le dichiarazioni resa nel verbale di mancata conciliazione devono ritenersi inutilizzabili. Infatti, ai sensi dell’art. 10 del D.Lgs. n. 28 del 4 marzo 2010: “Le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni. Sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio”. In sostanza, allo scopo di favorire la partecipazione alla mediazione e così, la risoluzione stragiudiziale delle controversie, il legislatore ha disposto, per un verso, che dalla mancata partecipazione della parte “senza giustificato motivo” il giudice può trarne argomenti di prova (art. 8, comma bis); per altro verso, l’art. 10 comma 1 dispone l’inutilizzabilità delle informazioni, acquisite nel corso del procedimento, nel giudizio avente il medesimo oggetto, iniziato o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione, salvo il consenso della parte dalla quale derivano le informazioni. Pertanto, atteso che l’appellato non prestava il consenso all’utilizzo delle proprie dichiarazione rese nel procedimento di mediazione, tali elementi probatori devono ritenersi inutilizzabili ai fini della decisione.

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Corte d’Appello|Catanzaro|Sezione 1|Civile|Sentenza|13 dicembre 2022| n. 1405

Data udienza 5 dicembre 2022

Repubblica Italiana

In nome del popolo italiano

Corte d’Appello di Catanzaro

Sezione prima civile

La Corte di Appello, riunita in Camera di Consiglio, così composta:

1) Dott. Antonella Eugenia Rizzo Presidente

2) Dott. Antonio Rizzuti Consigliere

3) Dott. Beatrice Magaro’ Consigliere-Relatore

Ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nella causa civile in grado d’Appello, iscritta al n. 2419 del Registro Generale degli Affari Contenziosi Civili dell’anno 2019 e vertente

TRA

(…), (…) e (…), rappresentate e difese dall’Avv. (…), presso il cui studio sito in Cosenza alla Via (…), s.n.c., sono elettivamente domiciliate,

Appellanti;

CONTRO

(…), rappresentata e difesa dall’Avv. (…), presso il cui studio sito in Cosenza al Viale (…), è elettivamente domiciliata,

Appellata;

OGGETTO: domanda di riduzione con contestuale azione di simulazione avverso sentenza del Tribunale di Cosenza

CONCLUSIONI:

Per le appellanti:

“In via principale e nel merito, “Voglia l’Ecc.ma Corte di Appello Adita, contrariis reiectis, nel merito per le causali di cui in narrativa che qui si intendono integralmente riportate e trascritte, riformare in toto la sentenza di grado di cui al n. 2360/2019 – N. 513/2013 del R.G.A.C., emessa dall’Ill.mo Tribunale di Cosenza in data 20.11.2019, pubblicata in pari data e notificata da controparte via pec in data 29.11.2019 ed indi e per l’effetto:

a) Accertare, statuire e dichiarare simulato l’atto di compravendita avente ad oggetto l’appartamento sito in Cosenza, alla Via (…) (già denominata Via (…)), ceduto a titolo oneroso in vita dalla “de cuius” Sig.ra (…), mediante atto redatto per Notar (…) in data 28.12.2004 e registrato in data 29.12.2004, relativamente alla sola nuda proprietà, con riserva di usufrutto vita sua natural durante, in favore della Sig.ra (…), odierna appellata, unitamente all’annessa cantina, nonché al garage posto al piano terra ed alla porzione di 1/12 dei locali soffitta, oltre all’assegnazione in godimento esclusivo della soffitta individuata al sub 24 di mq.16, per un importo complessivo pari ad Euro 87.000,00, poiché atto apparentemente a titolo oneroso che cela in realtà un negozio dissimulato (donazione), di cui si richiede che venga dichiarato nullo per vizio di forma (assenza di testimoni al momento della stipula in violazione della legge notarile), per come esposto in narrativa, anche ed ulteriormente in ragione del fatto che tale atto è stato stipulato dalla de cuius a cui all’epoca della stipula era stata certificata un’invalidità con totale e permanente inabilità lavorativa al 100%, con necessità di assistenza continua con incapacità di svolgere gli atti quotidiani della vita in ragione di una “Vascolopatia cerebrale con grave quadro di deterioramento mentale,” per come si evince dalla certificazione della Commissione di prima istanza dell’ASP di Cosenza prodotta in atti, in ogni caso con conseguente immediata imputazione del bene alla massa ereditaria ai fini della riduzione della donazione dissimulata; in via del tutto subordinata nel denegato caso in cui si qualifichi l’atto di compravendita de qua come un mero “negotium mixtum cum donatione” comunque ritenuto dalla giurisprudenza come liberalità indiretta e soggetto quindi a riduzione, si richiede che la quota del valore di tale immobile costituente la differenza tra prezzo pagato e valore dell’immobile ovvero la quota del valore del bene dovuta per giustizia sia in ogni caso imputata per la determinazione della massa ereditaria come per legge, costituendo anche in tale evenienza un atto oltremodo lesivo delle quote di riserva delle odierne appellanti, attesa in ogni caso la rilevante sproporzione di valore tra il prezzo di acquisto ed il reale valore di mercato che ha creato l’arricchimento della parte appellata e la conseguente lesione di legittima delle tre odierne appellanti; nel contempo sempre per le causali di cui in narrativa che qui si intendono integralmente riportate e trascritte, Voglia l’Ecc.ma Corte di Appello Adita, contrariis reiectis:

B) accertare e dichiarare simulato l’atto di donazione di cui al n. 72463 – rep. n. 23346 redatto in data 28.12.2004 per Notar (…) e registrato in data 3.01.2005, mediante il quale la de cuius Sig.ra (…) donava irrevocabilmente in conto di legittima e per il supero sul disponibile e con dispensa di collazione in suo favore alla figlia Sig.ra (…), tutti i diritti pari ad 1/6 vantati sui sette locali commerciali siti in Cosenza posti al piano terra sempre alla Via (…), poiché, per come esposto in narrativa, tale atto a titolo apparentemente gratuito cela in realtà un atto di compravendita (per diretta ammissione di controparte), di cui si richiede che venga dichiarata la nullità poiché teso ad eludere la cogenza delle leggi fiscali per mitigarne l’effetto impositivo della tassazione, e dunque affetto da nullità ex artt. 1418 c. 2, c.c. e 1345 c.c. poiché frutto di un intento fraudolento, versandosi in un’ipotesi di “frau legis” ex art. 1344 c.c., come da giurisprudenza pacifica della Suprema Corte di Cassazione Nn. 20816 e 22932 entrambe del 2005;

in via subordinata, nel caso denegato di mancato accoglimento di tale tesi, si richiede che tale liberalità comunque vada computata alla massa per il valore determinato per giustizia ai fini della reintegra della quota di legittima delle tre parti appellanti poiché atto lesivo delle predette quote; indi e per l’effetto sempre in via principale e nel merito, Voglia l’Ecc.ma Corte di Appello Adita, contrariis reiectis:

c) una volta accertata e dichiarata la domanda di simulazione e/o di nullità sopra esposte per l’atto di compravendita e per l’atto di donazione summenzionati, ovvero comunque imputate le liberalità alla massa come per legge in caso di accoglimento delle richieste sopra formulate in via subordinata, accertare definitivamente il valore dell’asse ereditario al momento della apertura della successione relativamente al patrimonio ereditario della Sig.ra (…), costituito dalla proprietà dell’appartamento sito in Cosenza, alla (…) (già denominata Via (…)), unitamente all’annessa cantina, nonché al garage posto al piano terra ed alla porzione di 1/12 dei locali soffitta, oltre all’assegnazione in godimento esclusivo della soffitta individuata al sub 24 di mq.16, nonché costituito da tutti i diritti pari ad 1/6 vantati sui sette locali commerciali siti in Cosenza, alla Via (…), nonché dai frutti delle locazioni dei locali commerciali e/o dei frutti civili eventualmente goduti per la locazione dell’appartamento de quo;

d)indi e per l’effetto previa determinazione dell’eventuale quota disponibile, accertare e statuire che la quota di legittima in capo a ciascuna delle tre odierne appellanti, così determinata nel valore, pari ad 1/4 del patrimonio ereditario summenzionato della de cuius, è stata lesa per le ragioni esposte in narrativa e che, dunque, deve essere reintegrata come per legge per un valore da quantificarsi in Euro 102.669,25, ovvero per un valore maggiore o minore dovuto per giustizia, cui dovrà scomputarsi il valore di 30.000,00 già oggetto di integrazione di ciascuna singola quota di riserva in quanto corrisposto dalla parte appellata in favore di ciascuna delle tre germane (…) odierne appellanti, e dunque per un valore finale di condanna pari ad Euro 72.669,25 ovvero per un valore maggiore o minore dovuto per giustizia per ciascuna quota di riserva afferente le tre parti appellanti;

e)indi per l’effetto accertata la suddetta lesione della quota di legittima afferente le tre appellanti nella loro qualità di eredi legittimari, procedere alla riduzione proporzionale per il valore corrispondente dell’atto di donazione di cui all’atto n.72463 – rep.n. 23346 redatto in data 28.12.2004 per Notar (…) e registrato in data 3.01.2005, mediante il quale la de cuius donava irrevocabilmente in conto di legittima e per il supero sul disponibile e con dispensa di collazione in Suo favore, tutti i diritti pari ad 1/6 vantati sui sette locali commerciali siti in Cosenza posti al piano terra sempre alla Via (…), nonché della donazione dissimulata stilata sotto la veste di atto di compravendita affetto da nullità insanabile, avente ad oggetto la nuda (poi divenuta piena) proprietà dell’appartamento sito in Cosenza, alla Via (…) (già denominata Via (…)), unitamente all’annessa cantina, nonché al garage posto al piano terra ed alla porzione di 1/12 dei locali soffitta, oltre all’assegnazione in godimento esclusivo della soffitta individuata al sub 24 di mq.16;

f) indi per l’effetto, condannare la parte appellata a corrispondere all’odierne appellanti il valore della quota ereditaria così come determinata in corso di giudizio, per un valore pari ad Euro 72.669,25 ovvero per un valore maggiore o minore dovuto per giustizia per ciascuna quota di riserva (importo dato dal valore della quota di riserva pari ad un valore di Euro 102.669,25, cui dovrà scomputarsi il valore di 30.000,00, per i motivi sopra esposti), il tutto tramite versamento nelle di loro mani della somma di denaro corrispondente, comprensiva degli interessi legali e della rivalutazione come per legge, dal dì dovuto sino al saldo, oppure, in alternativa, se ritenuto dall’Ill.ma Corte Adita, tramite attribuzione in natura di una porzione di immobile o di un cespite equivalente per valore, secondo un’ ipotesi e/o un progetto di comoda divisibilità dei beni ricadenti nell’asse ereditario, di cui si rimette all’On.le Corte Adita ogni decisione circa le modalità anche tenuto conto delle risultanze peritali di primo grado del CTU Ing. Bruno; con vittoria di spese e compensi di lite del doppio giudizio, da distrarsi in favore dell’odierno procuratore in atti, i sensi e per gli effetti dell’art. 93 c.p.c.”.

Per l’appellata: “l’adita Corte – disattesa e respinta ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, in via preliminare, dichiari inammissibile l’appello proposto ovvero, subordinatamente, lo rigetti perché del tutto infondata nel merito. Con vittoria di spese e compensi per il doppio grado di giudizio”.

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

Lo svolgimento del processo e le difese svolte dalle parti nel giudizio di prime cure sono adeguatamente compendiati nella sentenza impugnata nei termini che di seguito si trascrivono: “Con atto di citazione ritualmente notificato, le sig.ra (…), hanno convenuto in giudizio la germana (…) al fine di sentire dichiarare in via pregiudiziale e nel merito la simulazione dell’atto di compravendita “avente ad oggetto l’appartamento sito in Cosenza alla Via (…), 103/B (già denominata Via (…)) ceduto a titolo oneroso in vita dalla de cuius Sig.ra (…), mediante atto redatto per Notar (…) in data 28/12/2004 relativamente alla sola nuda proprietà, con riserva di usufrutto vita sua natural durante, in favore della Sig.ra (…), odierna convenuta, unitamente all’annessa cantina nonché al garage al piano terra ed alla porzione di 1/12 dei locali soffitta oltre all’assegnazione in godimento esclusivo della soffitta individuata al sub 24 di mq. 16, per un importo complessivo pari ad Euro 87.000,00″; sempre in via pregiudiziale nel merito, accertare e dichiarare la simulazione dell’atto di donazione per notar (…) del 28.12.2004 con il quale (…) ha donato a (…) irrevocabilmente in conto legittima e per il supero sul disponibile e con dispensa da collazione tutti i diritti pari ad 1/6 vantati sui sette locali commerciali siti in Cosenza posti al piano terra del medesimo fabbricato in Via (…) ai nn. (…). Si costituiva in giudizio la convenuta, con comparsa del 2.5.2013 contestando la domanda tutta e in via preliminare, chiedendo di dichiarare l’inammissibilità dell’azione proposta dalle germane (…) e – comunque -l’infondatezza nel merito della domanda stessa; vinte le spese di lite. La causa veniva istruita con prove testimoniali e consulenze tecniche d’ufficio. Terminava la fase istruttoria, la causa, all’udienza del 10.06.2019, veniva trattenuta in decisione, con contestuale concessione dei termini di legge per il deposito delle memorie conclusionali e delle note di replica ex art. 190 c.p.c.”.

Con sentenza n. 2360/2019, pubblicata in data 20.11.2019, il Tribunale ordinario di Cosenza, definitivamente pronunciando sulla causa in oggetto, così provvedeva:

“- rigetta la domanda;

– compensa integralmente le spese di lite fra le parti;

– pone definitivamente a carico delle parti istanti, in solido, le spese di liquidazione dei consulenti tecnici”.

Avverso la predetta decisione proponevano appello (…), (…) e (…), con atto di citazione regolarmente notificato, del 23.12.2019, deducendo l’abnormità, l’illegittimità, illogicità, l’irragionevolezza e l’infondatezza della sentenza di cui sopra, sulla scorta dei seguenti motivi di gravame: 1) erroneità della decisione nella parte in cui, sulla base dell’errata CTU, il giudice ha ritenuto sussistente la piena capacità di intendere e di volere in capo alla de cuius al momento della stipula degli atti impugnati e vizio di motivazione; 2) rigetto immotivato e illegittimo dell’azione di simulazione relativa all’atto di compravendita; 3) errata statuizione circa la liceità dell’atto di donazione, nonché errato rigetto della domanda di accertamento della simulazione.

Concludeva come in epigrafe.

Si costituiva in giudizio (…), la quale contestava le avverse deduzioni, chiedendo il rigetto dell’appello di cui deduceva l’inammissibilità e l’infondatezza, concludendo come in epigrafe.

Con ordinanza del 23.07.2020, questa Corte dichiarava inammissibile l’istanza di sospensione dell’esecutività della sentenza.

All’udienza tenutasi il 05.07.22 la causa veniva trattenuta in decisione. L’appello è infondato e non può trovare accoglimento.

Va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità dell’appello ex art. 342 c.p.c. sollevata dall’appellata, per assoluta mancata specificità dei motivi di gravame. (cfr. comparsa di costituzione e risposta in appello).

L’eccezione è infondata.

Invero, il paradigma generale dell’atto di appello, previsto dall’art. 342 c.p.c., non richiede che le affermazioni e le argomentazioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma impone all’appellante, più semplicemente, di: a) individuare in modo chiaro ed esauriente il “quantum appellatum”, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono; b) formulare le ragioni di dissenso, in fatto o in diritto, rispetto al percorso adottato dal primo giudice; c) esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata che vengono richieste (cfr., ad esempio, Cass., Sez. lavoro, n. 2143/2015).

In merito all’interpretazione della nuova formulazione dell’articolo 342 c.p.c. la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha enunciato il seguente principio di diritto: “Gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Resta tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado”. (Cass. sez. un. n. 27199/17).

In sostanza, quello che viene richiesto alla parte appellante è di porre il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perché queste siano censurabili.

Nel caso di specie, le censure mosse dalle appellanti sono chiare e specifiche, avendo censurato l’errata statuizione del giudice in relazione alla sussistenza della piena capacità di intendere e di volere in capo alla de cuius al momento della stipula degli atti impugnati, il rigetto immotivato e illegittimo dell’azione di simulazione relativa all’atto di compravendita e l’errata statuizione in ordine alla liceità dell’atto di donazione.

Tanto premesso, è adesso possibile esaminare analiticamente i singoli motivi di appello.

Con il primo motivo di gravame, le appellanti rilevano l’erroneità della decisione nella parte in cui, sulla base dell’errata CTU, il giudice ha ritenuto sussistente la piena capacità di intendere e di volere in capo alla de cuius al momento della stipula degli atti impugnati nonché, il vizio di motivazione sul punto, in quanto il giudice ha accertato la capacità di intendere e di volere della signora solo sulla base della CTU senza tenere in considerazione le circostanze critiche mosse dal perito di parte. In particolare, secondo le appellanti il negozio dissimulato è nullo in quanto l’atto di compravendita che lo cela è stato stipulato dalla de cuius dopo che le era stata certificata una totale e permanente inabilità lavorativa al 100% in ragione di una “Vascolopatia cerebrale con grave quadro di deterioramento mentale”, che dalle risultanze del CTP risulta essere una patologia invalidante gravissima e non più reversibile che ha reso la de cuius incapace di intendere e di volere.

Il motivo è infondato.

Quanto al vizio di motivazione, si osserva che questo ricorre nei casi in cui la sentenza non permette di comprendere le ragioni poste a suo fondamento, impedendo così ogni controllo sul percorso logico-argomentativo seguito per la formazione del convincimento del giudice. Se il giudice motiva la sentenza “per relationem” facendo proprie le conclusioni del CTU, incorre nel vizio di motivazione solo nel caso in cui, a fronte di specifiche e puntuali circostanze critiche mosse dal perito di parte alle risultanze della CTU, non prende in esame tali contrarie argomentazioni.

Tale assunto rappresenta l’eccezione all’ormai consolidato orientamento della Corte di Cassazione secondo cui “ove il giudice di merito riconosca convincenti le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, non è tenuto a esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, in quanto l’obbligo della motivazione è assolto già con l’indicazione delle fonti dell’apprezzamento espresso, dalle quali possa desumersi che le contrarie deduzioni delle parti siano state implicitamente rigettate” (Cass., sez. II, n. 21504/2018).

Inoltre, la Suprema Corte ha ribadito che “la possibilità per il giudice di limitarsi a condividere le argomentazioni tecniche svolte dal proprio consulente, recependole, deve considerarsi riferita al caso che le critiche mosse alla consulenza siano state già valutate dal consulente d’ufficio ed abbiano trovato motivata e convincente smentita in un rigoroso ragionamento logico” (Cass., sez. III, n. 10688/2008). Nelle successive pronunce ha chiarito che “non è necessario che il giudice si soffermi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte che, seppur non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili con le conclusioni tratte, risolvendosi in mere allegazioni difensive” (Cass., sez. I, n. 282/2009; Cass., sez. II, n. 21504/2018).

Orbene, nel caso di specie, risulta che la difesa delle appellanti aveva mosso rilievi critici alle risultanze della CTU svolta in primo grado, contestando la sussistenza della capacità di intendere e di volere della de cuius al momento della stipula dei negozi oggetto di causa. A tali rilievi critici il consulente tecnico aveva risposto compiutamente con relazione del 11.04.2018. Inoltre, in seguito alla richiesta di chiarimenti sul metodo scientifico utilizzato all’interno della CTU, il consulente ha presentato un’integrazione della CTU del 28.11.2018.

Pertanto, il giudice di primo grado, conformemente all’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, ha esaurito l’obbligo di motivare la sentenza facendo proprie le risultanze della CTU che sono chiare e motivate dettagliatamente anche rispetto alle critiche mosse dal CTP delle appellanti.

Quanto alla correttezza della CTU e, conseguentemente, della decisione del giudice di prime cure in ordine alla sussistenza della capacità di intendere e di volere della de cuius al tempo della redazione degli atti impugnati, le appellanti ritengono che questa sia errata in quanto si basa solo sulla narrazione dei fatti operata dalle parti in causa; inoltre, si sostiene non essere chiari i criteri scientifici su cui si fonda il convincimento del CTU in ordine alla conservazione della capacità della de cuius; infine, le conclusioni del CTU si pongono in contrasto sia con la certificazione di invalidità civile della Commissione di prima istanza del 5.11.2003, sia con le risultanze del CTP, secondo il quale la patologia di cui soffriva la de cuius, la “Vascolopatia cerebrale”, è una patologia che reca un’invalidità assoluta, gravissima e non reversibile.

Le contestazioni mosse dalle appellanti sono prive di fondamento. Ora, dev’essere precisato che l’incapacità naturale consiste nello stato di fatto della persona che, sebbene non interdetta, sia per qualsiasi causa, definitiva o transitoria, incapace di intendere e di volere nel momento in cui pone in essere un atto giuridicamente rilevante (art. 428 cod. civ.).

Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la loro menomazione, tale comunque da impedire la formazione di una volontà cosciente, secondo un giudizio che è riservato al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato (Cass. n. 30126/2018; Cass. n. 16359/2017).

Il codice civile pone una disciplina dettagliata allo scopo di contemperare sia l’interesse della parte incapace e sia l’interesse dell’altro contraente. In particolare – premesso che il vizio di cui è affetto il negozio giuridico è l’annullabilità, con applicazione del termine di prescrizione quinquennale decorrente dal momento in cui cessa lo stato di incapacità – quando la persona incapace realizza un negozio unilaterale, non sussistendo la necessità di tutelare l’affidamento di altri contraenti, l’annullamento dell’atto può essere richiesto dalla persona medesima o dai suoi eredi o aventi causa se risulta esclusivamente un grave pregiudizio all’autore (art. 428 cod. civ., 1° comma). L’accertamento dell’idoneità dell’atto recare un grave pregiudizio per l’autore va realizzato con particolare rigore, sulla base di una valutazione ex ante, tenendo in considerazione le caratteristiche strutturali del negozio, idoneo a svelarne la potenzialità lesiva (Cass. 11272/2020).

Viceversa, nell’ipotesi di stipulazione di contratti, l’esigenza di tutelare anche il legittimo affidamento della controparte determina la necessità di dimostrare, ai fini dell’annullamento, della malafede dell’altro contraente (art. 428 cod. civ., 2° comma).

In tal caso, il grave pregiudizio non costituisce un elemento indefettibile ai fini dell’annullamento, benché ove concretamente realizzatosi costituisce un indice rivelatore della malafede dell’altro contraente (Cass. 17381/2021). Una disciplina particolare è prevista nel caso di contratto di donazione, laddove l’art. 775 cod. civ., 1° comma, dispone: “La donazione fatta da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento in cui la donazione è stata fatta, può essere annullata su istanza del donante, dei suoi eredi o aventi causa”.

Dunque, nel caso di donazione unico presupposto ai fini dell’annullamento per incapacità naturale è dato dallo stato di incapacità di intendere e di volere: inoltre, il termine di prescrizione quinquennale, per espressa previsione normativa contenuta nel 2° comma dell’art. 775, decorre dal momento in cui è stata fatta la donazione. Orbene, nel caso in esame, il CTU non ha espletato la valutazione peritale solo sulla base delle dichiarazioni delle parti, come sostenuto dalle parti appellanti, bensì principalmente sulla base della documentazione prodotta in giudizio secondo quanto richiesto nel quesito posto dal giudice di prime cure (“Accerti il CTU sulla base della documentazione in atti la capacità di intendere e volere della de cuius (…) vedova (…) all’epoca della sottoscrizione degli atti notarili versati in atti, specificando se la capacità era totalmente o parzialmente scemata”).

Una volta concluse le operazioni peritali, il CTU ha accertato la sussistenza in capo alla Sig.ra (…) della capacità di intendere e di volere. Nel dettaglio, nella relazione il CTU afferma: “Alla luce delle valutazioni degli atti presenti nel fascicolo di parte e dei colloqui peritali, è parere del CTU che la capacità di intendere e di volere della Sig.ra (…), al momento della sottoscrizione dei due atti, fosse integra. La certificazione sanitaria presente in atti, prodotta dalle ricorrenti, non lascia nemmeno ipotizzare l’esistenza di un’anomalia mentale, transitoria o permanente, tale da privare la Sig.ra (…) della capacità di intendere e di volere, nello specifico della capacità di autodeterminarsi.

Tutti i certificati presenti in atti non lasciano ipotizzare, nemmeno in modo presunto, una incapacità di intendere e di volere assoluta, permanente o transitoria, della Sig.ra (…) sia generica, sia specifica al momento della firma dei due atti”. Quanto alla difficoltà/impossibilità della Sig.ra (…) di compiere da sola gli atti della vita quotidiana a causa della quale le era stata certificata un invalidità civile e riconosciuto il diritto di un accompagnatore, il CTU, anche rifacendosi al principio affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 28758/2017 secondo cui tale status psicofisico non implica di per sé la prova di un decadimento tale da integrare la carenza della capacità di intendere e di volere, ritiene che tali difficoltà non possano essere automaticamente ricondotti ad una incapacità di intendere e di volere (cfr. pag. 10-12 della CTU del dott. (…)).

Rispetto alle osservazioni del CTP delle appellanti, il CTU rileva che dalla diagnosi di vasculopatia cerebrale non si può giungere automaticamente alla conclusione dell’incapacità di intendere e di volere giacché non vi sono riferimenti scientifici a supporto di tale conclusione, e che la capacità in questione deve essere dimostrata non in astratto ma nello specifico, al momento della stipula degli atti (cfr. pag. 2 risposta del CTU alle osservazioni di parte).

Infine, quanto alle osservazioni in riferimento ai criteri scientifici utilizzati nella valutazione peritale e in riferimento alla mancata ricerca da parte del CTU di ulteriore documentazione medica, il CTU ha chiarito che era tenuto a svolgere la propria valutazione esclusivamente sulla base di quanto affermato e prodotto dalle parti, in capo alle quali grava l’onere di allegazione e di prova.

Orbene, la CTU appare chiara, logica ed esauriente e, pertanto, il giudice, facendo proprie le conclusioni del consulente, ha correttamente statuito in ordine alla sussistenza della capacità di intendere e di volere della de cuius al tempo della realizzazione degli atti oggetto della presente causa.

Infatti, la capacità di intendere e di volere si presume, sicché la prova dell’incapacità naturale è a carico della parte che intende avvalersene (Cass. civ. sez. II, 28 marzo 2002, n. 4539).

Peraltro, anche volendo disattendere le risultanze della CTU, le appellanti invocavano lo stato di incapacità della de cuius supportato da certificazione mediche. In particolare, è presente: a) certificato medico del 14.10.2003 a firma del dott. (…), il quale certificava che “la sig.ra (…) (…), visitata in data odierna, è risultata affetta da “demenza senile”; la stessa presenta inoltre difficoltà nella deambulazione e non è in grado di svolgere autonomamente gli atti di vita quotidiana”; b) certificato medico del 25.10.2003, ove si diagnosticava alla de cuius “Diabete mellito di tipo 2”; c) verbale di accertamento della prima commissione per l’accertamento degli stati di invalidità civile del 5.11.2003, nel quale si accertava: “(…) disturbi cognitivi con momenti di disorientamento (…) vasculopatia celebrale con grave quadro di deterioramento”.

Ebbene, in verità dalla documentazione medica allegata si evince certamente l’esistenza di un quadro patologico di (…), senza che ciò possa dimostrare l’esistenza di uno stato di incapacità della stessa al momento della stipulazione dei contratti. Come correttamente affermato dal CTU, dalla presenza di siffatte patologie non è possibile ricavare in modo diretto ed immediato l’incapacità di intendere e di volere, essendo piuttosto necessario dimostrare l’effettiva incapacità della parte al momento della conclusione dei contratti.

Infine, i negozi giuridici impugnati venivano realizzati dalla de cuius in data 28.12.2004, per cui anche laddove fosse stata dimostrata l’incapacità naturale, sarebbe ampiamente decorso il termine quinquennale di prescrizione per l’annullamento dei contratti (art. 428 cod. civ., ult. Comma) e delle donazioni (art. 775 cod. civ., ult. Comma). Infatti, in difformità rispetto a quanto sostenuto dalle appellanti, l’incapacità naturale determina l’annullabilità dei negozi posti in essere dall’incapace, e non la nullità.

Alla luce di tali motivazioni, la decisione del Tribunale sul punto è priva dei vizi censurati.

Con il secondo motivo di gravame, le appellanti censurano il rigetto immotivato e illegittimo dell’azione di simulazione relativa all’atto di compravendita, causato da una errata ricostruzione degli accadimenti di causa. In particolare, le appellanti evidenziano che: a) non era provato il pagamento del prezzo da parte dell’appellata e in favore della de cuius venditrice; b) il prezzo pattuito nel contratto era inferiore al valore reale del bene, sicché tale atto doveva qualificarsi come negotium mixtum cum donatione; c) il pagamento della somma di circa Euro 30.000,00 da parte dell’appellata e in favore delle appellanti non poteva riferirsi al prezzo della vendita.

Il motivo è infondato.

Il Codice civile non definisce la simulazione, limitandosi a predisporne un’apposita disciplina. In genere, la simulazione consiste nella stipulazione di un negozio giuridico con l’intesa che esso non corrisponda alla reale volontà delle parti, le quali non intendono ottenerne gli effetti (simulazione assoluta) ovvero perseguono interessi diversi rispetto a quelli apparenti (simulazione relativa).

La legge – dopo aver premesso all’art. 1414 cod. civ. che il negozio simulato non produce effetti tra le parti, mentre esplica i propri effetti il negozio dissimulato – pone una disciplina particolare in relazione alla prova della simulazione, la quale distingue sulla base dei soggetti che intendono rilevarla.

In proposito, l’art. 1417 cod. civ. dispone che le parti del contratto non possono provare la simulazione mediante prove testimoniali e, di conseguenza, attraverso le presunzioni (ex art. 2729 cod. ci., ult. Comma, secondo cui “Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni”), salvo l’ipotesi di illiceità del negozio dissimulato. In genere, la prova principale che le parti devono utilizzare per dimostrare l’avvenuta simulazione è data dalla produzione in giudizio del documento contenente l’accordo dissimulato. Viceversa, quando l’accertamento della simulazione è richiesto dai creditori o da terzi, la relativa prova può essere fornita con ogni mezzo. L’esonero della limitazione in favore dei terzi sorge dalla particolare difficoltà di costoro di fornire la prova della simulazione mediante il documento contente il negozio dissimulato.

Secondo l’orientamento costante della giurisprudenza, l’erede legittimario che agisce per la tutela del proprio diritto deve considerarsi terzo rispetto alle parti contraenti, laddove contestualmente all’azione di simulazione, proponga una domanda di riduzione della donazione dissimulata (Cass. 12317/2019; Cass. 19912/2014; Cass. 8215/2013; Cass. 24134/2009; Cass. 12496/2007).

Peraltro, qualora il terzo che intende far valere la simulazione offra, in ossequio all’art. 2697 c.c., elementi presuntivi del carattere fittizio della compravendita, incombe sull’acquirente l’onere di provare il pagamento del prezzo (Cass. 5326/2017; Cass. 17628/2007; Cass. 1413/2006; Cass. 11372/2005).

Nel caso in esame, la de cuius stipulava con la figlia (…) un contratto di vendita (registrato il 29.12.2004), autenticato dal Notaio Riccardo (…), con riserva di usufrutto vita natural durante, avente ad oggetto: a) l’appartamento sito in Cosenza, Via (…), identificato al Catasto fabbricati del Comune di Cosenza al fg. (…), p.lla (…) sub (…); b) garage di mq. 42, identificato al Catasto fabbricati del Comune di Cosenza al fg. (…), p.lla (…) sub 14; c) diritti pari a 1/12 sui locali soffitta, posti al piano quinto del medesimo fabbricato, identificati al Catasto fabbricati del Comune di Cosenza, fg. (…), pll.a (…) sub. 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31 e 32. Il prezzo della vendita era fissato ad euro 87.000,00 la qual somma la parte venditrice dichiarava di aver già ricevuto, per cui ne rilasciava quietanza di saldo.

Ebbene, in relazione a siffatto contratto di vendita, le appellanti ne adducevano la simulazione, sulla base delle seguenti presunzioni: I) il valore dell’immobile era notevolmente superiore rispetto a quello pattuito; II) sussiste un rapporto di ascendenza diretta tra le parti; III) non è stata fornita la prova del pagamento del prezzo.

In via subordinata, nel caso di rigetto dell’azione di accertamento della simulazione, le stesse appellanti chiedevano al giudice di qualificare il contratto di vendita come negotium mixtum cum donatione, stante la pattuizione di un prezzo notevolmente inferiore al valore di mercato.

Tali considerazioni non meritano accoglimento.

La parte appellata (acquirente) si difendeva in giudizio producendo un accordo dissimulato, con cui la stessa e la de cuius dichiaravano che il prezzo indicato del contratto di vendita era simulato (Euro 87.000,00), e che il reale e vero prezzo della vendita era pari ad euro 125.000,00. Inoltre, a contestazione del mancato pagamento del prezzo, produceva altresì tre assegni del valore ciascuno di euro 30.762,41 intestati alla stessa di cui erano beneficiarie (…), (…) e (…), con i quali avveniva il pagamento del prezzo della compravendita.

Ora – premesso che le appellanti agivano per la simulazione della vendita contestualmente all’azione di riduzione, per cui deve applicarsi il regime giuridico per la prova della simulazione prescritto dall’art. 1417 cod. civ. nei confronti dei terzi – deve rilevarsi l’infondatezza della domanda di accertamento della simulazione.

In primis, la presunzione di mancato pagamento del prezzo da parte acquirente non è fondata, avendo la stessa prodotto in giudizio l’emissione degli assegni per l’importo complessivo di euro 92.287,23 in favore delle appellanti. Inoltre, la sussistenza del negozio dissimulato prodotto in atti, avente ad oggetto la dichiarazione di simulazione esclusivamente in relazione al prezzo, secondo l’id quod plerumque accidit, consente di escludere, allo stato, l’esistenza di ulteriori volontà dissimulate.

Anche la subordinata domanda di qualificazione della vendita come negotium mixtum cum donatione non merita l’accoglimento.

In particolare, il negotium mixtum cum donatione consiste in un negozio a titolo oneroso in cui la prestazione del cedente supera la controprestazione del cessionario (Cass. 1685/1963), purché la differenza di valore sia voluta per spirito di liberalità (Cass. 7681/2019).

Il contratto configura una donazione indiretta, giacché la sproporzione tra le prestazioni (valore del bene e prezzo) è voluta dalle parti, per animo di liberalità, producendo l’effetto dell’arricchimento di un soggetto e, in via speculare, dell’impoverimento di un altro soggetto (Cass. 27050/2018).

Presupposto indefettibile per la qualificazione di un contratto di vendita come negotium mixtum cum donatione, allora, consiste nell’esistenza di uno squilibrio tra le prestazioni, supportata dalla prova dell’animus donandi in capo alla parte depauperata.

Orbene, nel caso in esame, anche volendo ammettere l’esistenza di una sproporzione tra le prestazioni del contratto di vendita del 28.12.2004, le appellanti non hanno dimostrato l’esistenza di un animus donandi in capo alla de cuius. Difatti, le appellanti hanno semplicemente rilevato l’esistenza di una serie di elementi presuntivi (rapporto di discendenza, prezzo inferiore al valore di mercato) senza che da ciò sia possibile ricavare uno spirito di liberalità. Peraltro, deve ricordarsi che la vendita aveva ad oggetto esclusivamente la nuda proprietà, poiché la parte venditrice si riservava il diritto di usufrutto vita natural durante, sicché dal valore di mercato dell’immobile deve scomputarsi il valore dell’usufrutto, con ciò diminuendo la sproporzione tra le prestazioni (valore immobile – prezzo pattuito).

In conclusione, anche in tal senso la decisione del Tribunale è priva dei vizi censurati.

Con il terzo motivo, le appellanti censurano la sentenza nella parte in cui il giudice di prime cure considerava lecito l’atto di donazione per assenza di norma imperativa violata; inoltre, si impugnava altresì la sentenza laddove il giudice non riteneva simulato l’atto di donazione.

Il motivo è infondato.

Entrambe le doglianze sono basate sulla dichiarazione resa dalla Sig.ra (…) nel verbale di mancata conciliazione laddove si legge “l’atto di donazione è dichiaratamente un atto simulato così concepito ai soli fini puramente fiscali d’altro tipo, ma che in effetti ha rappresentato esso stesso una parte della vendita stessa in relazione alla quale è stato corrisposto il corrispettivo dovuto”.

Nel dettaglio, secondo le appellanti da tale dichiarazione confessoria emerge sia la simulazione dell’atto di donazione, sia la nullità dello stesse perché diretto ad eludere le leggi fiscali.

In verità, tali dichiarazioni devono ritenersi inutilizzabili. Infatti, ai sensi dell’art. 10 del D.Lgs. n. 28 del 4 marzo 2010: “Le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni. Sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio”.

In sostanza, allo scopo di favorire la partecipazione alla mediazione e così, la risoluzione stragiudiziale delle controversie, il legislatore ha disposto, per un verso, che dalla mancata partecipazione della parte “senza giustificato motivo” il giudice può trarne argomenti di prova (art. 8, comma bis); per altro verso, l’art. 10 comma 1 dispone l’inutilizzabilità delle informazioni, acquisite nel corso del procedimento, nel giudizio avente il medesimo oggetto, iniziato o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione, salvo il consenso della parte dalla quale derivano le informazioni. Pertanto, atteso che l’appellato non prestava il consenso all’utilizzo delle proprie dichiarazione rese nel procedimento di mediazione, tali elementi probatori devono ritenersi inutilizzabili ai fini della decisione.

Da ciò consegue che sia la domanda di dichiarazione della nullità che la domanda di accertamento della simulazione devono ritenersi infondate, attesa l’assenza di alcun riscontro probatorio. Le appellanti non hanno soddisfatto l’onere probatorio circa l’esistenza di un intento simulatorio tra la de cuius e (…) e tanto meno sono ravvisabili vizi di invalidità del contratto di donazione.

Alla luce delle ragioni esposte, l’appello dev’essere rigettato e la sentenza riformata.

Le spese del giudizio d’appello seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo alla luce dei parametri di cui al DM 55/14, aggiornati al DM n.147 del 13.08.2022, avuto riguardo allo scaglione relativo alle cause di valore indeterminabile, complessità media, considerate, quanto al giudizio di secondo grado le seguenti fasi: studio controversia (Euro 1.259,00); introduttiva (Euro 833,00), e decisionale (Euro 2.144,00), per un totale pari ad Euro 4.236,00, oltre accessori di legge, in favore di (…).

Il rigetto integrale dell’appello comporta la declaratoria, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. n. 115/2002, dell’obbligo dell’appellante di pagare l’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello eventualmente dovuto per l’appello, mentre restano demandate in sede amministrativa le verifiche sull’effettiva sussistenza dell’obbligo di pagamento (cfr. Cass. Civ.13055/18).

P.Q.M.

La Corte d’Appello di Catanzaro – I Sezione Civile – definitivamente pronunciando sull’appello proposto da (…), (…) e (…) avverso la sentenza n. 2360/2019 emessa dal Tribunale Ordinario di Cosenza e pubblicata in data 20.11.2019, ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione disattesa – così provvede:

– Rigetta l’appello e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.

– Condanna (…), (…) e (…), solidalmente, alla rifusione delle spese processuali in favore di (…), per la somma complessiva di Euro 4.236,00, oltre accessori di legge;

– Dichiara che sussistono i presupposti di cui all’art.13 comma 1-quater del DPR 115/02, per porre a carico dell’appellante l’ulteriore importo pari, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso da remoto in data 5 dicembre 2022.

Depositata in Cancelleria il 13 dicembre 2022.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.