Secondo l’elaborazione tradizionale di questa Corte e della dottrina, oggetto di tutela nel delitto di diffamazione e’ l’onore in senso oggettivo o esterno e cioe’ la reputazione del soggetto passivo del reato, da intendersi come il senso della dignita’ personale in conformita’ all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico. In definitiva, secondo quella che viene comunemente identificata come concezione fattuale dell’onore, cio’ che viene tutelato attraverso l’incriminazione di cui si tratta e’ l’opinione sociale del “valore” della persona offesa dal reato. Come noto, soprattutto in dottrina si e’ affermata anche una diversa elaborazione del concetto di “onore”, da intendersi come attributo originario dell’individuo, costituendo esso un valore intrinseco della persona umana in forza della dignita’ che gli e’ propria e che non puo’ essere negata dalla comunita’ sociale. Concezione questa ispirata al principio personalistico che pervade la carta costituzionale e che, superando, la dicotomia tra onore in senso soggettivo ed oggettivo propria della concezione fattuale, tende a ricondurre ad unita’ l’oggettivita’ giuridica dei delitti previsti dagli articoli 594 e 595 c.p..
La pronuncia in oggetto affronta il tema della risarcibilità dei danni derivanti dalla lesione dell’onore e della reputazione, tema che può essere approfondito leggendo il seguente articolo: Diffamazione a mezzo stampa, profili risarcitori di natura civilistica.
Corte di Cassazione, Sezione 5 penale Sentenza 29 novembre 2016, n. 50659
Integrale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZAZA Carlo – Presidente
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere
Dott. MORELLI Francesca – Consigliere
Dott. SCARLINI Enrico V. S. – Consigliere
Dott. PISTORELLI Luca – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 20/3/2015 del Giudice di Pace di Trieste;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Pistorelli Luca;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CUOMO Luigi, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito per l’imputato l’avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo l’accoglimento
del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata il Giudice di Pace di Trieste ha condannato alla sola pena pecuniaria ed ai soli effetti penali (OMISSIS) per il reato di diffamazione commesso ai danni di (OMISSIS), identificandolo nell’ambito di una querela proposta nei confronti di altra persona come “omosessuale”.
Avverso la sentenza ha proposto appello, trasmesso dal Tribunale di Trieste a questa Corte ai sensi dell’articolo 568 c.p.p., comma 5, l’imputato a mezzo del proprio difensore deducendo errata applicazione della legge penale e vizi della motivazione in merito alla configurabilita’ in concreto ed in astratto del reato contestato ed al mancato riconoscimento dell’esimente di cui all’articolo 599 c.p..
In tal senso, sotto il primo profilo, il ricorrente lamenta come il GdP non abbia valutato il contesto in cui e’ stato utilizzato il termine imputato, eccependo altresi’ il mancato riconoscimento della causa di non punibilita’ di cui all’articolo 598 c.p..
In relazione all’altro profilo viene invece contestata la stessa natura offensiva del termine “omossessuale”, sia evocando la perdita di qualsiasi carattere lesivo di tale espressione nell’evoluzione del linguaggio comune, sia evidenziando come il suo intrinseco significato non possa costituire un insulto.
Infine il ricorrente eccepisce il difetto dell’elemento soggettivo del reato.
Con memoria depositata il 4 ottobre 2016 ha proposto motivi nuovi eccependo il difetto di querela, posto che quella presentata all’udienza del 17 ottobre 2014 dalla persona offesa insieme ad altra documentazione non sarebbe stata acquisita dal Giudice di Pace ed era comunque priva di firma, mentre quella acquisita su iniziativa del pubblico ministero all’udienza del 7 febbraio 2014 era priva di ratifica e del timbro di un ufficio preposto alla ricezione, nonche’ dell’autentica della sottoscrizione.
Con memoria trasmessa il 3 ottobre 2016 la persona offesa ha dedotto l’inammissibilita’ del ricorso perche’ versato in fatto, l’insussistenza dell’invocata esimente di cui all’articolo 599 c.p.p., sottolineando la propria estraneita’ alla vertenza in corso tra l’imputato e la moglie, nonche’ la configurabilita’ del reato di diffamazione, attesa la potenzialita’ lesiva dell’integrita’ e della dignita’ personale del termine “omosessuale” dispiegato dal (OMISSIS) e la chiara intenzione denigratoria con il quale lo stesso e’ stato utilizzato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso e’ fondato nei limiti di seguito esposti.
Atteso il carattere potenzialmente pregiudiziale dei profili con essi prospettati, devono essere innanzi tutti esaminati i motivi nuovi proposti dal ricorrente, i quali sono peraltro inammissibili in quanto non hanno alcuna attinenza con quelli proposti con il ricorso principale.
Deve infatti ribadirsi che i motivi nuovi di impugnazione debbono essere inerenti ai temi specificati nei capi e punti della decisione investiti dall’impugnazione principale gia’ presentata essendo necessaria la sussistenza di una connessione funzionale tra i motivi nuovi e quelli originari (ex multis Sez. 1, n. 5182 del 15 gennaio 2013, Vatavu Ionut, Rv. 254485; Sez. 3, n. 14776 del 22 gennaio 2004, Sbragi, Rv. 228525).
Non di meno deve osservarsi come gli stessi siano altresi’ manifestamente infondati, giacche’ dalla documentazione allegata dallo stesso ricorrente (rimanendo dunque ininfluente, a questo punto, che tale documentazione, ancorche’ prodotta, non fosse stata formalmente acquisita dal Giudice di Pace) emerge che la querela venne effettivamente presentata il 20 maggio 2013 presso l’ufficio denunce della Questura di Trieste, il cui personale procedette alla ratifica dell’atto ed all’identificazione della persona offesa querelante che l’aveva proposta, risultando dunque irrilevante che la stessa non l’avesse sottoscritta (ex multis Sez. 2, n. 50958 del 03/12/2013 – dep. 17/12/2013, Vergari, Rv. 25997101).
Sono invece fondati i rilievi del ricorrente in ordine alla ritenuta tipicita’ del fatto imputato ed il loro accoglimento comporta l’assorbimento di tutti gli altri motivi proposti con il ricorso.
Secondo l’elaborazione tradizionale di questa Corte e della dottrina, oggetto di tutela nel delitto di diffamazione e’ l’onore in senso oggettivo o esterno e cioe’ la reputazione del soggetto passivo del reato, da intendersi come il senso della dignita’ personale in conformita’ all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico (cosi’ tra le tante Sez. 5, n. 3247 del 28 febbraio 1995, Labertini Padovani ed altro, Rv. 20105401).
In definitiva, secondo quella che viene comunemente identificata come concezione fattuale dell’onore, cio’ che viene tutelato attraverso l’incriminazione di cui si tratta e’ l’opinione sociale del “valore” della persona offesa dal reato.
Come noto, soprattutto in dottrina si e’ affermata anche una diversa elaborazione del concetto di “onore”, da intendersi come attributo originario dell’individuo, costituendo esso un valore intrinseco della persona umana in forza della dignita’ che gli e’ propria e che non puo’ essere negata dalla comunita’ sociale.
Concezione questa ispirata al principio personalistico che pervade la carta costituzionale e che, superando, la dicotomia tra onore in senso soggettivo ed oggettivo propria della concezione fattuale, tende a ricondurre ad unita’ l’oggettivita’ giuridica dei delitti previsti dagli articoli 594 e 595 c.p..
Le due concezioni trovano in ogni caso un punto di contatto nel distinguere la lesione della reputazione da quella dell’identita’ personale, che, secondo la definizione di autorevole dottrina, corrisponde al diritto dell’individuo alla rappresentazione della propria personalita’ agli altri senza alterazioni e travisamenti.
Interesse che puo’ essere violato anche attraverso rappresentazioni offensive dell’onore, ma che, al di fuori di tale ultimo caso, non ha autonoma rilevanza penale, integrando la sua lesione esclusivamente un illecito civile (Sez. 5, n. 849/93 del 6 novembre 1992, Tabucchi, Rv. 19349401).
La tipicita’ della condotta di diffamazione consiste nell’offesa della reputazione.
E’ dunque necessario, nel caso della comunicazione scritta od orale, che i termini dispiegati od il concetto veicolato attraverso di essi siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo.
In tal senso, nel caso di specie, e’ innanzi tutto da escludere che il termine “omosessuale” utilizzato dall’imputato abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto.
A differenza di altri appellativi che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio secondo i canoni del linguaggio corrente (cfr. Sez. 5 n. 24513 del 22 giugno 2006, Merola non massimata), il termine in questione assume infatti un carattere di per se’ neutro, limitandosi ad attribuire una qualita’ personale al soggetto evocato ed e’ in tal senso entrato nell’uso comune.
E’ da escludere altresi’ che la mera attribuzione della suddetta qualita’ – attinente alle preferenze sessuali dell’individuo – abbia di per se’ un carattere lesivo della reputazione del soggetto passivo e cio’ tenendo conto dell’evoluzione della percezione della circostanza da parte della collettivita’, quale che sia la concezione dell’interesse tutelato che si ritenga di accogliere.
Infine il termine utilizzato non puo’ ritenersi effettivamente offensivo nemmeno se valutato nel contesto in cui e’ stato concretamente dispiegato, evocativo, secondo la sentenza impugnata e la persona offesa, dell’intento denigratorio dell’imputato.
Infatti l’inconferenza, rispetto all’oggetto della denuncia presentata dal (OMISSIS), della precisazione circa il presunto orientamento sessuale del querelante non e’ di per se’ in grado di rendere tipica l’offesa, anche nel caso, come quello di specie, in cui il soggetto passivo rivendica la propria eterosessualita’.
Circostanza che semmai rivela come la condotta dell’imputato sia al piu’ riconducibile ad una lesione dell’identita’ personale della persona offesa, che, per le ragioni gia’ illustrate, non e’ autonomamente rilevante ai fini della configurabilita’ del reato contestato.
Conseguentemente la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perche’ il fatto non sussiste.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perche’ il fatto non sussiste.