l’irrogazione della sanzione pecuniaria prevista dalla norma citata, nell’ipotesi di diffamazione commessa col mezzo della stampa, presuppone l’accertamento della sussistenza, a carico del direttore responsabile, di tutti gli elementi costitutivi del delitto di diffamazione. Essa pertanto non può essere comminata ove la responsabilità del direttore responsabile sia dichiarata per omesso controllo colposo della pubblicazione, e non per concorso doloso nel reato di diffamazione. Conformemente si è evidenziato che, se al direttore di un giornale non viene imputata la responsabilità a titolo di concorso nel reato ex art. 110 c.p. con l’autore della notizia pubblicata, nel reato di diffamazione a mezzo stampa, ma il reato proprio di cui all’art. 57 c.p. – fondato sull’obbligo di controllare il contenuto delle notizie diffuse dal giornale da egli diretto – non può essere accolta la domanda di condannarlo alla pena pecuniaria accessoria prevista dall’art. 12 L. n. 47 del 1948 perché, essendo indefettibilmente collegata al reato di diffamazione, può essere richiesta soltanto nei confronti del responsabile di questo, da intendersi in senso rigorosamente soggettivo.
La pronuncia in oggetto affronta il tema della risarcibilità dei danni derivanti dalla lesione dell’onore e della reputazione, tema che può essere approfondito leggendo il seguente articolo: Diffamazione a mezzo stampa, profili risarcitori di natura civilistica.
Tribunale Milano, Sezione 1 civile Sentenza 25 giugno 2018, n. 7043
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO DI MILANO
PRIMA CIVILE
Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Nicola Di Plotti
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 10682/2016 promossa da:
(…) (C.F. (…)), (…) (C.F. (…)), (…) S.R.L. (C.F. (…)) in persona del legale rappresentante pro tempore, tutti con il patrocinio dell’Avv. LU.GI. ((…)), elettivamente domiciliati in Milano via (…) presso lo studio dell’Avv. FR.AR.
ATTORI
contro
(…) S.P.A. (C.F. (…)) in persona del legale rappresentante pro tempore, (…) (C.F. (…)), (…) (C.F. (…)), tutti con il patrocinio dell’Avv. CA.MA., elettivamente domiciliati presso lo studio del difensore in MILANO CORSO (…)
CONVENUTI
CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Con atto di citazione di data 4.2.2016 (…) s.r.l., (…) e (…) convengono in giudizio (…), quale autrice dell’articolo dal titolo “C’è latte, la (…) è un’azienda da mungere”, pubblicato sul “(…)” il 24.7.2015, (…), quale direttore responsabile del quotidiano e (…) S.p.A. quale editrice, lamentando la sua natura diffamatoria ed esorbitante dal diritto di critica, avendo come presupposto l’esposizione di fatti non corrispondenti alla realtà. L’articolo tratta della vicenda relativa all’inchiesta sul presunto disastro ambientale cagionato dal ciclo produttivo della centra le (…) di Vado Ligure, in ordine alla quale la Procura della Repubblica, nel periodo in cui l’articolo è stato pubblicato, aveva notificato gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari. Dall’articolo emerge che gli attori (persone fisiche), che hanno rivestito ruoli di responsabilità all’interno di (…), avrebbero utilizzato una società di consulenza ((…) S.r.l.) di cui sono soci per svuotare le casse della prima, retrocedendo i fondi a (…) s.p.a., che a sua volta controllava (…). Si trattava però di mera ipotesi investigativa, che non ha trovato riscontri e che è invece stata riportata nell’articolo con carattere di certezza. A nulla è servita una lettera di smentita, inviata da (…) alla testata giornalistica. Gli attori concludono chiedendo l’accertamento della natura diffamatoria dell’articolo, la condanna dei convenuti, in solido tra loro, al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, la condanna dell’autrice dell’articolo e del direttore, in solido tra loro, al pagamento di una somma a titolo di riparazione pecuniaria ex art. 12 L. n. 47 del 1948, la condanna dei convenuti, in solido, a provvedere alla pubblicazione a proprie spese della sentenza di condanna sul quotidiano (…), in forma e veste grafica pari a quella mediante la quale è stata commessa la diffamazione.
I convenuti si costituiscono, evidenziando il corretto esercizio del diritto di cronaca e contestando la quantificazione del danno operata dagli attori. Concludono chiedendo il rigetto delle domande promosse nei loro confronti.
Deve essere in primo luogo esaminato il contenuto dell’articolo oggetto di contestazione.
Il suo titolo è formulato nei seguenti termini: “C’è latte, la (…) è un’azienda da mungere”.
L’uso delle virgolette, accompagnato dal formato teso ad evidenziare il contenuto della frase, danno al lettore la sensazione che si tratti di una frase effettivamente pronunciata da qualcuno. L’impressione è confermata dal sottotitolo: Le intercettazioni sulla centrale di Savona. I dirigenti: con quel cannone facciamo una finta bonifica.
In esso dunque si fa riferimento, da un lato, al contenuto di intercettazioni svolte nel corso delle indagini, dall’altro a un fatto, seppure evidentemente riguardante la medesima vicenda valutata nel suo complesso, diverso da quello di cui si discute in questa sede.
L’articolo inizia riprendendo il tema del sottotitolo: “Hai presente il cannone come sta sparando adesso? Te lo spiego io. Non ci va una goccia sul carbone…”. Esso quindi tratta dell’aspetto relativo alla bonifica ambientale, prospettata come apparente. L’argomento è pertanto diverso da quello in relazione al quale è stato incardinato il giudizio.
Nella parte successiva dell’articolo viene trattato invece il tema che interessa in questa sede. Si scrive infatti: “Ma c’è di più. Nelle 50 mila pagine di atti, si racconta l’azione di svuotamento delle casse di (…), società all’epoca fa controllata da (…) (gruppo Cir della famiglia D.B.). I soldi tornavano alla (…) stessa, attraverso una società di consulenza: la (…) srl, della quale sono soci al 20% il presidente del Cda di (…), (…), e il dg di (…), (…)”.
In ordine a questa parte dell’articolo si rileva che:
– è la prima in cui l’argomento della distrazione del denaro dalle casse di (…) viene trattato;
– tale distrazione viene riportata in termini di certezza; si afferma infatti che negli atti si racconta l’azione di svuotamento delle casse della società e che il denaro rientrava in (…);
– il meccanismo viene descritto sia coinvolgendo (…) s.r.l. quale società di consulenza utilizzata allo scopo, sia con il richiamo espresso ai nominativi di (…) e (…), espressamente menzionando il ruolo degli stessi sia in (…) s.r.l., sia in (…), sia in (…).
L’articolo, in questa parte, non prospetta dunque il fatto al lettore in termini di mera ipotesi investigativa, ma come dato finale all’esito dell’indagine. Non è irrilevante in proposito il fatto che le espressioni richiamate seguano quanto indicato nella prima parte dell’articolo, ove si informa il lettore della avvenuta chiusura delle indagini preliminari, sia pure con riferimento a diverse ipotesi di reato.
Se da un lato è vero, come osserva parte convenuta, che i reati dei quali si fa menzione nell’articolo in relazione alla chiusura delle indagini sono altri (“omicidio colposo plurimo, disastro ambientale e abuso d’ufficio”), è anche vero che la formulazione non in forma dubitativa, ma del tutto assertiva, del contenuto degli atti nella parte dell’articolo immediatamente successiva porta il lettore (che non distingue necessariamente chiusura delle indagini, formalizzazione di ipotesi accusatorie e stato residuo di indagini in ordine a diverse ipotesi di reato) a collegare naturalmente le due parti di esso.
Nella successiva parte dell’articolo si legge che “Parlavano in codice i dirigenti (…). E nelle intercettazioni fanno riferimento al termine “latte”. Termine usato in finanza che allude alle casse delle aziende da svuotare (“da mungere”). Per i pm si è proceduto a una “evaporazione del soggetto giuridico (…)” attraverso lo svuotamento dei fondi della società “a beneficio di pochi in danno dei restanti soci e dei creditori non inclusi nel gruppo ristretto”.
Si rileva in proposito che:
– le frasi riportate seguono sia il riferimento alla chiusura della fase delle indagini preliminari, sia la sommaria descrizione del meccanismo distruttivo dei fondi, già a sua volta riportato in termini assertivi e non come ipotesi di indagine;
– anche nella parte di articolo qui in esame si prospetta che i P.M. abbiano già effettuato le proprie valutazioni in proposito (“Per i pm si è proceduto …”);
– ciò tuttavia non risponde al reale svolgimento dei fatti, non risultando che l’ufficio del Pubblico Ministero abbia, al momento in cui l’articolo è stato pubblicato, effettuato una definitiva e formale valutazione dei fatti in esame.
Dal complessivo tenore dell’articolo, dunque, non è dato evincere che la distrazione dei fondi dalle casse di (…) sia, allo stato, una ipotesi investigativa e non piuttosto l’esito conclamato di una indagine o comunque una impostazione accusatoria ormai definita.
Ciò contrasta con il contenuto delle due note del 7.7.2014 del Nucleo Operativo Ecologico CC di Genova.
Nella prima di esse gli operanti evidenziano come (…), (…) e (…) siano soci al 20% in (…) s.r.l., che si occupa di consulenze alle imprese in campo finanziario e come sia utile monitorare, mediante intercettazione ambientale, l’incontro tra gli stessi presso un ristorante di Roma; ciò “al fine di comprendere se i tre soci si stiano accordando al fine di “svuotare” di capitali” (…), avvalendosi di finte consulenze che giustificherebbero il passaggio di capitali dalla predetta società a loro stessi.
Nella seconda nota, con cui si richiede di estendere l’intercettazione a una ulteriore utenza in uso a (…), si ribadisce come il fine sia quello di “meglio delineare il ruolo” di quest’ultimo “con riferimento all’ipotesi di “evaporazione del soggetto giuridico TP””.
Da entrambe le note citate emerge come, alla data del 7.7.2014, per la stessa PG operante la distrazione di fondi dalle casse di (…) e le modalità con cui essa viene attuata sia ancora una ipotesi.
Non risulta, dai documenti disponibili, che la stessa si sia tradotta nella formulazione di capi di imputazione nei confronti degli odierni attori.
Nulla aggiungono in proposito, nelle rispettive motivazioni, il decreto d’intercettazione d’urgenza emesso dal P.M. il 13.6.2014 e il decreto di convalida del GIP di pari data.
Non è dirimente in proposito la circostanza che dal fascicolo originariamente formato in sede di indagini preliminari possano essersi formati autonomi filoni di indagine, perché si tratterebbe comunque di ipotesi investigative, a fronte di un articolo che evidenzia alla data della sua pubblicazione i fatti oggetto di discussione in termini – come si è detto – non meramente ipotetici.
Dalle considerazioni che precedono emerge dunque come difetti il requisito della verità, costantemente richiesto dalla giurisprudenza con riferimento al corretto esercizio del diritto di cronaca.
Da esso non si può prescindere anche valutando la fattispecie in esame sotto il profilo del legittimo esercizio del diritto di critica.
La giurisprudenza di legittimità ha affermato il principio generale secondo cui “posto che qualunque critica che concerna persone è idonea a incidere in qualche modo in senso negativo sulla reputazione di qualcuno, escludere il diritto di critica ogniqualvolta leda, sia pure in modo minimo, la reputazione di taluno significherebbe negare il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero. Infatti, sostenere una tesi diversa significherebbe affermare che nel nostro ordinamento giuridico è previsto e tutelato il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero solo ed esclusivamente nel caso che questo consista in approvazioni e non in critiche. Pertanto il diritto di critica può essere esercitato utilizzando espressioni di qualsiasi tipo anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato. Consegue che non è giuridicamente nè logicamente corretto sostenere il prevalere del diritto all’onore ed alla reputazione sul diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero in chiave critica, anche in presenza di capacità lesive estremamente ridotte, tali, quindi, da non giustificare in nessun caso detta prevalenza” (Cass. 22.3.2012 n. 4545, Cass. 12420/08).
Ciò premesso, tuttavia, non si può prescindere dalla rilevanza che la Corte di Cassazione attribuisce alla verità dei fatti che si narrano e che costituiscono il presupposto del successivo esercizio del diritto di critica.
Sul punto la Corte di legittimità si è in più occasioni espressa, rilevando che “l’esimente del diritto di critica può rendere non punibili espressioni anche aspre e giudizi che di per sé sarebbero diffamatori, tesi a stigmatizzare un comportamento realmente tenuto dal personaggio pubblico, ma non può scriminare la falsa attribuzione di una condotta scorretta, utilizzata come fondamento per la esposizione a critica del personaggio stesso”; il diritto di cronaca e quello di critica si differenziano essenzialmente perché per l’esercizio di quest’ultimo il limite della continenza è assai meno rigido, ma non vi sono differenze significative quanto alla necessità della sussistenza dei requisiti della verità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla conoscenza dei medesimi (Cass. 7662/07).
Il principio è stato ribadito dalla sentenza n. 40930/13 della Corte di legittimità, che ha affermato che “in tema di diffamazione a mezzo stampa l’esercizio del diritto di critica richiede la verità del fatto attribuito e assunto a presupposto delle espressioni critiche, in quanto non può essere consentito ascrivere ad un soggetto specifici comportamenti mai tenuti o espressioni mai pronunciate, per poi esporlo a critica come se quei fatti o quelle espressioni fossero effettivamente a lui riferibili; pertanto, limitatamente alla verità del fatto, non sussiste una sostanziale differenza tra l’esimente del diritto di critica e quella del diritto di cronaca, costituendo per entrambe presupposto di operatività”.
Il presupposto comune alle decisioni richiamate, dunque, è quella della verità dei fatti narrati, verità che è stata esclusa con riferimento alle affermazioni già esaminate.
Deve dunque procedersi ad esaminare il profilo relativo al danno patito dagli attori, che discende dal combinato disposto degli artt. 595 comma 3 e 185 c.p., 57 c.p., nonché dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti dall’art. 2 Cost..
Il danno non patrimoniale lamentato consiste nella lesione dell’onore, della reputazione e dell’immagine.
Attesa la natura del pregiudizio ad interessi di natura non economica aventi rilevanza sociale patito dagli attori, infatti, la prova del danno si risolve nella dimostrazione di due condizioni, cioè l’esistenza di un fatto produttivo di conseguenze pregiudizievoli e l’idoneità del medesimo ad ingenerare una ripercussione “dolorosa” nella sfera personale del soggetto leso. Tale secondo presupposto, poi, può ritenersi integrato anche sulla base di presunzioni semplici.
Si richiamano in proposito i principi enunciati dalla Corte di Cassazione (SS.UU. sentenze nn. 26972/08, 26973/08, 26974/08, 26975/08), secondo cui il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. 8827/03 e 8828/03, 16004/03) che deve essere allegato e provato; attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri.
Si è anche osservato che il giudice è chiamato a tenere conto della gravità del reato e dell’entità delle sofferenze patite dal soggetto passivo del reato, nonché delle condizioni sociali di quest’ultimo in relazione alla collocazione professionale e, più in generale, al suo inserimento nel contesto sociale (Cass. 6481/2012).
Le ricadute negative sulla reputazione, sull’onore e sull’immagine degli attori, nonché il grado di disagio che ne consegue vengono pertanto presunti (anche sulla base delle allegazioni contenute nell’atto di citazione) sulla base dei seguenti elementi, da considerarsi indici del grado di offensività della fattispecie: a) l’oggettiva portata diffamatoria dell’articolo, anche in considerazione del ruolo professionale svolto dagli attori (…) e (…), che avrebbe favorito l’attività distrattiva descritta; si rileva in proposito che, se da un lato la loro posizione li espone naturalmente a legittime possibilità di valutazione critica del proprio operato – tenendo peraltro conto che l’esposizione personale è prevalentemente collegata allo specifico ambito lavorativo nel quale essi operano – dall’altro il presupposto perché ciò possa accadere è che i fatti posti a fondamento delle valutazioni espresse siano veri; b) l’utilizzo di un titolo con le virgolette, che attira l’attenzione del lettore, dando immediatamente l’impressione della commissione di una condotta illecita e di una particolare attendibilità della notizia riportata; c) l’assenza di censure sotto il profilo della continenza del linguaggio usato; d) la notorietà complessiva della vicenda relativa alla centrale.
Ai fini della concreta quantificazione del danno si deve tenere conto della larga diffusione del quotidiano, associata alla gravità dei fatti attribuiti, sia in sé considerati, sia in quanto collegati ai gravissimi fatti di inquinamento, con incidenza sulla salute delle persone, esaminati nella medesima indagine.
Si ritiene che la condotta diffamatoria sia configurabile anche ai danni di (…) s.r.l., descritta come la società attraverso la quale lo svuotamento delle casso di (…) sarebbe avvenuto. La società, peraltro, è stata successivamente incorporata in (…) s.r.l..
Sulla base delle considerazioni che precedono si stima equa la quantificazione del danno nella misura di Euro 5.000,00 per ognuno degli attori.
Essi hanno inoltre chiesto la condanna dei convenuti al pagamento della pena pecuniaria ex art. 12 L. n. 47 del 1948, da determinarsi in via equitativa. In base a tale norma la persona offesa dal reato di diffamazione può chiedere, oltre al risarcimento dei danni, una somma a titolo di riparazione, anche in assenza di una condanna pronunciata dal giudice penale.
In proposito la giurisprudenza di legittimità ha esposto il principio in base al quale l’irrogazione della sanzione pecuniaria prevista dalla norma citata, nell’ipotesi di diffamazione commessa col mezzo della stampa, presuppone l’accertamento della sussistenza, a carico del direttore responsabile, di tutti gli elementi costitutivi del delitto di diffamazione. Essa pertanto non può essere comminata ove la responsabilità del direttore responsabile sia dichiarata per omesso controllo colposo della pubblicazione, e non per concorso doloso nel reato di diffamazione (Cass. 14485/2000).
Conformemente si è evidenziato che, se al direttore di un giornale non viene imputata la responsabilità a titolo di concorso nel reato ex art. 110 c.p. con l’autore della notizia pubblicata, nel reato di diffamazione a mezzo stampa, ma il reato proprio di cui all’art. 57 c.p. – fondato sull’obbligo di controllare il contenuto delle notizie diffuse dal giornale da egli diretto – non può essere accolta la domanda di condannarlo alla pena pecuniaria accessoria prevista dall’art. 12 L. n. 47 del 1948 perché, essendo indefettibilmente collegata al reato di diffamazione, può essere richiesta soltanto nei confronti del responsabile di questo, da intendersi in senso rigorosamente soggettivo (Cass. 9672/97).
Applicando i principi enunciati, non può essere riconosciuta la fondatezza della domanda nei confronti di (…), quale Direttore responsabile del quotidiano (…), in assenza di elementi per poterla considerare formata su una condivisione iniziale del contenuto dell’articolo e non piuttosto sul mancato esercizio dei suoi doveri e poteri di controllo.
La responsabilità ex art. 12 L. n. 47 del 1948 può dunque essere ravvisata nei soli confronti della giornalista. La quantificazione deve essere effettuata in via equitativa, in relazione alla gravità dell’offesa e alla diffusione dell’articolo. Si è spesso ritenuto corretto, ai fini del computo, stabilire un rapporto di 1 a 5 rispetto al danno non patrimoniale liquidato. Tale impostazione è sostanzialmente confermata dai criteri indicati dall’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano – Edizione 2018, che fa riferimento a un calcolo tendenziale tra 1/3 e 1/8 del danno liquidato. La somma che deve pertanto essere riconosciuta ammonta a Euro 1.000,00 per ciascuno degli attori, da porsi a carico della sola (…).
Si ritiene infine sia accoglibile la domanda, formulata ai sensi dell’art. 120 c.p.c., di pubblicazione del dispositivo della sentenza di condanna a cura e spese dei convenuti; la giurisprudenza di legittimità ha sul punto rilevato che “la quantificata entità del corrispondente danno risarcibile non può essere automaticamente ridotta per effetto della pubblicazione della sentenza su un quotidiano, costituendo tale misura, oggetto di un potere discrezionale del giudice, una sanzione autonoma”. Tale pubblicazione dovrà avvenire, in caratteri normali, sul quotidiano (…) (Cass. 1091/16).
Le decisioni in tema di spese processuali tengono conto del principio della soccombenza, nei limiti di valore entro i quali le domande degli attori vengono accolte.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:
1) Accerta la natura diffamatoria dell’onore e della reputazione di (…) s.r.l. (ora (…) s.r.l.), (…), (…) dell’articolo “C’è latte, la (…) è un’azienda da mungere”, pubblicato sul (…) il 24.7.2015.
2) Condanna (…) quale autrice dell’articolo, (…) quale Direttore responsabile del quotidiano (…), (…) s.p.a. quale editore al pagamento, in solido tra loro, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, in favore di (…) s.r.l., (…), (…) di Euro 5.000,00 per ciascuno degli attori, somma già rivalutata in moneta attuale, oltre agli interessi legali dalla presente sentenza al saldo.
3) Condanna (…) al pagamento ai sensi dell’art. 12 L. n. 47 del 1948, in favore di (…) s.r.l., (…), (…) della somma di Euro 1.000,00 ciascuno, oltre agli interessi legali dalla presente sentenza al saldo.
4) Ordina la pubblicazione della presente sentenza, per estratto (intestazione e dispositivo) sul quotidiano “Il (…)”, in caratteri normali, a spese e cura dei convenuti.
5) Condanna i convenuti, in solido tra loro, alla rifusione delle spese processuali in favore degli attori, liquidate in Euro 1.713,00 per spese, Euro 4.835,00 per compensi, oltre al rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%; IVA e CPA come per legge.
Così deciso in Milano il 22 giugno 2018.
Depositata in Cancelleria il 25 giugno 2018.