolari condizioni presupposte dal fido (ad esempio concesso per sconto di portafoglio commerciale, piuttosto che per elasticità di cassa), assumendo così fisionomia solutoria e, del resto, in tanto può concettualmente configurarsi una funzione ripristinatoria, in quanto il correntista abbia il diritto concretamente tutelabile su basi certe e vincolanti di fruire di una determinata provvista, altrimenti viene soltanto a manifestarsi in via di fatto una tolleranza della banca allo sconfinamento, che non ripristina niente e non rende le rimesse giuridicamente ripristinatorie.
Nella specie, la stipulazione del supposto contratto di affidamento non è stata provata dal correntista con le modalità precisate, non potendosi ritenere sufficienti gli estratti conto in atti. Pertanto, in carenza di elementi probatori certi atti a dimostrare le condizioni del supposto fido, deve presumersi la natura solutoria delle rimesse affluite sul conto corrente, con conseguente correttezza della decisione gravata – per vero incontestata sul punto – nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto integralmente prescritto il credito restitutorio vantato dal (…), in quanto relativo a pagamenti totalmente effettuati nel decennio antecedente alla notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado. Né a diversa conclusione può pervenirsi dando rilevanza alla missiva inviata alla banca per conto del correntista in data 2.3.2015 (doc. 1, cit.), poiché questa, al pari di quella successiva del 16.11.2015, come già rilevato in prime cure, contiene unicamente la richiesta di trasmissione della documentazione e dunque determina l’interruzione del termine prescrizionale del solo diritto alla consegna di quanto richiesto, non anche del controverso credito restitutorio, che non rientra nel petitum, neppure implicito, delle indicate lettere.
4. Esito negativo attende anche l’ulteriore doglianza con cui si contesta “l’affermazione secondo la quale la CTU sarebbe superflua perché la CTP non utilizza criteri della Banca d’Italia”, rilevando che “detti criteri potranno essere utilizzati soltanto quando non saranno contra legem (e la CTU evidenzia per quale motivo gli stessi possano essere ritenuti, invece contra legem), ma soprattutto non è escluso che con detti criteri l’usura non sia comunque rilevata: solo una CTU potrebbe dare risposta al riguardo.” (pag. 14 appello). Tale doglianza è inammissibile, prima ancora che infondata, per totale genericità, non essendo stata indicata né la genesi (originaria o sopravvenuta per effetto della modifica unilaterale dei tassi di interesse) dell’asserito fenomeno usurario, né il/i periodo/i in cui si sarebbe verificato il supposto sforamento del tasso soglia, né, conseguentemente, il D.M. trimestrale di riferimento in base al quale calcolare il TSU (tasso soglia di usura). In altri termini, la difesa appellante ha trascurato tutti gli oneri di allegazione che le competevano, indugiando in astratte considerazioni prive di risvolto concreto. Né può sopperire alla lacuna la perizia di parte prodotta in primo grado (sub doc. 2), la quale è parimenti mancante delle accennate indicazioni, risolvendosi in una trattazione teorica sulle modalità di rilevare l’usura.
Del resto, è il medesimo appellante a disconoscere la valenza del citato documento, omettendo qualunque riferimento ad esso nel corpo del gravame.
5. L’appello va conseguentemente respinto. Ogni altra questione resta assorbita o superata. Alla soccombenza, non può che seguire la condanna dell’appellante al pagamento delle ulteriori spese processuali del grado, che, tenuto conto del valore (Euro 25.000,00) e della complessità (media) della lite, si liquidano a favore della parte appellata in complessivi Euro 3.777,00 (di cui Euro 1.080,00 per fase di studio, Euro 877,00 per fase introduttiva, nulla per inesistente fase istruttoria ed Euro 1.820,00 per fase decisoria), oltre al 15% per spese forfettarie, oltre al trattamento fiscale e previdenziale di legge.
Sussistono i presupposti a carico dell’appellante per il raddoppio del contributo unificato ex art. 13 DPR n. 115/2002 come modificato dall’art. 17 legge n. 228/2012.
P.Q.M.
l’intestata Corte, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda, eccezione e deduzione disattesa,
RESPINGE
l’appello proposto da (…), per l’effetto
CONFERMA
la sentenza n. 595 pubblicata il 19 settembre 2019 dal Tribunale di Prato e, dato atto che sussistono a carico dell’appellante i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, lo condanna al pagamento delle spese processuali del grado, liquidate in complessivi Euro 3.777,00 oltre agli accessori indicati in motivazione a favore di (…) s.p.a.; dispone infine che in caso di divulgazione della presente sentenza fuori dell’ambito strettamente processuale siano eliminati i dati identificativi personali ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196/2003.
Firenze, 4 ottobre 2022
Depositata in Cancelleria il 11 ottobre 2022.
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