il legislatore stesso ha riconosciuto la eccezionalità della situazione e le gravi ripercussioni che ha comportato, non può che riconoscersi che non ha voluto prevedere una forma di intervento normativo idonea ad incidere in modo generalizzato sui rapporti locatizi di natura privata (intervenendo invece sui canoni degli impianti sportivi), ma anzi, al contrario, prevedendo forma di sgravi fiscali, da un lato ha declinato forme di intervento dirette nei rapporti tra privati, dall’altro ha indirettamente confermato la perdurante validità ed efficacia dei vincoli, rimettendo alla eventuale volontà delle parti – anche in previsione del periodo di difficile ripresa dello stesso mercato degli affitti, che potrebbe ex se spingere i locatari alla eventuale revisione al ribasso degli accordi – ogni eventuale possibilità di modifica. Considerato altresì che la giustificazione del ritardo nei pagamenti, prevista normativamente ex art. 91, comma 6-bis, d.l. n. 18/2020, si applica solo ai mesi marzo/giugno 2020.
Tribunale|Roma|Sezione 6|Civile|Sentenza|16 dicembre 2020
Sezione Sesta Civile
VERBALE DI UDIENZA
Oggi 16/12/2020 innanzi al Giudice dott. Alessio Liberati, è stata chiamata la causa civile iscritta al n. r.g. 45986/2020 promossa da:
X – SOCIETA’ A RESPONSABILITA’ LIMITATA
contro
(…)
(convenuto)
sono comparsi:
(…)
Le parti rilevano quanto segue:
L’attore si riporta all’atto introduttivo del giudizio e ne chiede l’integrale accoglimento. Impugna e contesta quanto dedotto da controparte.
Il convenuto impugna e contesta tutto quanto ex adverso dedotto e eccepito per i motivi già dedotti nella comparsa di costituzione e risposta cui si riporta integralmente.
Il Giudice
Considerato che la parte intimante ha chiesto di “convalidare la presente intimazione di sfratto per morosità; fissare la data del rilascio; emettere decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo per il pagamento dell’importo complessivo di euro 256.200,00 (IVA compresa), oltre interessi moratori ex art. 231/2002 dalle singole scadenze al saldo” sul presupposto che “a causa della diffusione del Covid-19 e dei provvedimenti governativi emessi in tema di chiusura degli esercizi, il locatore ha tentato di intavolare con la società conduttrice una trattativa tesa al bonario componimento delle questione relativa al pagamento dei canoni insoluti, manifestando a più riprese la volontà di rinunciare a parte dei canoni relativi alle mensilità in cui l’esercizio commerciale è stato chiuso e volendo riconoscere, a fronte del pagamento dei canoni, anche una riduzione per le mensilità da maggio a dicembre 2020, proprio al fine di agevolare l’attività della conduttrice”, ma che la intimata “non ha mai risposto positivamente a tali offerte”.
Rilevato che la parte intimata si oppone sul presupposto che “la grave crisi scaturita dalla Pandemia, che ha desertificato il Centro storico delle nostre città, il Gruppo della comparente, ha subito una contrazione delle vendite rispetto all’anno precedente ed è stata impossibilitata ad onorare l’elevato corrispettivo convenuto.
In particolare, nel periodo 1.03-31.08.2020 la società, facente parte del gruppo che gestisce il punto vendita di cui è causa, ha subito una riduzione del fatturato del 72,72%”
Che chiede la reductio ad equitatem del canone locatizio sul presupposto che “in tema di eccessiva onerosità, soltanto la parte favorita dallo sbilanciamento può evitare la risoluzione del negozio, offrendo di modificare equamente le condizioni di esso (art. 1467, comma 3, c.c.), mediante proporzionale reductio ad equitatem del canone, ormai palesemente squilibrato rispetto al valore della controprestazione.”
Invocando anche il principio di buona fede a sostegno della propria pretesa “la regola di buona fede deve essere letta come attuativa nel rapporto contrattuale del vincolo solidaristico di cui all’art. 2 Cost, comportando una definizione della stessa quale impegno di cooperazione che impone a ciascun contraente di tenere quei comportamenti che, a prescindere da obblighi contrattuali, o dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, siano idonei a preservare gli interessi della controparte senza, tuttavia, rappresentare un sacrificio apprezzabile.
L’art. 1175 c.c., poi, ribadisce e generalizza per i rapporti obbligatori un’esigenza solida-ristica che impone il contemperamento dei contrapposti interessi” che il resistente dunque contesta la somma dovuta e si oppone, che alla luce di tale opposizione non può essere convalidata l’intimazione, essendo comunque riservata al merito la valutazione della effettiva debenza e quantificazione delle somme, che tuttavia deve valutarsi se deve essere disposto il rilascio dell’immobile, sulla base di un giudizio prognostico, ai sensi dell’art. 665 cpc
CONSIDERATO IN DIRITTO
La parte conduttrice invoca l’esistenza di una situazione di emergenza sanitaria riconducibile alla c.d. pandemia da SARS-Cov 2, la quale ad avviso dell’istante, avrebbe comportato una alterazione del rapporto contrattuale e la impossibilità di eseguirlo o, comunque, di beneficiare pienamente del godimento del bene, con conseguente alterazione del sinallagma contrattuale, la cui rilevanza al fine della revisione delle condizioni contrattuali è invocata in giudizio.
Ritiene il tribunale che tale assunto sia già in partenza inesatto.
1. Invero la esistenza di una emergenza sanitaria non è di per sé condizione intrinsecamente impediente in termini assoluti, diversamente dal caso di scuola, ad esempio, del crollo dell’immobile a seguito di terremoto o del crollo dell’unica via di accesso all’immobile a seguito di calamità naturale.
In altre parole, in via astratta, ogni attività umana avrebbe potuto continuare a svolgersi regolarmente anche in periodo di emergenza sanitaria, con la sola differenza che il soggetto interessato avrebbe corso il rischio di contrarre il virus (così come, in modo diverso, il conducente che si pone alla guida accetta il rischio di essere coinvolto in un incidente mortale causato da altri, ipotesi che nella moltitudine dei casi è statisticamente certa).
Ciò detto, appare evidente che la limitazione ai diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti che si è verificata nel periodo di emergenza sanitaria è dovuta, quindi, non alla intrinseca diffusione pandemica di un virus ex se, ma alla adozione “esterna” dei provvedimenti di varia natura (normativi ed amministrativi) i quali, sul presupposto della esistenza di una emergenza sanitaria, hanno compresso o addirittura eliminato alcune tra le libertà fondamentali dell’Uomo, cosi come riconosciute sia dalla Carta Costituzionale che dalle Convenzioni Internazionali.
A dimostrazione di ciò, è notorio che le suddette libertà e diritti fondamentali siano stati incisi con modalità ed intensità diverse nei vari Paesi del globo terrestre ed alcuni Stati, come la Svezia, addirittura, si siano limitati a indicazioni e suggerimenti, senza imporre limiti al godimento dei diritti, quantomeno nel periodo iniziale.
Da ciò deriva che le dedotte conseguenze per ristante non sono affatto riconducibili alla emergenza sanitaria in sé intesa, ma al complesso normativo provvedimentale che, su tale presupposto, è intervenuto sui diritti e sulle libertà dei cittadini, ivi compresi quelli dell’interessato istante.
Ciò chiarito, si deve quindi verificare se tale compressione fosse insuperabile, con la conseguenza che quanto dedotto può essere preso in considerazione ai fini della domanda, o, al contrario, se vi fosse un insieme normativo-provvedimentale che la parte interessata avrebbe potuto caducare e che l’interessato non abbia, negligentemente, impugnato, con ciò divenendo egli stesso in qualche modo causa delle conseguenze negative sulla piena fruibilità del bene immobile, in base alle quali oggi vorrebbe vantare la propria pretesa.
In altre parole, si deve verificare se si fosse in presenza di atti censurabili ed illegittimi e/o di una norma incostituzionale o in violazione delle Convenzioni internazionali, e se la loro ipotetica caducazione avrebbe potuto eliminare le conseguenze dannose ed i limiti al godimento del bene, per poi verificare, dunque.
se rispetto a ciò la parte si sia diligentemente attivata, o abbia invece subito le conseguenze del provvedimento illegittimo o contra ius.
In tale ipotesi, invero, verrebbe a cadere lo stesso presupposto di partenza invocato dalla parte per fondare ogni pretesa.
Appare dunque necessario verificare se in concreto la limitazione imposta con atti provvedimentali ed atti aventi forza di legge fosse legittima.
2. Punto indiscusso è che le libertà fondamentali degli individui siano state compresse attraverso un DPCM. Tale atto, come noto, non è di natura normativa, ma ha natura amministrativa. Tale natura resta anche laddove un provvedimento avente forza di legge, preventivamente, lo “legittimi”, e sempre che tale legittimazione “delegata” sia attribuita nei limiti consentiti.
In questa prospettiva non vi è dubbio che l’azione della amministrazione che operi attraverso atti amministrativi sia responsabilizzante, in quanto esposta, diversamente dall’operare attraverso atti aventi forza di legge, anche alle ulteriori censure tipiche dei provvedimenti amministrativi, e non solo al sindacato politico.
Tutti tali profili devono quindi essere analizzati.
Un primo aspetto da verificare è la idoneità del DPCM a comprimere i diritti fondamentali che ha, di fatto, investito e compresso.
Diverse ed autorevoli sono state le opinioni di coloro (per tutti i Presidenti Emeriti della Corte Costituzionale Baldassare, Marini, Cassese) che hanno rilevato la incostituzionalità del DPCM.
Come già evidenziato da altra giurisprudenza (giudice di Pace di Frosinone) non può ritenersi che un DPCM possa porre limitazioni a libertà costituzionalmente garantite, non avendo valore e forza di legge.
Va rammentato infatti che con deliberazione del 31.1.2020 il Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, pubblicata in G.U. Serie generale n. 26 del 1.2.2020, ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale in conseguenza del rischio sanitario derivante da agenti virali trasmissibili: “ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 7, comma 1, lettera c) e dell’articolo 24, comma 1, del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1, è dichiarato per sei mesi dalla data del presente provvedimento, lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili; 2) per l’attuazione degli interventi di cui all’articolo 25, comma 2, lettre a) e b).
Però, con le parole della succitata giurisprudenza “Se si esamina la fattispecie richiamata dalla deliberazione sopra citata si potrà notare che non si rinviene alcun riferimento a situazioni di “rischio sanitario” da, addirittura, “agenti virali”.”
Infatti, l’articolo 7, comma 1, lettera c), del D.Lgs. n. 1/18 stabilisce che “gli eventi emergenziali di protezione civile si distinguono: … c) emergenze di rilievo nazionale connessi con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo”.
Sono le calamità naturali, cioè terremoti; valanghe; alluvioni, incendi ed altri; oppure derivanti dall’attività dell’uomo, cioè sversamenti, attività umane inquinanti ed altri. Ma nulla delle fattispecie di cui all’articolo 7, comma 1, lettera c), del D.Lgs. n. 1/18 è riconducibile al “rischio sanitario”.
A ciò è doveroso aggiungere, sempre con le parole del giudice sopra menzionato, che “i nostri Padri Costituenti hanno previsto nella Costituzione della Repubblica una sola ipotesi di fattispecie attributiva al Governo di poteri normativi peculiari ed è quella prevista e regolata dall’articolo 78 e dall’articolo 87 relativa alla dichiarazione dello stato di guerra. Non vi è nella Costituzione italiana alcun riferimento ad ipotesi di dichiarazione dello stato di emergenza per rischio sanitario e come visto neppure nel D.Lgs. n. 1/18. In conseguenza, la dichiarazione adottata dal Consiglio dei Ministri il 31.1.2020 è illegittima, perché emanata in assenza dei presupposti legislativi, in quanto nessuna fonte costituzionale o avente forza di legge ordinaria attribuisce il potere al Consiglio dei Ministri di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario. Pertanto, poiché gli atti amministrativi, compresi quelli di Alta Amministrazione, come lo stato di emergenza sono soggetti al principio di legalità, la delibera del C.d.M. del 31.1.2020 è illegittima perché emessa in assenza dei relativi poteri da parte del C.d.M. in violazione degli 95 e 78 che non prevedono il potere del C.d.M. della Repubblica Italiana di dichiarare lo stato di emergenza sanitaria.”
Da ciò consegue la illegittimità di tutti gli atti amministrativi conseguenti.
Inoltre, deve ritenersi condivisibile autorevole dottrina costituzionale ((…)) secondo cui la previsione di norme generali e astratte, peraltro limitative di fondamentali diritti costituzionali, mediante Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri sia contraria alla Costituzione.
Con le parole del giudice di Pace di Frosinone: In particolare, non appare meritevole di accoglimento la tesi di chi invoca la legittimità di tali previsioni in virtù del rinvio a tali atti amministrativi, i DPCM, da parte di decreti-legge, che avendo natura di atti aventi forza di legge equiparerebbero alla fonte legislativa i DPCM evitandone in tal guisa la loro nullità e la conseguente disapplicazione da parte del Giudice Ordinario.
Ed in effetti, il DPCM emanato il 26.4.2020, deriverebbe la sua efficacia dal Decreto-legge n. 19, del 25.3.2020, cosi come gli atti amministrativi della Regione Lazio.
In ogni caso, la funzione legislativa delegata è disciplinata dall’articolo 76 Cost., il quale, nel prevedere “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi” impedisce, anche alla legge di conversione di decreti legge la possibilità di delegare la funzione di porre norme generali astratte ad altri organi diversi dal Governo, inteso nella sua composizione collegiale, e quindi con divieto per il solo Presidente del Consiglio dei Ministri di emanare legittimamente norme equiparate a quelle emanate in atti aventi forza di legge. In conclusione, solo un decreto legislativo, emanato in stretta osservanza di una legge delega, può contenere norme aventi forza di legge, ma giammai un atto amministrativo, come le Ordinanze sindacali o regionali od il DPCM, ancorché emanati sulla base di una delega concessa da un decreto-legge tempestivamente convertito in legge. Da ciò discende la illegittimità delle disposizioni del DPCM del 26.4.2020, in G.U. del 27.4.2020, n. 108″.
Da ciò discende la illegittimità dei DPCM che hanno imposto la compressione dei diritti fondamentali che oggi viene addotta quale causa eziologica dell’alterato equilibrio del sinallagma contrattuale.
Quanto sopra è ancor più evidente se si considera che il primo decreto legge che ha “legittimato” il DPCM non fissava un neanche termine e non tipizzava i poteri, perché conteneva una elencazione esemplificativa, così consentendo l’adozione di atti innominati, oltre a non stabilire le modalità di esercizio dei poteri.
Anche i DPCM che disciplinano la cd. fase 2 sono, ad avviso di questo giudicante, di dubbia costituzionalità poiché hanno imposto una rinnovazione della limitazione dei diritti di libertà che avrebbe invece richiesto un ulteriore passaggio in Parlamento diverso rispetto a quello che si é avuto per la conversione del decreto “lo resto a casa” e del “Cura Italia” (cfr. Marini). Si tratta pertanto di provvedimenti contrastanti con gli articoli che vanno dal 13 al 22 della Costituzione e con la disciplina dell’art. 77 Cost., come rilevato da autorevole dottrina costituzionale.
Inoltre, ai aggiunge, anche se si ritenesse legittima la limitazione delle libertà individuali sarebbe necessaria la specificazione di un termine all’interno dello stesso decreto del Presidente del Consiglio. Sul punto, però, anche la temporaneità del DPCM appare in realtà solo formale, come evidenziato di recente dalla giurisprudenza del TAR del Lazio “tenuto conto che le misure finora assunte per fronteggiare l’epidemia da covid 19, di cui la difesa erariale enfatizza la temporaneità, nei fatti risultano avere sostanzialmente perso tale connotazione stante la rinnovazione di gran parte delle stesse con cadenza quindicinale o mensile” (TAR del Lazio ordinanza n. 7468/2020, che si è espresso sul successivo DPCM 3.11.2020).
Questo giudicante ritiene di dover aderire a tali prospettazioni, con conseguente riscontro di un contrasto del DPCM con le disposizioni costituzionali.
Da ciò discende l’importante corollario che l’istante si duole di situazione non invincibile ex se, ma delle conseguenze derivanti da un impianto normativo-provvedimentale che è in contrasto con la Carta Costituzionale, e quindi certamente caducabile (con conseguente eliminazione degli effetti negativi posti a base della pretesa stessa).
3. Anche voler aderire alla tesi opposta – trattasi infatti di argomento dibattuto sia in dottrina che in sede parlamentare – e cioè alla tesi della piena costituzionalità delle limitazioni imposte con DPCM, non potrebbe tuttavia egualmente pervenirsi a valutazione favorevole in merito alla legittimità dei DPCM che hanno imposto vincoli ai diritti fondamentali, in base al detto presupposto della emergenza epidemiologica da diffusione pandemica di agente virale denominato SARS Cov 2.
Infatti le concrete limitazioni derivate dalla esecuzione di un provvedimento amministrativo, quale è il DPCM, avrebbero comunque potuto essere facilmente rimosse, trattandosi di provvedimenti amministrativi che ad avviso di questo tribunale appaiono ex se illegittimi.
Può rilevarsi infatti un ricorrente difetto di motivazione.
Come noto, tutti provvedimenti amministrativi devono essere motivati ai sensi dell’art. 3 legge 241/1990. A tale obbligo non sono sottratti neanche i DPCM.
Tale elemento dell’atto amministrativo è indispensabile per comprendere aspetti quali il corretto accertamento del dato ontologico-fattuale (come ad esempio nella fattispecie: il numero e le modalità di calcolo dei decessi e degli infetti presi a base delle limitazioni; il piano sanitario pandemico posto a base delle compressioni delle libertà, consentendo così di verificare il suo aggiornamento e quindi la sua eventuale perfettibilità); la correttezza del ragionamento logico (come la consequenzialità della scelta concreta rispetto all’obiettivo prefisso, ad esempio nella decisione o meno di chiudere parchi e ville pubbliche o di vietare la salutare attività motoria); la consequenzialità tra premessa e conclusione; o la proporzionalità (diversi ad esempio sono, nella materia che ci riguarda, i limiti astrattamente imponibili dall’autorità “sanitaria” per contenere situazioni di rischio virale diversificate: si pensi ai banali virus influenzali, al ben più grave virus da SARS Cov 2 o al devastante virus Ebola, rispetto ai quali ictu acuii l’azione di contenimento non può che essere diversa e proporzionale al rischio).
La motivazione consente quindi di operare, sulla base di tali informazioni e riscontri, il fondamentale sindacato giurisdizionale da parte dell’autorità giudiziaria (in via diretta da parte del giudice amministrativo o disapplicativa da parte del giudice ordinario), che è un principio cardine degli assetti democratici moderni, i quali nel rispetto del principio di divisione dei poteri, impongono comunque la possibilità di un controllo da parte del potere giudiziario.
Orbene, nel corpo dei provvedimenti relativi alla emergenza epidemiologica, la motivazione è redatta in massima parte con la peculiare tecnica della motivazione “per relationem”, cioè con rinvio ad altri atti amministrativi e, in particolare (ma non solo), ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico (CTS).
Tale tecnica motivatoria è in astratto ammessa e riconosciuta dalla giurisprudenza, ma richiede (eccettuato il caso di attività strettamente vincolata) che gli atti cui si faccia riferimento siano resi disponibili o comunque siano conoscibili.
È fatto notorio (essendo anche stato oggetto di dibattito politico messo in risalto dai mass media), che alcuni di tali atti vengano resi pubblici (o comunque in altro modo ostesi) con difficoltà, talvolta solo in parte, e comunque con una tempistica molto lunga, in alcuni casi addirittura prossima alla scadenza di efficacia del DPCM stesso.
In un primo periodo, addirittura, i verbali del CTS risultavano classificati come “riservati” ed è noto in proposito il dibattito contenzioso che ha portato alla loro pubblica ostensione.
Successivamente tali verbali del CTS sono stati periodicamente pubblicati sul sito della Protezione Civile, ma con un ritardo tale da non consentire l’attivazione di una tutela giurisdizionale, in quanto troppo prossimi alla scadenza della efficacia. Ad esempio, alla data del 12.12.2020 – in vigenza del DPCM 3.12.2020 che si basa sul verbale del CTS del 3.12.2020 n. 133 – risultano pubblicati solo i verbali delle sedute fino al 24.10.2020.
Tale omissione potrebbe essere astrattamente superata con il ricorso alla procedura di accesso agli atti, prevista e disciplinata dalle leggi in materia, che in caso di accoglimento obbligherebbe alla ostensione dell’atto de relato. Tuttavia nel caso di specie anche il ricorso alla procedura impugnatoria dell’accesso non sarebbe di fatto utilmente esperibile, essendo prescritto un preventivo silenzio di 30 giorni da parte della amministrazione rispetto alla domanda di accesso, prima di poter presentare ricorso, ed essendo comunque necessaria la fissazione della udienza e la notifica del ricorso. Nelle more, dunque, è pressoché automatico il decorso della efficacia del provvedimento stesso, con conseguente improcedibilità dell’azione giudiziaria esperita. Non può poi sottacersi che, almeno con riferimento ai primi provvedimenti, la disposizione di chiusura (c.d. lockdown) si è accompagnata alla generalizzata chiusura anche degli uffici giudiziari, eccetto i casi urgenti, che ha reso di fatto estremamente difficoltoso il ricorso alle vie di giustizia.
In tale dinamica l’obbligo di motivazione non è, ad avviso di questo giudicante, sufficientemente adempiuto ed i provvedimenti che si sono susseguiti sono dunque illegittimi per violazione di legge (art. 3 legge 241/1990).
La motivazione, inoltre, è elemento indispensabile per consentire anche il sindacato su possibili vizi di c.d. eccesso di potere.
Sul punto talvolta non è emerso neanche, dal combinato disposto dei DPCM e verbali del CTS, un adeguato bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco, che fosse cioè basato su una istruttoria completa e su una chiara ed univoca presa d’atto della situazione di fatto.
In materia si è già espresso il TAR del Lazio (con riferimento al DPCM del novembre 2020), di cui si riportano le parole: “infine, dal DPCM impugnato non emergono elementi tali da far ritenere che l’amministrazione abbia effettuato un opportuno bilanciamento tra il diritto fondamentale alla salute della collettività e tutti gli altri diritti inviolabili” (TAR del Lazio ordinanza n. 7468/2020).
Con riferimento al DPCM 9.3.2020, ad esempio, vi è un generico riferimento al precedente DPCM 8.3.2020, nel quale sono citati i verbali del CTS del 3 febbraio 2020, n. 630 e nelle sedute del 7 marzo 2020. Il verbale del 7.3.2020 proponeva in particolare di adottare due distinte zone, una relativa all’intero territorio nazionale, l’altra relativa ai territori in cui si era maggiormente osservata la diffusione del virus.
La giustificazione di tale dicotomica classificazione, così come le relative limitazioni ai diritti fondamentali, ad avviso di questo giudicante non sono però fomite di motivazione adeguata nel corpo del verbale del CTS (cui fa indirettamente rinvio il DPCM 9.3.2020 nel richiamare il precedente DPCM 8.3.2020), cioè di motivazione tale da far comprendere i termini dell’accertamento istruttorio ed il ragionamento logico della scelta dell’amministrazione, limitandosi il CTS ad enunciare assunti tautologici come “quanto più le misure di contenimento sono stringenti tanto più ci si attende una maggiore efficacia nella prevenzione della diffusione del virus”.
In concreto andrebbe invece chiaramente spiegato al fine di consentire un pieno sindacato giurisdizionale l’iter logico-motivatorio sotteso alla scelta: tra i tanti esempi di dettaglio possibili, perché la apertura dei bar e dei ristoranti possa avvenire nel rispetto della distanza di almeno un metro (e quella degli altri esercizi commerciali garantendo genericamente l’evitamento di assembramenti, con ciò ritenendole misure idonee a contenere la diffusione), mentre invece le scuole di ogni ordine e grado debbano restare chiuse per garantire il medesimo risultato.
Inoltre andrebbe chiarito il perché di una classificazione uniforme per la quasi totalità del territorio nazionale (a fronte di dati statistici diversissimi, come ad esempio gli scarsissimi casi presenti in Umbria e Calabria nel periodo di riferimento) al fine di verificare se il provvedimento risponda ai criteri minimi di rispetto della legittimità sotto il profilo sia motivatorio (violazione di legge) che di eccesso di potere per difetto di istruttoria ed illogicità.
Tale iter motivatorio, del tutto generico, è quindi ad avviso di questo giudice insufficiente a rispettare i parametri richiesti per ogni provvedimento amministrativo ai sensi dell’art. 3 legge 241/1990, con conseguente illegittimità del provvedimento stesso, nel suo complesso: è indubbio infatti che il complessivo risultato del DPCM sulla limitazione delle libertà e dei diritti fondamentali sia il frutto del combinato disposto e del coordinato risultato delle varie e singole disposizioni.
A dimostrazione di ciò si consideri che alcune delle gravi compressioni dei diritti costituzionalmente e internazionalmente garantiti, peraltro, sono contraddittorie con le disposizioni degli stessi DPCM adottati successivamente sulla materia, nei quali molte prescrizioni sono state sostanzialmente modificate.
Anche tali modifiche avrebbero dovuto essere spiegate e rese comprensibili con adeguata motivazione, con ciò consentendo al giudice di operare il sindacato tipico, dei provvedimenti amministrativi, cioè sui vizi c.d. di eccesso di potere (che insieme alla incompetenza ed alla violazione di legge costituiscono i vizi di legittimità che il giudice deve verificare). Tale mancanza palesa dunque un possibile ulteriore vizio di eccesso di potere dei DPCM, per contraddittorietà con altri atti della medesima amministrazione destinati ad incidere sulla stessa situazione, non essendo possibile comprendere a pieno le ragioni del mutamento di indirizzo.
Si è già detto, del resto, che partendo dal dato di fatto “che l’Organizzazione mondiale della sanità il 30 gennaio 2020 ha dichiarato l’epidemia da COVID-19 un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale” (cui è seguita la successiva dichiarazione dell’Organizzazione mondiale della sanità dell’11 marzo 2020 con la quale l’epidemia da COVlD-19 è stata valutata come “pandemia” in considerazione dei livelli di diffusività e gravità raggiunti a livello globale), il DPCM 9.3.2020 ha adottato limitazioni ben più incisive rispetto a moltissimi altri Paesi coinvolti dalla pandemia, con ciò rendendo evidente la possibilità che la stessa amministrazione (la Presidenza del Consiglio dei Ministri che ha emesso l’atto) aveva in astratto di adottare misure diverse e meno compressive dei diritti fondamentali.
Dalla lettura dei verbali delle sedute del CTS che si sono succedute, per quanto detto sopra, non emerge quindi con chiarezza quale sia la logica della scelta fortemente compressiva operata dalla PA e, sia nella parte in cui si configura come discrezionalità amministrativa che nelle parti in cui si ravvisa discrezionalità tecnica, l’opzione della amministrazione non appare univocamente determinata dalla situazione di fatto sottostante e, talvolta, appare addirittura contraddittoria, con ciò determinando ulteriori possibili vizi di eccesso di potere per illogicità (sul punto, ad esempio, ha già preso posizione il TAR del Lazio con la citata ordinanza n. 7468/2020 con riferimento al DPCM 3.11.2020, nella parte in cui dispone l’obbligo di tenere le mascherine nelle aule scolastiche, ordinando accertamenti istruttori).
Ciò detto, va rilevato che le considerazioni sopra esposte possono essere agevolmente estese ai vari e numerosi DPCM che si sono succeduti. Si, rammenta infatti che il Dpcm 9.3.2020 ha cessato di produrre effetti dalla data di’efficacia delle disposizioni contenute nel Dpcm 10 aprile 2020. Tede DPCM del 10.4.2020 richiama il verbale del CTS n. 49 del 9 aprile 2020. A partire dal 4 maggio 2020 le disposizioni del Dpcm 10 aprile 2020 sono state invece sostituite da quelle del Dpcm 26 aprile 2020, che ha richiamato i verbali n. 57 del 22 aprile 2020 e n. 59 del 24-25 aprile 2020, e così via, sino ai più recenti DPCM cui corrispondono i relativi verbali delle sedute aggiornate del CTS, oltre che i rispettivi decreti legge “legittimanti” (sul punto si è già detto).
Anche il combinato disposto di tali atti, tuttavia, consente di ritenere che in tali casi i DPCM siano viziati da violazione di legge per difetto di motivazione, possibile sintomo di altri vizi quali l’eccesso di potere per difetto di istruttoria e contraddittorietà. Sulla motivazione per relationem del resto si è già ampiamente detto.
Ma vi è di più.
Le disposizioni limitanti le libertà fondamentali in alcuni casi sono appaiono adottate in immediata conseguenza logica di un ragionamento chiaro e basato su dati ontologici fattuali certi (o almeno verificabili), ma previa esposizione di mere clausole di stile, come “dopo aver accuratamente valutato gli scenari epidemiologici derivanti da una riapertura della attività didattica frontale nelle scuole” (in base a cui il CTS mantiene ad esempio l’obbligo di formazione a distanza – verbale del CTS n. 49 del 9 aprile 2020), o con prescrizioni del tutto generiche come la “garanzia di pulizia ed igiene ambientale con frequenza di almeno due volte al giorno” (senza indicarne le modalità – verbale del CTS n. 49 del 9 aprile 2020), o con limitazioni motivate genericamente e senza alcuna spiegazione del perché (come l’accesso di al massimo una persona per locali fino a 40 mq senza che fosse stata inizialmente fatta una distinzione delle caratteristiche fisiche dell’immobile, della cubatura, dell’areazione, e comunque del perché la misura fosse ben diversa da quanto consentito sui mezzi di trasporto pubblici – verbale del CTS n. 49 del 9 aprile 2020).
Anche di tali scelte (e di numerose altre) non appare quindi comprensibile la motivazione e, in alcuni tratti, la logica sottesa.
La tecnica motivatoria del verbale CTS 22.4.2020 n. 57 (ed alcuni successivi) appare invece leggermente diversa.
Dalla lettura dei prospetti di cui a pag. 13 e 14 del verbale, si desume che siano state effettuate valutazioni di carattere diverso, con studio di possibili scenari in base ai quali garantire il rispetto del tasso di occupazione delle terapie intensive entro soglie di sicurezza idonee a garantire una occupazione massima (stabilite in 9.000 posti).
In base a tali diversi scenari, di cui però anche qui non è ad avviso di questo giudice chiaramente comprensibile l’origine e l’elaborazione (con ciò integrandosi un possibile vizio di difetto di istruttoria), non è comunque esplicitato perché venga prediletta l’una opzione rispetto all’altra (ad esempio chiusura delle scuola, ma contestuale apertura di alcune tipologie di imprese; ammissione di un numero massimo di partecipanti alle celebrazioni funebri, ma adozione di parametri diversi per l’assembramento nei mezzi di trasporto) e non risultano dal provvedimento le valutazioni di variabili essenziali (come ad esempio la entità della ipotetica variazione dei codici ATECO – laddove possibile in ragione del concreto oggetto di impresa – delle attività produttive vietate, al fine di rientrare in quelle consentite, con conseguente scostamento del dato predittivo).
Anche in questo caso l’assenza di parametri precisi e della analitiche motivazioni della scelta tecnica rendono illegittimo il DPCM, in quanto basato su atti (ed in particolare i verbali del CTS) non idonei a tal fine.
4. Quanto ai profili di violazione di legge, anche di rango costituzionale, e di incompetenza si rinvia al tema della incostituzionalità già menzionata in precedenza.
Tali considerazioni costituiscono solo alcuni esempi dei vizi ipotizzabili, ma rendono evidente come i DPCM che hanno compromesso il pieno godimento del bene oggi nei termini oggetto di pretesa dell’istante, siano in realtà atti viziati da molteplici profili di illegittimità e, come tali, caducabili.
Ne consegue che, stante la illegittimità del provvedimento che di fatto ha creato le dette limitazioni e compressioni dei diritti fondamentali (le quali per quanto detto in premessa non sono “intrinseche” alla esistenza di una epidemia virale, ma conseguenza dell’impianto normativo provvedimentale che su tale situazione è intervenuto), e che sono poste alla base della pretesa, la parte ben avrebbe potuto (ed, anzi, dovuto) impugnare tale atto, con ciò eliminando in radice le conseguenze che ne sono derivate.
La caducazione infatti avrebbe interessato l’intero DPCM, trattandosi di disposizioni correlate le une alle altre, in un rapporto di stretta connessione che le avrebbe travolte nella interezza.
Si tratta quindi, a ben vedere, non di un danno “da emergenza sanitaria”, ma di un danno da attività provvedimentale, che si reputa illegittima, e che la parte non si è attivata in alcun modo per rimuovere e, di conseguenza, eliminarne gli effetti dannosi, che dunque ben avrebbe potuto evitare.
La pretesa invocata con la domanda, dunque, è basata su un presupposto di partenza già di per sé errato, tale da rendere infondata la richiesta.
5. In questa prospettiva appare quindi del tutto errato, ad avviso di questo giudicante, anche invocare concetti quali la buona fede nella esecuzione del contratto da parte del locatore, da cui – secondo alcuni – in uno studio in materia di locazioni proveniente dal massimario della Cassazione (relazione tematica n. 56/2020 del 8.7.2020) si sarebbe fatto addirittura discendere l’obbligo di rivedere le condizioni contrattuali, potendo invece ricondursi le conseguenze subite ad un comportamento omissivo e negligente della parte conduttrice nel non impugnare provvedimenti illegittimi e lesivi dei propri diritti e libertà.
In ogni caso ritiene questo giudice che anche la conclusione della suddetta relazione tematica in materia di rilevanza della buona fede sia ben diversa da come talvolta è stata intesa, anche da parte della giurisprudenza (Tribunale di Roma, ord. 27 agosto 2020):
“la buona fede, infatti, può essere utilizzata anche con funzione integrativa cogente nei casi in cui si verifichino dei fattori sopravvenuti ed imprevedibili non presi in considerazione dalle parti al momento della stipulazione del rapporto, che sospingano lo squilibrio negoziale oltre l’alea normale del contratto” (Tribunale di Roma, ordinanza del 27 agosto 2020).
Ciò si desume dal seguente passaggio contenuto proprio nella relazione tematica, che, proprio nelle conclusioni, riduce la portata del principio fatto proprio dal Tribunale capitolino con la citata ordinanza ad un ambito applicativo ridottissimo:
Disagevole sembra rinvenire il fondamento di siffatta opportunità nell’art. 1374 c.c., ove si dispone che il contratto obbliga le parti, non solo a quanto nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità.
Di equità si parla sotto il profilo delle fonti di integrazione del contratto, alla stregua di criterio che concorre a determinarne gli effetti giuridici del negozio mediante il giusto contemperamento dei diversi interessi delle parti in relazione allo scopo e alla natura dell’affare.
È attraverso l’equità che il giudice è facoltizzato a individuare elementi e aspetti del regolamento contrattuale non definiti dalle parti, né determinati da disposizioni di legge o usi L’equità non è principio di giustizia morale dacché il giudice che integra il contratto ne determina il contenuto alla stregua di criteri che gli offre il mercato.
R suo intervento, tuttavia, è suppletivo e residuale, in quanto il magistrato non può correggere la volontà delle parti quand’anche le scelte di queste pii appaiano incongrue, limitandosi, negli eccezionali casi in cui la legge l’ammetta, a colmare le lacune riscontrate, inserendo regole ulteriori e coerenti con il programma concordato dalle parti. Un intervento sostitutivo del giudice sembrerebbe ammissibile al più ogni volta che dal regolamento negoziale dovessero emergere i termini in cui le parti, hanno inteso ripartire il rischio derivante dal contratto, fornendo al giudice (anche in chiave ermeneutica) i criteri atti a ristabilire l’equilibrio negoziale. In questo caso, il magistrato, più che intervenire dall’esterno, opererebbe all’interno del contratto e in forza di esso, servendosi di tutti gli strumenti di interpretazione fomiti dal legislatore (artt. 1362-1371 c.c.), precipuamente quello disciplinato dall’art. 1366 c.c. sulla buonafede nell’interpretazione del contratto.
Al di fuori di questo angusto contorno, la determinazione del contenuto del contratto appartiene alla sfera decisionale riservata ai contraenti, rispetto alla quale ogni intervento spetta solo al legislatore, che fissa l’eventuale disciplina cogente non modificabile né dalle parti, né dal giudice. Quest’ultimo si trova a svolgere una funzione di valutazione di conformità, senza alcuna prerogativa di intervento ulteriore (Cassazione, relazione tematica v. 56/2020 del 8.7.2020)
6. Fermo restando quanto sopra osservato, rileva il tribunale che, in ultima analisi, non sarebbero comunque esperibili nella fattispecie i diversi strumenti giuridici astrattamente utilizzabili per la correzione di eventuali alterazioni del sinallagma contrattuale.
Occorre sul punto preliminarmente esaminare, in breve, gli strumenti giuridici astrattamente invocabili in linea teorica nel nostro ordinamento, in simili situazioni di fatto: a prescindere dalla norma invocata in concreto, invero, il giudice ben può ricondurre la domanda ad una qualificazione giuridica diversa, in base al noto principio iura novit curia, sicché appare opportuno non soffermarsi alla stretta analisi della norma invocata dalla parte, ma esaminare tutte le possibili opzioni ermeneutiche consentite al giudicante.
La prima disposizione da analizzare è certamente quella che disciplina la impossibilità sopravvenuta ex art. 1463 cc, la quale dispone che: Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito.
Sul punto, deve ritenersi che non sussiste l’ipotesi nella fattispecie concreta: l’immobile infatti è stato occupato anche durante l’epidemia, e la prestazione corrispettiva (cioè il pagamento del canone) non può venir meno se non con l’ipotesi scuola del ritiro dei mezzi pagamento (moneta, moneta elettronica) utilizzabili. In sostanza entrambe le prestazioni hanno continuato ad essere possibili.
Va anche esclusa la c.d. “impossibilità parziale sopravvenuta” come prevista dall’art. 1464 cc: Quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.
Tale disposizione, in particolare, prevede la possibilità della riduzione della prestazione (canone), ma anche essa non ricorre nel caso concreto: innanzitutto non si può considerare la vicenda della emergenza sanitaria da agente virale SARS Cov 2 (che ha come conseguenza la malattia denominata COVlD-19) come una “prestazione di una parte (locatore) divenuta solo parzialmente impossibile”.
In secondo luogo non può ritenersi violato l’obbligo del locatore di consegnare e mantenere il bene in condizione da essere utilizzato secondo l’uso contrattualmente stabilito ai sensi dell’art. 1575 cc, non essendo riconducibile alcuna condotta di tale tipo al locatore, ma ad attività provvedimentale conseguente alla situazione di emergenza sanitaria di tipo pandemico. Infine, va considerato che la situazione di “impossibilità sopravvenuta parziale”, allo stato non ha le caratteristiche della definitività.
Non può nemmeno ipotizzarsi la detta impossibilità parziale sotto il diverso profilo di rendere la prestazione dovuta (canone) ripetibile in parte quando la stessa prestazione sia divenuta impossibile solo in parte, ai sensi dell’art. 1258 cc.
In questo caso il debitore (conduttore) si libera dall’obbligazione eseguendo la prestazione per la parte che è rimasta possibile. Anche qui, infatti, deve considerarsi che l’impossibilità parziale (ove fosse ipotizzabile), allo stato, non sarebbe comunque definitiva. Superata l’emergenza, infatti, l’immobile sarà nuovamente e totalmente utilizzabile e comunque, anche durante l’emergenza, lo stesso è stato occupato per la sua interezza da cose e beni del conduttore e dunque la limitazione non ha in realtà riguardato l’uso dell’immobile in sé.
Non è infine invocabile, ad avviso di questo giudice, neanche la cosiddetta impossibilità temporanea di adempiere alla propria obbligazione di cui all’art. 1256 cc, invocabile astrattamente a seguito del provvedimento di chiusura delle attività commerciali di cui al Dpcm dell’11 marzo 2020 e seguenti. Va considerato, infatti, che il divieto di esercitare temporaneamente l’attività non determina l’impossibilità per il conduttore di utilizzare l’immobile, che è la prestazione dovuta dalla contro parte (locatore). Inoltre la mancanza degli incassi dovuta alla chiusura forzata dell’esercizio commerciale non determina l’impossibilità di adempiere alla propria obbligazione (canone), atteso anche che il periodo interessato non è tale da esulare dal c.d. rischio di impresa.
Infine, non ricorre nemmeno la “eccessiva onerosità sopravvenuta” ai sensi dell’art. 1467 cc. L’immobile ha conservato il proprio valore locativo nel periodo interessato e, comunque, la onerosità deve attenere ad aspetti obiettivi e non alle condizioni soggettive (perdita di reddito, ad esempio) del conduttore. Tale soluzione, peraltro, potrebbe determinare solo la pretesa di risoluzione del contratto da parte del conduttore (evitando il preavviso di 6 mesi per gravi motivi) e sempre che il locatore, di fronte alla richiesta risoluzione, non “offra di modificare equamente le condizioni del contratto.”
Anche in questo caso, tuttavia, va considerata la non definitività della situazione di crisi che determina l’eccessiva onerosità ed il periodo limitato di tempo consente di ritenere che si verta in ipotesi di ordinario rischio di impresa, che grava sul conduttore.
7. Anche ove si ritenesse che l’equilibrio sinallagmatico fosse stato alterato in modo rilevante (ma si richiama sul punto quanto detto sopra) a causa della situazione di emergenza epidemiologica da Covid 19, deve comunque osservarsi che lo stesso legislatore ha già adottato meccanismi compensatori idonei a ripristinare un equilibrio sinallagmatico, od a ridurne lo squilibrio, con ciò rendendo ancor più difficile la possibilità di ricorso agli strumenti sopra esaminati.
Solo per fare alcuni esempi, il D.L. n. 18/2020, c.d. Cura Italia, ha previsto all’art. 65, del d.l. n. 18/2020, in favore del conduttore un credito di imposta pari al 60% dell’ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1- Negozi e botteghe.
Su tale aspetto, l’Agenzia delle Entrate (Ag. Entrate, circ. 3 aprile 2020, n. 8/E), tra i chiarimenti sulle norme del Decreto Cura Italia, ha fornito anche delle delucidazioni sul credito di imposta per le locazioni commerciali di negozi e botteghe di cui all’art. 65, d.l. n. 18/2020: il credito d’imposta, pari al 60% del canone di locazione del mese di marzo 2020, è riconosciuto solo sui canoni effettivamente pagati; un canone di locazione non pagato non produrrà il credito d’imposta in quanto la norma intende ristorare il conduttore del canone versato a fronte della sospensione dell’attività di impresa in questo periodo.
Tale previsione compensa già a livello teorico l’eventuale eccessiva onerosità cui il conduttore va incontro, e impedisce una rilevanza ai fini della risoluzione del contratto. Inoltre la norma fornisce una indiretta conferma della intangibilità del rapporto contrattuale alla luce della normativa, posto che, laddove l’ordinamento avesse già previsto al suo interno una possibile sospensione, riduzione o caducazione dei canoni dovuti, una simile disposizione non avrebbe avuto alcun senso.
L’art. 95 del c.d. decreto cura Italia ha invece previsto la possibilità, per le federazioni sportive nazionali, gli enti di promozione sportiva, le società e associazioni sportive, professionistiche e dilettantistiche, che hanno il domicilio fiscale, la sede legale o la sede operativa nel territorio dello Stato, di sospendere i canoni di locazione e concessori relativi all’affidamento di impianti sportivi pubblici dello Stato e degli enti territoriali.
Vi è poi l’art. 91, comma 6-bis, d.l. n. 18/2020, in base alla quale “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. Tale norma, ad avviso di questo giudicante, non consente una applicazione al caso di specie, se non nei limiti ristretti di un ritardo nei pagamenti: nessuna norma impedisce infatti il pagamento del canone e lo stesso è quindi certamente dovuto, non potendo assumere rilievo le difficoltà finanziarie temporanee di carattere soggettivo.
Del resto quando il legislatore ha voluto, è intervenuto espressamente, come in materia di impianti sportivi. In materia, l’art. 216 Decreto “Rilancio” ha espressamente previsto la rilevanza della limitazione imposta anche nel rapporto tra privati:
3. La sospensione delle attività sportive, disposta con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri attuativi dei citati decreti legge 23 febbraio 2020, n. 6, e 25 marzo 2020, n. 19, è sempre valutata, ai sensi degli articoli 1256, 1464, 1467 e 1468 del codice civile, e a decorrere dalla data di entrata in vigore degli stessi decreti attuativi, quale fattore di sopravvenuto squilibrio dell’assetto di interessi pattuito con il contratto di locazione di palestre, piscine e impianti sportivi di proprietà di soggetti privati.
In ragione di tale squilibrio il conduttore ha diritto, limitatamente alle cinque mensilità da marzo 2020 a luglio 2020, ad una corrispondente riduzione del canone locatizio che, salva la prova di un diverso ammontare a cura della parte interessata, si presume pari al cinquanta per cento del canone contrattualmente stabilito”, addirittura disponendo una automatica riduzione del canone (in mancanza di diversi accordi) pari al 50%, ponendo quindi un onere paritario tra le parti.
Anche questi pochi esempi, ma le ipotesi sono moltissime, confermano la validità di quanto detto in merito alla non ricorribilità agli strumenti ordinari di ripristino del sinallagma contrattuale.
Calandosi nella fattispecie, deve dunque rilevarsi che la richiesta della parte non può essere accolta.
8. Va anche rammentato che, seppur in diverso contestato, la Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, Sentenza 27 settembre 2016, n. 18987 ha sancito che “Inoltri termini, al conduttore non è consentito di astenersi dal versare il canone, ovvero di ridurlo unilateralmente, nel caso in cui si verifichi una riduzione o una diminuzione nel godimento del bene, e ciò anche quando si assume che tale evento sia ricollegabile al fatto del locatore. La sospensione totale o parziale dell’adempimento dell’obbligazione del conduttore è, difatti, legittima soltanto qualora venga completamente a mancare la controprestazione da parte del locatore costituendo altrimenti un’alterazione del sinallagma contrattuale che determina, uno squilibrio tra le prestazioni delle parti.
Del resto, anche il già analizzato art. 216 del decreto rilancio palesa che il legislatore “ubi voluit, dixit”, a conferma della irrilevanza delle invocate disposizioni codicistiche, evidentemente inapplicabili in contesti diversi da quelli in cui è stata espressamente richiamata (e quindi estesa) dal legislatore.
In conclusione, pur prendendo atto che il legislatore stesso ha riconosciuto la eccezionalità della situazione e le gravi ripercussioni che ha comportato, non può che riconoscersi che non ha voluto prevedere una forma di intervento normativo idonea ad incidere in modo generalizzato sui rapporti locatizi di natura privata (intervenendo invece sui canoni degli impianti sportivi), ma anzi, al contrario, prevedendo forma di sgravi fiscali, da un lato ha declinato forme di intervento dirette nei rapporti tra privati, dall’altro ha indirettamente confermato la perdurante validità ed efficacia dei vincoli, rimettendo alla eventuale volontà delle parti – anche in previsione del periodo di difficile ripresa dello stesso mercato degli affitti, che potrebbe ex se spingere i locatari alla eventuale revisione al ribasso degli accordi – ogni eventuale possibilità di modifica.
9. Considerato altresì che la giustificazione del ritardo nei pagamenti, prevista normativamente ex art. 91, comma 6-bis, d.l. n. 18/2020, si applica solo ai mesi marzo/giugno 2020, e che comunque è decorso un notevole lasso di tempo
10. Per tutte le considerazioni sopra esposte, in presenza di acclarata morosità in mancanza di opposizione fondata su prova scritta, va disposto il rilascio dell’immobile in applicazione dell’art. 665 cpc, dando atto che non sussistono gravi ragioni in contrario.
P.Q.M.
non convalida l’intimazione,
visto l’art. 665 cpc dispone il rilascio dell’immobile a far data dal 16.3.2021, visto l’art. 667 cpc dispone il mutamento del rito, fissa l’udienza del 15.9.2021 ore 11.00 per la prosecuzione del giudizio, assegnando a parte ricorrente termine fino a 30 giorni prima per depositare memoria integrativa ex art. 426 cpc e termine fino a 10 giorni prima alla parte resistente convenuta per deposito della propria memoria integrativa.
letto l’art. 5, co. 1 bis, D.Lgs. 28/2010,
– dispone l’esperimento del procedimento di mediazione avvisando le parti che lo stesso è condizione di procedibilità della domanda giudiziale;
– assegna alle parti il termine di 15 (quindici) giorni decorrenti dal 1.1.2021 per promuovere il procedimento di mediazione innanzi all’organismo che ritengono più idoneo per trattare la controversia in oggetto;
– assegna termine di 3 (tre) mesi per l’espletamento del procedimento di mediazione;
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