l’art. 907 c.c., in tema di distanze delle costruzioni dalle vedute, è applicabile anche nei rapporti tra condomini di un edificio, non derogando l’art. 1102 c.c., al disposto del citato art. 907 c.c.; che, segnatamente, il proprietario del singolo piano di un edificio condominiale ha diritto di esercitare dalle proprie aperture la veduta in appiombo fino alla base dell’edificio e di opporsi conseguentemente alla costruzione di altro condomino, che, direttamente o indirettamente, pregiudichi l’esercizio di tale suo diritto, senza che possano rilevare le esigenze di contemperamento con i diritti di proprietà ed alla riservatezza del vicino, avendo operato già l’art. 907 c.c., il bilanciamento tra l’interesse alla medesima riservatezza ed il valore sociale espresso dal diritto di veduta, in quanto luce ed aria assicurano l’igiene degli edifici e soddisfano bisogni elementari di chi li abita.
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Corte d’Appello Napoli, Sezione 6 civile Sentenza 4 giugno 2018, n. 2651
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Appello di Napoli – sesta sezione civile – riunita in camera di consiglio nelle persone dei seguenti magistrati:
Dott. Maria Rosaria Castiglione Morelli – Presidente
Dott. Antonio Quaranta – Consigliere
Dott. Assunta d’Amore – Consigliere Rel.
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n. 3726 del Ruolo Generale degli affari contenziosi dell’anno 2012 avente ad oggetto: appello avverso la sentenza del Tribunale di Napoli n. 10953/2011 del 10/10/2011, vertente
TRA
(…) ((…)), in proprio e nella qualità di unico genitore esercente la potestà genitoriale sul minore (…) ((…)), (…) ((…)) e (…) ((…)), tutti rappresentati e difesi, giusta procura alle liti a margine dell’atto di appello, dall’Avv. Am.Mu. e presso il cui studio in Napoli alla Via (…) elettivamente domiciliano
APPELLANTI
E
(…) ((…)), elettivamente domiciliato in N. alla via (…) unitamente all’Avv. Vi.Cu. dal quale è rappresentato e difeso giusta procura a margine della comparsa di costituzione del primo grado del giudizio
APPELLATO
RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Con atto di citazione ritualmente notificato gli odierni appellanti, premesso di essere comproprietari dell’immobile, sito in N. alla via dell'(…) piano 8 int. 30/A, sovrastante l’appartamento di proprietà di (…), posto sempre a via dell’A. 62 S. B P. 7 int. 28, esponevano che, all’inizio del settembre 2007, (…) aveva realizzato, sulla propria terrazza, una tettoia per tutto il suo perimetro; che tale nuova costruzione limitava la visuale dall’appartamento degli attori che non erano più grado di vedere il naturale orizzonte discendente cosi come lo vedevano precedentemente dalla propria abitazione; che la tettoia creava notevoli problemi di natura igienico – sanitaria poiché non poteva, in alcun modo, essere pulita; che per effetto dell’installazione della tettoia, erano state modificate le pluviali di scolo dell’acqua piovana, che a seguito dell’intervento non defluiva in maniera regolare creando situazioni di ristagno sul terrazzo degli istanti; che l’asfalto posto a guarnizione sulla tettoia, con il caldo, creava un cattivo odore che giungeva fin dentro l’immobile di loro proprietà; che tale tettoia creava un notevole rischio di intrusione da parte di terzi estranei poiché poteva essere facilmente scavalcata e che una parte di essa era stata integralmente chiusa, così da creare un nuovo ambiente coperto, ove era stata realizzata una cucina i cui odori salivano ed entravano direttamente nella zona letto dell’immobile di proprietà degli istanti; che la Polizia Locale Unità Operativa Speciale Antiabusivismo edilizio, con protocollo n. (…), aveva loro comunicato, in data 17.10.07, che tali opere edilizie erano state penalmente perseguite.
Tanto premesso gli istanti, dopo aver invitato inutilmente (…) al ripristino dello status quo ante, adivano il Tribunale di Napoli onde sentir accertare l’illegittimità del manufatto in questione anche per aver modificato il naturale corso delle pluviali di scolo delle acque piovane e condannare il convenuto al ripristino dello stato dei luoghi ed al risarcimento dei danni, con vittoria delle spese di giudizio.
Radicatosi il contraddittorio, si costituiva (…) il quale preliminarmente eccepiva l’anteriorità della denunciata tettoia di oltre ventitrè anni esistendo in loco fin da prima dell’acquisto dell’immobile, avvenuto nel 1989, come prontamente contestato alla parte attorea con la richiesta stragiudiziale di ripristino dello stato dei luoghi, essendosi limitato solo a sostituire le parti del manufatto ammalorate dalla lunga esposizione agli agenti atmosferici e fonte di infiltrazioni senza affatto alterare lo stato preesistente dei luoghi come documentato dal verbale dell’assemblea condominiale del 16/5/2008 in cui la stessa (…) rappresentava di essere in attesa da diversi anni per la rimozione della tettoia; il convenuto, inoltre, contestata tutti gli ulteriori profili sotto i quali la tettoia aveva formato oggetto della domanda giudiziale di rimozione.
Acquisita documentazione varia, il Tribunale ammetteva ed espletata la prova testimoniale articolata da entrambe le Parti e la consulenza tecnica d’ufficio ed acquisiva la nota redatta dal Comune di Napoli – Servizio autonomo polizia locale in merito al contestato abuso e, all’esito, pronunciava, in data 10/10/2011, ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., la sentenza n.10953/2011 con cui rigettava la domanda e compensava tra le parti le spese di lite. In particolare, il Tribunale riteneva che la tettoia in quanto costituita da travi di sostegno intralciava solo la visuale dell’orizzonte per cui non appariva tale da arrecare un pregiudizio particolarmente rilevante, che non causava problemi di natura igienico – sanitaria, che non ostacolava il normale deflusso delle acque meteoriche nella pluviale, che da essa non promanava alcun cattivo odore derivante dal riscaldamento delle tegole od altro e che non era consentito esclusivamente attraverso esso l’ingresso di terzi estranei.
Avverso detta sentenza proponevano tempestivo gravame gli odierni appellanti invocandone l’integrale riforma e, quindi, l’accoglimento della domanda avanzata in primo grado con vittoria delle spese del doppio grado di giudizio. In particolare, gli appellanti deducevano che la tettoia limitava sicuramente la visuale esercitata dall’immobile di loro proprietà, anche se parzialmente, e che parimenti creava problemi di natura igienico – sanitaria in quanto non consentiva di essere pulita in alcun modo avendo lo stesso c.t.u. rilevato l’impossibilità di accedervi per svolgere le operazioni di pulizia ed anche la presenza di escrementi di volatili; gli appellanti si dolevano, quindi, che il Tribunale aveva omesso di accertare che nelle pluviali l’appellato aveva immesso gli scarichi della cucina e del lavatoio, che non aveva escluso che dalla tettoia potessero entrare terzi estranei e che dal locale completamente chiuso esalavano odori ritenuti tollerabili.
Si costituiva in giudizio (…) contestando l’avverso gravame di cui chiedeva il rigetto in quanto infondato in fatto ed in diritto ed eccependo la novità della domanda ex art.907 c.c. avanzata solo nel presente grado.
Acquisito il fascicolo del primo grado del giudizio, sulle conclusioni trascritte in epigrafe, la Corte riservava la causa in decisione all’udienza collegiale del 16 febbraio 2018 concedendo alle Parti i termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.
L’appello appare fondato e meritevole di accoglimento per quanto di ragione.
In primo luogo va osservato che la prospettazione da parte degli appellanti nel presente grado della violazione della norma di cui all’art.907 c.c. non costituisce domanda nuova, come eccepito dall’appellato; ed, invero, risulta dal contenuto dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado che gli odierni appellanti avevano chiesto di dichiarare illegittimo il manufatto realizzato da (…) ovvero la copertura della terrazza, sottostante alla proprietà attorea, invocando la condanna del convenuto al ripristino dello stato dei luoghi o comunque al compimento di tutte quelle opere necessarie ad eliminare le violazioni da essi dedotte.
Non può dunque ritenersi che la domanda avanzata in primo grado, da qualificarsi correttamente come esercizio del diritto di cui all’art.907 c.c., sia domanda nuova sulla scorta degli elementi di fatto dedotti in primo grado (realizzazione di una nuova costruzione e limitazione della visuale) e delle conclusioni ivi rassegnate di rimozione e di ripristino dello stato originario dei luoghi.
Invero, l’interpretazione della domanda giudiziale costituisce operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, non è censurabile quando sia motivato in maniera congrua ed adeguata avuto riguardo all’intero contesto dell’atto e senza che ne risulti alterato il senso letterale, tenuto conto, in tale operazione, della formulazione testuale dell’atto nonché del contenuto sostanziale della pretesa in relazione alle finalità che la parte intende perseguire, elemento rispetto al quale non assume valore condizionante la formula adottata dalla parte medesima (cfr. Cass. Sez. L, Sentenza n. 22893 del 09/09/2008 e Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14751 del 26/06/2007).
Del tutto inappropriato appare il richiamo operato dall’appellato ai fini della configurabilità di una domanda nuova alle pronunce della Suprema n.3461 del 19/05/1983 che ha affermato il diverso principio secondo cui la domanda per il rispetto delle distanze tra le costruzioni (art. 873 c.c.) è nuova rispetto alla domanda per l’osservanza della distanza dalle vedute (art. 907 c.c.) e, come tale, se avanzata in appello in aggiunta, a quest’ultima domanda, deve essere dichiarata improponibile e n. 4087 del 04/04/2000 che ha affermato lo stesso principio.
Ciò posto, va poi ricordato che l’art. 907 c.c., in tema di distanze delle costruzioni dalle vedute, è applicabile anche nei rapporti tra condomini di un edificio, non derogando l’art. 1102 c.c., al disposto del citato art. 907 c.c. (cfr. Cass. 2.10.2000, n. 13012); che, segnatamente, il proprietario del singolo piano di un edificio condominiale ha diritto di esercitare dalle proprie aperture la veduta in appiombo fino alla base dell’edificio e di opporsi conseguentemente alla costruzione di altro condomino, che, direttamente o indirettamente, pregiudichi l’esercizio di tale suo diritto, senza che possano rilevare le esigenze di contemperamento con i diritti di proprietà ed alla riservatezza del vicino, avendo operato già l’art. 907 c.c., il bilanciamento tra l’interesse alla medesima riservatezza ed il valore sociale espresso dal diritto di veduta, in quanto luce ed aria assicurano l’igiene degli edifici e soddisfano bisogni elementari di chi li abita (cfr. Cass. 16.1.2013, n. 955).
Inoltre, la violazione del diritto di veduta del proprietario di un’unità immobiliare si determina quando viene realizzata una “fabbrica”, a distanza inferiore da quella prevista dalla legge, di qualsiasi materiale e forma.
Pertanto, il condomino che abbia trasformato il proprio balcone in veranda, elevandola sino alla soglia del balcone sovrastante, è soggetto alla normativa sulle distanze di cui all’art. 907 c.c., quando la costruzione insista su altra area del terrazzo non ricadente in quella del sovrastante balcone, mentre non è tenuto ad analogo rispetto qualora la veranda insista esattamente nell’area del balcone senza debordare dal suo perimetro, in modo da non limitare la veduta in avanti e a piombo del proprietario sovrastante (cfr. Cass. 7.8.2007, n. 17317).
Il coordinamento di tali indirizzi consente di affermare che nell’ambito condominiale l’art. 907 c.c. va interpretato nel senso che ciascun condomino ha il diritto di esercitare dal proprio balcone la veduta in avanti e a piombo, a prescindere dall’esistenza di un titolo costitutivo di un’apposita servitù a carico dell’unità immobiliare sottostante, non essendogli invece consentito di estendere tale veduta in maniera obliqua, verso il basso e all’interno di quest’ultima proprietà (cfr. Cass. n. 3109/93), violandone la riservatezza; correlativamente, il proprietario del balcone sottostante non può escludere o limitare tale veduta mediante una costruzione a distanza inferiore a quella prescritta dalla norma citata.
Occorre rilevare in primo luogo che nel caso in questione si tratta di una tettoia di copertura realizzata sul terrazzo dell’appellato al di fuori del piano di calpestio della terrazza dell’appartamento sovrastante di proprietà degli appellanti. Ed, invero, il c.t.u. ha accertato che detta copertura fuoriesce dal perimetro della terrazza sovrastante dapprima con una copertura in tegole e poi con delle travi di sostegno, da essa sporgenti di 110 cm., ed intervallate ad una distanza l’una dall’altra di 85 cm.. Si tratta, quindi, di un manufatto che certamente rientra nel termine “costruzione” utilizzato dall’art. 907 c.c.. Secondo la Suprema Corte, difatti, come “costruzione” deve intendersi non solo il “manufatto in calce o mattoni o in conglomerato cementizio” ma anche qualsiasi opera che, qualunque ne sia la forma e determinazione, ostacoli, secondo l’apprezzamento insindacabile del giudice del merito, l’esercizio della veduta” (cfr. Cass. 1995 n. 5618 che ha ritenuto costruzione anche una “tenda larga oltre due metri, sorretta da una intelaiatura infissa nel muro che ostacolava la veduta del vicino, rimanendo aperta per tutta la giornata per lunghi periodo dell’anno” e nello stesso senso Cass. 1995 n. 12097 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11199 del 28/08/2000).
Di poi, lo stesso c.t.u. ha evidenziato come la visuale dal terrazzo degli appellanti è ostacolata dalla zona coperta escludendo, invece, la diminuzione di visuale per la parte coperta dalle sole travi di sostegno. Ritiene, invece, la Corte che la visuale risulta, anche per detta parte, fortemente impedita dalle travi che, benchè consentano lo sguardo attraverso di esse da una veduta diretta (cfr. il primo rilievo fotografico alla pag. 2 della consulenza tecnica d’ufficio), data la loro estensione ed il loro numero, ne compromettono l’esercizio in maniera significativa soprattutto nella veduta laterale da dove, considerato il loro spessore e larghezza, appaiono costituire una superficie unica (cfr. il secondo rilievo fotografico alla pag. 2 della consulenza tecnica d’ufficio).
Sul punto, la Suprema Corte ha avuto modo di ribadire che il divieto di costruire a distanza inferiore a tre metri dalla veduta del vicino, di cui all’art. 907 c.c., diretto ad assicurare non solo aria e luce in quantità sufficiente, ma anche e soprattutto l’integrità della veduta, si riferisce ad ogni opera stabile, qualunque ne sia la foggia o la materia (anche con riferimento alla tettoia di plastica cfr. Cass. 1425/82 e Cass. 5913/1983).
Nella specie, valutata l’opera nel suo complesso, non può che concludersi per ritenerla una costruzione in materiale di legno saldamente ancorata alla parete ed al pavimento, con intelaiatura fissata stabilmente, non retraibile, posta a distanza inferiore a quella prescritta dall’art. 907 c.c., che interferisce con la linea di visuale in appiombo ed obliqua partente dalla veduta degli appellanti e la impedisce.
Rimane da valutare l’eccezione sollevata dall’appellato e reiterata nel presente grado della preesistenza del manufatto in questione da oltre ventitrè anni essendosi limitato solo a sostituirne le parti ammalorate dalla lunga esposizione agli agenti atmosferici per cui la servitù di veduta ex adverso pretesa deve reputarsi estinta per prescrizione ventennale ancor prima, per giunta, della presunta realizzazione ex novo, nel 2007, della tettoia. L’appellato assume, quindi, che ricorre l’estinzione della servitù non essendovi stata alcuna rilevante modificazione della tettoia che possa farla ritenere opera nuova.
Il motivo è immeritevole di seguito.
E’ innegabile che la “veduta” è esercitata dagli appellanti iure proprietatis, non già iure servitutis e che la disciplina delle distanze per le vedute, contenuta nell’art. 907 c.c., vale per tutte le vedute, indipendentemente dal fatto che esse siano state aperte iure proprietatis o iure servitutis (cfr. solo da ultimo Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20699 del 22/11/2012).
Ed è fuor di dubbio, inoltre, che il “diritto di veduta” iure proprietatis non è soggetto a prescrizione estintiva, trattandosi di facoltà costituente manifestazione intrinseca del diritto di proprietà.
Quanto all’eccepito acquisto per usucapione ultraventennale del diritto a mantenere la denunciata tettoia va ricordato che per il principio “tantum praescriptum quantum possessum”, il termine prescrizionale acquisitivo a titolo originario di un diritto di servitù, nel caso di modifica dell’opera per il suo esercizio rispetto ad altra precedente, decorre dall’effettuata trasformazione (cfr. Cass. 22.10.1998, n. 10481; Cass. 27.1.2014, n. 1616). Ebbene, nella fattispecie in esame è mancata la prova che l’intervento realizzato dall’appellato sia consistito solo nella sostituzione delle parti del manufatto ammalorate dalla loro esposizione agli agenti atmosferici posto che i rilievi fotografici evidenziano come la struttura costituisca un unicum in cui non è dato rinvenire elementi costruttivi di epoca diversa quanto piuttosto la loro recente realizzazione come, peraltro, accertato nella stessa nota del Comune di Napoli – Servizio autonomo polizia locale del 17/10/2007 (cfr. in atti).
Nemmeno i testimoni di parte appellata esaminati nel primo grado del giudizio hanno offerto alcun utile contributo in tal senso posto che (…) e (…) (cfr. verbale di udienza del 24/3/2011) non sono stati in grado di riferire se la tettoia attualmente realizzata corrispondesse a quella precedentemente esistente in loco dagli inizi degli anni 80 ma soprattutto laddove riferiscono della sola sostituzione di alcuni degli elementi strutturali risultano smentiti dalle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio dalla quale non emerge che l’attuale struttura presenti elementi risalenti ad oltre venti anni.
Ne consegue che il proprietario del piano superiore ha il diritto di non subire, a causa della costruzione eseguita nella parte esterna dell’edificio da altro proprietario, una diminuzione della possibilità di esercitare dalle proprie aperture le vedute in appiombo, ed avendo la tettoia in questione le caratteristiche di un manufatto che possiede i caratteri della stabilità e della immobilità rispetto al suolo, essa va rimossa, in quanto costruita in violazione della distanza legale di cui all’art. 907 c.c..
Rimangono assorbiti dalla predetta pronuncia tutti i rimanenti profili di illegittimità della tettoia.
Con un ulteriore motivo va vagliata la domanda con cui gli odierni appellanti denunciano che con l’opera de qua l’appellato ha anche modificato il naturale corso delle pluviali di scolo delle acque meteoriche provocandone il ristagno sul loro terrazzo avendo lo stesso c.t.u. accertato che vi confluivano le acque di scarico della cucina e del lavatoio; gli appellanti al riguardo lamentano che il giudice di prime cure ha del tutto omesso la disamina di detta domanda.
Il motivo è inammissibile posto che contrariamente a quanto dedotto dagli appellanti il giudice di prime cure ha statuito al riguardo affermando che “il deflusso irregolare dell’acqua piovana è riconducibile ad un errore di posatura della pavimentazione del terrazzo al momento della realizzazione, che non permette il completo deflusso dell’acqua all’interno del pozzetto sifonato” e non può dirsi rituale la mera riproposizione del contenuto della memoria ex art. 190 c.p.c. contenuta nell’atto di appello senza accompagnare tale riproposizione con puntuali censure alla sentenza gravata che quelle argomentazioni ha espressamente disatteso.
Va, infine, valutata la domanda risarcitoria avanzata in primo grado e ritenuta assorbita dal giudice di prime cure dal rigetto della domanda ex art. 907 c.c.
Osserva la Corte che la violazione delle norme codicistiche sulle distanze legali (ovvero delle norme locali richiamate dal codice), mentre legittima sempre la condanna alla riduzione in pristino, non costituisce di per sé fonte di danno risarcibile, essendo al riguardo necessario che chi agisca per la sua liquidazione deduca e dimostri l’esistenza e la misura del pregiudizio effettivamente realizzatosi (cfr. in tal senso Cass. 24.9.2009 n. 20608 e Cass. 1.12.2010 n.24387), ipotesi che, nella fattispecie in esame, non si è affatto realizzata non avendo l’appellante nemmeno dedotto il danno patito a seguito della realizzazione della costruzione denunciata.
Volendo utilizzare le categorie concettuali tradizionali del danno evento e del danno conseguenza va rilevato che l’affermazione di un danno in re ipsa porta alla sovrapposizione delle due categorie perché fa coincidere l’evento, che è viceversa solo un elemento del fatto produttivo del danno, con gli effetti derivanti e patrimonialmente risarcibili che, giusti i principi di cui agli artt. 2056 e 1223 c.c.., sono solo conseguenza del fatto lesivo ma non si identificano con questo, né si pongono in termini di automatismo causale ( in senso conforme la recente Cass. II Sez. Civ. sent. 12 maggio – 19 agosto 2011 n. 17427 che riafferma il principio secondo cui il danno risarcibile costituisce un ” danno conseguenza che deve essere allegato e provato, non potendosi accogliere la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso parlando di danno evento ovvero che il danno sarebbe in re ipsa, perché snatura la funzione del risarcimento che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo”).
Nel vigente ordinamento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è, invero, riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso e anche da una diversa prospettiva, che prescinda dalle indicate categorie del danno evento e del danno conseguenza, si può ritenere che nelle ipotesi di danno in re ipsa, la presunzione si riferisca solo all’an debeatur (che presuppone soltanto l’accertamento di un fatto potenzialmente dannoso in base ad una valutazione anche di probabilità o di verosimiglianza secondo l’id quod plerumque accidit) e non alla effettiva sussistenza del danno e alla sua entità materiale, sicché in ogni caso permane la necessità della prova di un concreto pregiudizio economico ai fini della determinazione quantitativa e della liquidazione del danno per equivalente pecuniario (Cassazione civile, sez. II, 12/06/2008, n. 15814 e) e non è precluso al giudice il negare la risarcibilità stessa del danno ove la sua effettiva sussistenza o la sua materiale entità non risultino provate.
Essendo risultata la domanda di risarcimento avanzata dall’appellante del tutto carente di allegazione e di prova, la medesima va rigettata.
Conclusivamente, quindi, l’appello va accolto per quanto di ragione ed, in parziale riforma della sentenza impugnata, l’appellato va condannato alla rimozione della tettoia realizzata sul terrazzo sia nella parte ricoperta da tegole che nella parte ricoperta da sole travi in legno.
Tenuto conto dell’esito complessivo della controversia e del parziale accoglimento della domanda le spese di lite vanno compensate in ragione di 1/3 mentre seguono la soccombenza dell’appellato per il residuo e si liquidano d’ufficio, come da dispositivo, con riferimento ai parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, tenuto conto della natura dell’affare, delle questioni trattate e dell’opera prestata.
P.Q.M.
La Corte di Appello di Napoli – sesta sezione civile – definitivamente pronunciando sull’appello proposto da (…), in proprio e nella qualità di unico genitore esercente la potestà genitoriale sul minore (…), (…) e (…), nei confronti di (…) avverso la sentenza del Tribunale di Napoli n. 10953/2011 del 10/10/2011, così provvede:
a) accoglie l’appello per quanto di ragione e, per l’effetto, in totale riforma della sentenza impugnata, accoglie la domanda avanzata da (…), in proprio e nella qualità di unico genitore esercente la potestà genitoriale sul minore (…), (…) e (…) e condanna (…) alla eliminazione della tettoia dal terrazzo della sua proprietà in N. alla via (…);
b) rigetta, per il resto, la domanda;
c) compensa nella misura di 1/3 le spese del doppio grado di giudizio;
d) condanna l’appellato alla rifusione delle spese di lite del doppio grado in favore degli appellanti per i residui 2/3 che liquida, per il primo grado, in complessivi Euro 4.550,00, di cui Euro 4.315,00 per compenso professionale, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge e, per il presente grado, in complessivi Euro 5.230,00, di cui Euro 4.757,00 per compenso professionale, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge;
e) pone definitivamente a carico dell’appellato le spese occorse per la consulenza tecnica d’ufficio, espletata in primo grado.
Così deciso in Napoli l’11 maggio 2018.
Depositata in Cancelleria il 4 giugno 2018.