Corte di Cassazione, Sezione Lavoro civile Ordinanza 26 aprile 2018, n. 10142

la modalita’ oraria e’ un elemento qualificante della prestazione oggetto del contratto part-time sicche’, la variazione, in aumento o in diminuzione, del monte ore pattuito, costituisce una novazione oggettiva dell’intesa negoziale inizialmente concordata, che richiede una rinnovata manifestazione di volonta’, e non e’ pertanto desumibile per “facta concludentia” dal comportamento successivo delle parti ex articolo 1362 c.c.” (cfr. Cass. sez. 6 ord. 06/12/2016 n. 25006 e piu’ di recente Cass. sez. IV 19.1.2018 n. 1375). Neppure nel caso in cui un contratto collettivo aziendale preveda il mutamento del regime orario a part time come strumento alternativo alla collocazione in mobilita’ la regola della necessaria acquisizione del consenso scritto del lavoratore e stata ritenuta derogabile e, in applicazione della citata disposizione, si e’ sempre ritenuto che il rifiuto della trasformazione del rapporto non costituisse giustificato motivo di licenziamento.

 

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro civile Ordinanza 26 aprile 2018, n. 10142

Integrale

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere

Dott. LORITO Matilde – Consigliere

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8512/2016 proposto da:

(OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS) giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS) giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3925/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 28/09/2015 R.G.N. 3440/2014.

FATTO E DIRITTO

RILEVATO CHE:

Con sentenza in data 28 settembre 2015 la Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa citta’, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato da (OMISSIS) s.r.l. a (OMISSIS) in data 19 aprile 2011 ed ha ordinato ad (OMISSIS) s.p.a. (gia’ (OMISSIS) s.r.l.) la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro con adibizione della lavoratrice alle stesse mansioni svolte al momento del licenziamento e condanna al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dal licenziamento al ripristino del rapporto, oltre interessi e rivalutazione dalla maturazione delle singole voci di credito al saldo, ed al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali oltre che alle spese di entrambi i gradi di giudizio.

La Corte territoriale ha accertato che l’accordo sindacale del 30 gennaio 2010, sottoscritto all’indomani dell’acquisizione da parte del gruppo (OMISSIS) del controllo di (OMISSIS) s.r.l., non prevedeva affatto lo svolgimento in regime di solo full time delle c.d. funzioni di regia tra le quali rientravano i compiti di capo reparto svolti dalla lavoratrice licenziata. Conseguentemente ha ritenuto che il richiamo contenuto nell’accordo del 21 gennaio 2011 al modello organizzativo aziendale non poteva essere interpretato come una autorizzazione a procedere a modifiche unilaterali dei rapporti di lavoro part-time, convertendoli in full time senza il consenso del lavoratore. Sotto altro profilo ha escluso, poi, che alla garanzia di conservazione del medesimo livello di inquadramento, contenuta nell’accordo conseguisse il diritto del lavoratore a conservare il medesimo orario. In definitiva secondo la ricostruzione della Corte di appello, in mancanza di una disciplina convenzionale sull’orario di lavoro, doveva trovare applicazione la regola generale che, nel contratto part-time, subordina al consenso dell’interessato la sua modifica non senza sottolineare che una disposizione di senso diverso si porrebbe in contrasto con norme inderogabili (Decreto Legislativo n. 61 del 2000, articolo 5) e sarebbe percio’ nulla. Ha poi rilevato che era risultato accertato che la societa’ aveva chiuso alcuni dei suoi punti vendita, trasferendo altrove la sua attivita’, che, pertanto, non era cessata. Ha inoltre evidenziato che la ricorrente aveva accettato il trasferimento e si era opposta solo alla trasformazione a tempo pieno del rapporto. Quanto al rilievo del giudice di primo grado secondo cui il rifiuto dell’offerta occupazionale aveva costituito criterio di scelta del lavoratore da collocare in mobilita’ e non era stato assunto a giustificato motivo di licenziamento la Corte di merito ha evidenziato che il divieto posto dal Decreto Legislativo n. 61 del 2000, articolo 5, riguarda indifferentemente i licenziamenti individuali e quelli collettivi.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso (OMISSIS) s.p.a. affidato a cinque motivi al quale ha opposto difese la (OMISSIS) con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’articolo 380 bis c.p.c., comma 1.

CONSIDERATO CHE:

L’eccezione di invalidita’ del mandato apposto a margine del ricorso per cassazione in relazione alla sua genericita’ e’ infondata atteso che e’ valida la procura apposta a margine del ricorso per cassazione, ancorche’ il mandato difensivo sia privo di data e conferito con espressioni generiche, poiche’ l’incorporazione dei due atti in un medesimo contesto documentale implica necessariamente il puntuale riferimento dell’uno all’altro, come richiesto dall’articolo 365 c.p.c., ai fini del soddisfacimento del requisito della specialita’ (cfr. in termini Cass. 05/12/2014 n. 25725 ed inoltre Cass. 2.12.2005 n. 26233 e Cass. 25.1.2001 n. 1058).

Con il primo motivo e’ denunciata la violazione della L. 23 luglio 1991, n. 223, articoli 4, 5 e 24, dell’articolo 12 preleggi, degli articoli 1362, 1363, 1364, 1365, 1366, 1367 c.c. e ss., in relazione alla comunicazione del 5 gennaio 2011, all’accordo sindacale del 21.1.2011 e alla proposta di ricollocazione del 29.3.2011 oltre che l’omesso esame di fatti decisivi per la definizione del giudizio accertati dalla sentenza e comunque emergenti dalla documentazione richiamata e dalle allegazioni difensive contenute nel ricorso proposto ai sensi dell’articolo 414 c.p.c.. Deduce la ricorrente che il criterio unico concordato con le organizzazioni sindacali per procedere alla collocazione in mobilita’ dei lavoratori in esubero era quello della mancata accettazione della proposta aziendale di ricollocazione con riguardo alla quale non vi era alcun obbligo di conservare la posizione di part time gia’ ricoperta. Nell’accordo del 21.1.2011 si fa riferimento alla necessita’ di mantenere lo stesso livello di inquadramento ma non viene fatto alcun cenno all’orario di lavoro di tal che, ad avviso della ricorrente una proposta di modifica non configurerebbe la violazione dell’accordo denunciata. Non ci si troverebbe in presenza di una modifica unilaterale dell’orario di lavoro atteso che la proposta formulata poteva e doveva essere accettata dalla lavoratrice la quale, in via generale, era consapevole delle conseguenze previste dall’accordo di un eventuale rifiuto della ricollocazione.

Con il secondo motivo di ricorso e’ denunciata la violazione e falsa applicazione della L. 23 luglio 1991, n. 223, articoli 4, 5 e 24, degli articoli 1362, 1363, 1364, 1365, 1366, 1367 c.c. e ss., in relazione alla proposta di ricollocazione del 29.3.2011 oltre che l’omesso esame di fatti decisivi per la definizione del giudizio con riferimento alle lettere del 6, 11, 13 e 18 aprile 2011 ed alla circostanza che la citata proposta di ricollocazione del 29 marzo 2011 non era stata mai accettata dalla lavoratrice che, viceversa, aveva formulato una controproposta a sua volta mai accettata dalla datrice di lavoro.

Con il terzo motivo di ricorso e’ denunciata la violazione e falsa applicazione degli articoli 112, 113, 115, 116 e 324 c.p.c., e degli articoli 2909 e 2967 c.c., oltre che l’omesso esame di fatti decisivi in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Sostiene la ricorrente di aver puntualmente evidenziato nel corso del giudizio che il nuovo modello organizzativo del gruppo (OMISSIS) richiedeva che le funzioni di regia (direttori, capi reparto, capi magazzino etc.) potessero essere svolte solo in regime di full time esigendo un presidio costante durante la giornata. Evidenzia che la ricorrente non aveva mai contestato tali circostanze che, pertanto, dovevano essere ritenute accertate. Sottolinea poi che neppure in appello erano state mosse critiche alla sentenza sul punto sicche’ l’accertamento della conformita’ della proposta formulata alla lavoratrice al nuovo modello organizzativo della societa’ doveva essere ritenuto definitivamente accertato e conseguentemente la Corte di merito non avrebbe dovuto procedere ad un suo nuovo esame.

Con il quarto motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli articoli 2697, 1362 – 1367 e 2086 c.c., e dell’articolo 41 Cost., in relazione agli accordi 30 gennaio 2010 e 21 gennaio 2011 e del comunicato sindacale del 22 febbraio 2010, del telegramma del 18 aprile 2011; la violazione degli articoli 112, 113, 115, 116 e 324 c.p.c., e l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5. La Corte territoriale non ha tenuto conto del fatto che se negli accordi del gennaio 2010 non vi era un richiamo alle c.d. funzioni di regia ed alle modalita’ particolari con le quali dovevano essere eseguite quelle prestazioni cio’ non esclude che tale previsione era contenuta nel modello organizzativo aziendale (MOA) e se ne era tenuto conto nella proposta di ricollocazione della lavoratrice del 29 marzo 2011 che ne era stata resa edotta gia’ con il telegramma inviatole il 18 aprile 2011. Tale circostanza non era mai stata contestata in giudizio e doveva percio’ essere ritenuta accertata. Peraltro, secondo la societa’ ricorrente, la determinazione aziendale di organizzare il servizio secondo un determinato schema di distribuzione dell’orario di lavoro e di durata giornaliera della prestazione non poteva essere sindacato dal giudice. Erroneamente poi la Corte di appello aveva tratto ulteriori elementi di valutazione da un comunicato sindacale risalente a piu’ di un anno prima e relativo a tutt’altra questione non utilizzabile per poter pervenire al convincimento che il licenziamento della lavoratrice era stato determinato da una trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno.

Con il quinto ed ultimo motivo di ricorso e’ denunciata ancora una volta la violazione e falsa applicazione della L. 23 luglio 1991, n. 223, articoli 4, 5 e 24, ed inoltre del Decreto Legislativo n. 61 del 2000, articolo 5, e dell’articolo 12 preleggi, articolo 1362 c.c. e ss., in relazione alli accordi 30 gennaio 2010 e 21 gennaio 2011 e del comunicato sindacale del 22 febbraio 2010, del telegramma del 18 aprile 2011; la violazione degli articoli 112, 113, 115, 116 e 324 c.p.c., e l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5. Nel rammentare che il licenziamento era conseguito alla chiusura del punto vendita dove la (OMISSIS) lavorava ed al rifiuto della alternativa occupazionale proposta con passaggio da regime di part time a quello di full time, la ricorrente sostiene che la Corte di merito avrebbe erroneamente imputato alla modifica dell’orario il licenziamento che, piu’ correttamente, era conseguito al rifiuto della proposta di ricollocazione formulata. Erra del pari la Corte nel ritenere che la proposta sarebbe stata invece accettata il 6 aprile 2011 pur se con rifiuto dell’orario a tempo pieno. Il giudice di appello avrebbe in violazione dell’articolo 345 c.p.c., ritenuto illegittimo l’accordo sindacale del 21 gennaio 2011 perche’ in contrasto con il Decreto Legislativo n. 61 del 2000, sebbene tale questione non fosse mai stata sollevata dalla lavoratrice e comunque il riferimento all’articolo 5 del citato decreto legislativo non era pertinente atteso che il recesso era conseguito, nell’ambito di un licenziamento collettivo, al rifiuto della nuova occupazione offerta e non ad una modifica dell’orario autoritativamente imposta.

Le articolate censure investono la sentenza sotto vari profili ma muovono tutte da un assunto. Il licenziamento della (OMISSIS) deve essere ricollegato al rifiuto da parte della lavoratrice di essere destinata ad una nuova sede di servizio, con identiche mansioni ed un diverso orario lavorativo, per effetto dell’adozione di un nuovo modello organizzativo aziendale, in virtu’ del quale alcune figure professionali dovevano essere presenti sul posto di lavoro per l’intero orario giornaliero.

Cio’ di cui si controverte in primo luogo e’ se la Corte territoriale nell’interpretare l’Accordo del 21 gennaio 2011, con il quale e’ stato individuato il criterio di scelta dei lavoratori in esubero nella mancata accettazione di proposte aziendali di ricollocazione – con garanzia di preservare retribuzione, livello di inquadramento e mansioni per posizioni coerenti con il modello organizzativo aziendale – sia incorsa nel denunciato vizio di violazione degli articoli 1362, 1363, 1364, 1365, 1366, 1367 c.c. e ss., (variamente denunciato nel primo, secondo quarto e quinto motivo di ricorso).

Ritiene il Collegio che tale vizio non sia riscontrabile nell’interpretazione offerta dalla Corte di merito. Premesso che nelle articolate censure la ricorrente, piuttosto che evidenziare le violazioni delle disposizioni citate, si limita a proporre una diversa lettura dei vari atti che hanno regolato la procedura che non e’ consentita davanti al giudice di legittimita’, ritiene comunque la Corte che il giudice di appello, nel ricostruire i fatti e verificare la legittimita’ dei comportamenti tenuti, ha preso correttamente ritenuto di dover verificare se vi era una lettura dell’Accordo del 21 gennaio 2011, con il quale erano stati concordati i criteri per l’individuazione del personale da collocare in mobilita’ e quindi licenziare, che fosse compatibile con la disciplina generale sul part time dettata dal Decreto Legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, nel testo ratione temporis applicabile alla fattispecie. In particolare ha verificato se un’applicazione dell’Accordo come attuata dalla societa’ oggi ricorrente fosse compatibile con l’articolo 5 di quel decreto che al primo comma prevede, a tutela ed incentivazione del lavoro a tempo parziale che ” Il rifiuto di un lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o il proprio rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.

Deve essere rimarcato allora come anche di recente ribadito da questa Corte, seppur con riguardo all’ipotesi inversa di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, che la modifica “ai sensi della disciplina dettata dal Decreto Legislativo n. 61 del 2000, non puo’ avvenire a seguito di determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma necessita del consenso scritto del lavoratore”. Si e’ infatti sottolineato che la modalita’ oraria e’ un elemento qualificante della prestazione oggetto del contratto part-time sicche’, la variazione, in aumento o in diminuzione, del monte ore pattuito, costituisce una novazione oggettiva dell’intesa negoziale inizialmente concordata, che richiede una rinnovata manifestazione di volonta’, e non e’ pertanto desumibile per “facta concludentia” dal comportamento successivo delle parti ex articolo 1362 c.c.” (cfr. Cass. sez. 6 ord. 06/12/2016 n. 25006 e piu’ di recente Cass. sez. IV 19.1.2018 n. 1375). Neppure nel caso in cui un contratto collettivo aziendale preveda il mutamento del regime orario a part time come strumento alternativo alla collocazione in mobilita’ la regola della necessaria acquisizione del consenso scritto del lavoratore e stata ritenuta derogabile e, in applicazione della citata disposizione, si e’ sempre ritenuto che il rifiuto della trasformazione del rapporto non costituisse giustificato motivo di licenziamento (cfr. Cass. 14/07/2014 n. 16089 ed ivi le richiamate Cass. 12/07/2006, n. 16169, 17/03/2003 n. 3898). A tali principi si e’ attenuto il giudice di appello osservando condivisibilmente che gli stessi sono applicabili tanto ai licenziamenti individuali quanto a quelli collettivi. Ad una corretta applicazione delle regole sopra richiamate consegue che l’Accordo con il quale si definiscono le regole della procedura di mobilita’ non puo’ consentire implicitamente una modifica del regime dell’orario gia’ esistente in quanto oggetto di specifico accordo tra le parti e, conseguentemente, l’offerta di una prestazione che incida sulla durata della prestazione e’ nulla perche’, in contrasto con le citate disposizioni, determina una modifica unilaterale del regime di part time vietata dalla legge ed il licenziamento che ne e’ conseguito, sull’errato presupposto di un rifiuto della nuova collocazione aziendale, e’ stato correttamente ritenuto illegittimo. Diversamente si finirebbe per ritenere, contra legem, legittima una modifica autoritativa del part time che per le ragioni sopra esposte non e’ consentita.

Quanto alla decisivita’ dell’omesso esame da parte della Corte territoriale del contenuto del Modello Organizzativo Aziendale da cui era poi scaturita la proposta di assegnazione mai accettata dalla lavoratrice osserva il Collegio che, diversamente da quanto ritenuto dalla ricorrente, la Corte ha correttamente ritenuto che l’esistenza di modifiche organizzative non autorizzavano percio’ la conversione del rapporto da part time a tempo pieno. Si tratta di una valutazione degli elementi offerti all’esame del giudice di appello che non e’ censurabile in cassazione ove sia l’esito di una plausibile ricostruzione dei fatti stessi.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e,liquidate in dispositivo, devono essere distratte in favore degli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS) che se ne dichiarano antistatari. Sussistono infine le condizioni di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’ che si liquidano in Euro 5000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie, oltre agli accessori dovuti per legge, spese da distrarsi in favore degli avv.ti (OMISSIS) e (OMISSIS), dichiaratisi antistatari.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’articolo 13, comma 1 bis, del citato D.P.R..

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.