La tutela del Made in Italy avverso la fallace indicazione di origine e provenienza che induce in errore sulla effettiva origine dei prodotti
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 20226/2022 ha affrontato una questione avente ad oggetto la tutela del Made in Italy avverso la fallace indicazione di origine e provenienza che induce i consumatori in errore sulla effettiva origine dei prodotti.
In particolare, la Cassazione è stata chiamata a decidere se, l’indicazione come marchio distintivo di un nome chiaramente e tipicamente italiano, apposto, su di un prodotto, nella specie delle calzature, prodotte in Cina, fosse idonea ad indurre il consumatore a supporre l’origine italiana di tale prodotto, cosicchè sarebbe stato necessario inserire sul prodotto indicazioni, precise ed evidenti, sull’origine e provenienza estera.
Con la Sentenza in commento, Cassazione n. 20226/2022, in merito alla vicenda sopra descritta, la Corte ha enunciato in seguenti principi di diritto:
- l’apposizione del marchio aziendale con nome e cognome italiani, registrato, sulle confezioni, in assenza di diversa indicazione di origine e provenienza estera (precisamente cinese), è condotta idonea a trarre in inganno il consumatore circa l’esatta origine geografica del prodotto. Tale condotta deve ritenersi quale “fallace indicazione di origine e provenienza” dei prodotti in discorso, dal momento che la riportata indicazione non consentiva – indiscutibilmente – di comprendere che i prodotti industriali erano stati importati dalla Cina, così essendo – senza alcun dubbio – in grado di indurre in errore la platea dei consumatori sulla effettiva origine dei prodotti;
- in tema di sanzioni amministrative, la disposizione di cui al comma 49 bis dell’art.4 della l. n. 350 del 2003 è rivolta non solo a tutelare il “made in Italy”, ma anche a promuovere una adeguata informazione del consumatore sul prodotto da acquistare, dovendo pertanto ritenersi illegittime tutte le condotte idonee ad ingenerare situazioni di incertezza sulla provenienza italiana dello stesso, eventualmente derivanti anche soltanto dalla carenza di indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera.
La Sentenza in commento è disponibile per la consultazione integrale al seguente link: Cassazione n. 20226/2022
La vicenda: apposizione di marchio distintivo italiano su calzature prodotte in Cina
La vicenda riguarda un’azienda di calzature che è stata sanzionata per aver esposto un marchio italiano registrato, con nome e cognome italiani, su delle calzature, prodotte in Cina, in assenza di una chiara e diversa, indicazione di origine o provenienza.
In particolare, la Corte d’appello di Firenze, con sentenza n. 2173/2016, ha riformato la decisione di primo grado che aveva respinto l’opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione n. 310/2013, emessa dalla Camera di Commercio di Firenze nei confronti di una società per la violazione della L. n. 350 del 2003, articolo 4, comma 49 bis, accertata dall’Agenzia delle Dogane.
Tale violazione, come già scritto, era consistita nell’avere messo in commercio calzature, prodotte in Cina, con marchio con nome italiano, in modo da indurre il consumatore, stante la dicitura con nome italiano, senza ulteriori e visibili indicazioni dell’origine cinese, a ritenere che fossero di origine italiana, con conseguente violazione del c.d. “Made in Italy”.
La Corte d’appello di Firenze ha annullato la sanzione confermata nella Sentenza di I grado, rilevando che il marchio e l’origine del prodotto sono concetti diversi e completamente indipendenti tra loro, cosicchè ogni impresa è libera di utilizzare il marchio che preferisce per distinguere i propri prodotti, con il solo limite dato dalla non confondibilità del segno con il marchio altrui e un nome italiano per contraddistinguere un prodotto non è, nell’attualità, indicativo dell’origine italiana dello stesso.
Avverso tale Sentenza ha proposto quindi ricorso per Cassazione la Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Firenze.
La disciplina a tutela del Made in Italy
La tutela del Made in Italy, per quel che in questa interessa, è affidata all’art. 4, commi 49 e 49 bis, della Legge n. 350/2003 che sanzionano sia come reato che come illecito amministrativo l’uso del marchio, pur legittimo, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia italiano quando non lo è realmente
In particolare il comma 49 dell’art. 4 della Legge n. 350/2003 nel disciplinare la fattispecie di reato testualmente dispone:
L’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale. Costituisce falsa indicazione la stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, fatto salvo quanto previsto dal comma 49-bis. Le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. La fallace indicazione delle merci può essere sanata sul piano amministrativo con l’asportazione a cura ed a spese del contravventore dei segni o delle figure o di quant’altro induca a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana. La falsa indicazione sull’origine o sulla provenienza di prodotti o merci può essere sanata sul piano amministrativo attraverso l’esatta indicazione dell’origine o l’asportazione della stampigliatura “made in Italy”.
Il comma 49-bis dell’art. 4 della Legge n. 350/2003 disciplina invece l’illecito amministrativo disponendo che:
Costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. Per i prodotti alimentari, per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui è avvenuta la trasformazione sostanziale. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000.
Il relativo procedimento sanzionatorio viene poi affidato alla competenza delle Camere di commercio industria artigianato ed agricoltura territorialmente competenti ricevono il rapporto di cui all’articolo 17 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ai fi ni dell’irrogazione delle sanzioni pecuniarie amministrative di cui al precedente comma 49 -bis.
A tal riguardo ed in merito alla tutela del Made in Italy, la giurisprudenza, al fine di distinguere le condotte concretanti reato da quelle configuranti solo violazioni amministrative, ha affermato che:
- integra l’illecito amministrativo, l’importazione dall’estero di prodotti recanti un’etichetta raffigurante un marchio idoneo, in assenza di precise indicazioni sulla esatta provenienza o della dichiarazione di impegno a rendere tali informazioni in fase di commercializzazione, a trarre in inganno anche un consumatore esperto sull’effettiva origine del prodotto (così Cassazione. pen. n. 52029/2014).
- la “fallace indicazione” di provenienza o di origine dei prodotti presentati in dogana per l’immissione in commercio integra l’illecito amministrativo, qualora, a causa di indicazioni di provenienza insufficienti o imprecise e non necessariamente ingannevoli, il consumatore è indotto in errore sulla effettiva origine dei prodotti (Cassazione pen. n. 54521/2016, n. 25030/2017 e n. 1119/2020).
Inoltre, come ribadito anche dalla Sentenza in commento, la disposizione di cui comma 49-bis dell’art. 4 della Legge n. 350/2003, è dunque finalizzata ad evitare fraintendimenti in capo al consumatore in ordine all’origine non italiana del prodotto e, pertanto, in tale ottica, vengono sanzionate, in via amministrativa, tutte le condotte idonee a ingenerare situazioni di incertezza eventualmente derivanti anche soltanto dalla carenza di indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera e tanto a tutela non soltanto del Made in Italy, ma anche di un’adeguata informazione del consumatore sul prodotto da acquistare.
In sostanza, ove l’uso del marchio possa determinare fraintendimenti in ordine all’origine del prodotto e indurre il consumatore a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana vi è, invero, l’obbligo per l’azienda importatrice, esportatrice o che commercializza la merce di accompagnare la merce con indicazioni comunque sufficienti ad evitare qualsiasi errore incolpevole del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, indicazioni nel caso di specie non presenti.
Conclusioni: la fallace indicazione di origine e provenienza induce in errore sulla effettiva origine dei prodotti
Nell’esaminare la vicenda in oggetto, la Corte, premettendo che la norma di cui comma 49-bis dell’art. 4 della Legge n. 350/2003, si inquadra dunque nell’ambito della tutela del Made in Italy, al fine osteggiare le attuali tendenze di delocalizzazione di marchi nazionali di lunga tradizione imprenditoriale e che in generale, l’impiego della denominazione Made in Italy è permesso esclusivamente per prodotti finiti, rispetto ai quali almeno due delle fasi di lavorazione caratterizzanti, individuate dal legislatore, abbia avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale.
Orbene, nel caso in esame, la Corte, ha affermato che l’apposizione del marchio aziendale con nome e cognome italiani, registrato, sulle confezioni, in assenza di diversa indicazione di origine e provenienza estera (precisamente cinese), integra l’illecito amministrativo di cui comma 49-bis dell’art. 4 della Legge n. 350/2003 trattandosi di condotta idonea a trarre in inganno il consumatore circa l’esatta origine geografica del prodotto.
La Corte giunge a tale conclusione valutando debitamente che:
- l’indicazione come marchio distintivo di un nome chiaramente e tipicamente italiano, apposto, su di un prodotto in cui l’eccellenza italiana è del tutto notoria a livello mondiale;
- l’etichetta apposta sui prodotti oggetto di contestazione raffigurava il marchio italiano, un segno patronimico evocante la realizzazione ad opera di persona determinata che si sia avvalsa del know-how italiano in un settore di tradizionale e di rinomata produzione, e non recava alcuna ulteriore indicazione idonea – in modo univoco – ad esteriorizzare che le calzature erano state importate dalla Cina;
- l’indicazione “made in China” stampigliata all’interno della tomaia, con minore visibilità del solito, non poteva certamente qualificarsi come un riferimento evidente e visibile immediatamente e quindi chiaro ed esplicito dal quale desumere, senza equivoci, la provenienza estera della merce controllata.
Conclusivamente e come già scritto in apertura, la Corte di Cassazione con la Sentenza in commento, ha enunciato in seguenti principi di diritto:
- l’apposizione del marchio aziendale con nome e cognome italiani, registrato, sulle confezioni, in assenza di diversa indicazione di origine e provenienza estera (precisamente cinese), è condotta idonea a trarre in inganno il consumatore circa l’esatta origine geografica del prodotto. Tale condotta deve ritenersi quale “fallace indicazione di origine e provenienza” dei prodotti in discorso, dal momento che la riportata indicazione non consentiva – indiscutibilmente – di comprendere che i prodotti industriali erano stati importati dalla Cina, così essendo – senza alcun dubbio – in grado di indurre in errore la platea dei consumatori sulla effettiva origine dei prodotti;
- in tema di sanzioni amministrative, la disposizione di cui al comma 49 bis dell’art.4 della l. n. 350 del 2003 è rivolta non solo a tutelare il “made in Italy”, ma anche a promuovere una adeguata informazione del consumatore sul prodotto da acquistare, dovendo pertanto ritenersi illegittime tutte le condotte idonee ad ingenerare situazioni di incertezza sulla provenienza italiana dello stesso, eventualmente derivanti anche soltanto dalla carenza di indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera.
La Sentenza in commento è disponibile per la consultazione integrale al seguente link: Cassazione n. 20226/2022
La tutela del Made in Italy avverso la fallace indicazione di origine e provenienza che induce in errore sulla effettiva origine dei prodotti
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 20226/2022 ha affrontato una questione avente ad oggetto la tutela del Made in Italy avverso la fallace indicazione di origine e provenienza che induce i consumatori in errore sulla effettiva origine dei prodotti.
In particolare, la Cassazione è stata chiamata a decidere se, l’indicazione come marchio distintivo di un nome chiaramente e tipicamente italiano, apposto, su di un prodotto, nella specie delle calzature, prodotte in Cina, fosse idonea ad indurre il consumatore a supporre l’origine italiana di tale prodotto, cosicchè sarebbe stato necessario inserire sul prodotto indicazioni, precise ed evidenti, sull’origine e provenienza estera.
Con la Sentenza in commento, Cassazione n. 20226/2022, in merito alla vicenda sopra descritta, la Corte ha enunciato in seguenti principi di diritto:
La Sentenza in commento è disponibile per la consultazione integrale al seguente link: Cassazione n. 20226/2022
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La vicenda: apposizione di marchio distintivo italiano su calzature prodotte in Cina
La vicenda riguarda un’azienda di calzature che è stata sanzionata per aver esposto un marchio italiano registrato, con nome e cognome italiani, su delle calzature, prodotte in Cina, in assenza di una chiara e diversa, indicazione di origine o provenienza.
In particolare, la Corte d’appello di Firenze, con sentenza n. 2173/2016, ha riformato la decisione di primo grado che aveva respinto l’opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione n. 310/2013, emessa dalla Camera di Commercio di Firenze nei confronti di una società per la violazione della L. n. 350 del 2003, articolo 4, comma 49 bis, accertata dall’Agenzia delle Dogane.
Tale violazione, come già scritto, era consistita nell’avere messo in commercio calzature, prodotte in Cina, con marchio con nome italiano, in modo da indurre il consumatore, stante la dicitura con nome italiano, senza ulteriori e visibili indicazioni dell’origine cinese, a ritenere che fossero di origine italiana, con conseguente violazione del c.d. “Made in Italy”.
La Corte d’appello di Firenze ha annullato la sanzione confermata nella Sentenza di I grado, rilevando che il marchio e l’origine del prodotto sono concetti diversi e completamente indipendenti tra loro, cosicchè ogni impresa è libera di utilizzare il marchio che preferisce per distinguere i propri prodotti, con il solo limite dato dalla non confondibilità del segno con il marchio altrui e un nome italiano per contraddistinguere un prodotto non è, nell’attualità, indicativo dell’origine italiana dello stesso.
Avverso tale Sentenza ha proposto quindi ricorso per Cassazione la Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Firenze.
La disciplina a tutela del Made in Italy
La tutela del Made in Italy, per quel che in questa interessa, è affidata all’art. 4, commi 49 e 49 bis, della Legge n. 350/2003 che sanzionano sia come reato che come illecito amministrativo l’uso del marchio, pur legittimo, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia italiano quando non lo è realmente
In particolare il comma 49 dell’art. 4 della Legge n. 350/2003 nel disciplinare la fattispecie di reato testualmente dispone:
L’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale. Costituisce falsa indicazione la stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, fatto salvo quanto previsto dal comma 49-bis. Le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. La fallace indicazione delle merci può essere sanata sul piano amministrativo con l’asportazione a cura ed a spese del contravventore dei segni o delle figure o di quant’altro induca a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana. La falsa indicazione sull’origine o sulla provenienza di prodotti o merci può essere sanata sul piano amministrativo attraverso l’esatta indicazione dell’origine o l’asportazione della stampigliatura “made in Italy”.
Il comma 49-bis dell’art. 4 della Legge n. 350/2003 disciplina invece l’illecito amministrativo disponendo che:
Costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. Per i prodotti alimentari, per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui è avvenuta la trasformazione sostanziale. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000.
Il relativo procedimento sanzionatorio viene poi affidato alla competenza delle Camere di commercio industria artigianato ed agricoltura territorialmente competenti ricevono il rapporto di cui all’articolo 17 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ai fi ni dell’irrogazione delle sanzioni pecuniarie amministrative di cui al precedente comma 49 -bis.
A tal riguardo ed in merito alla tutela del Made in Italy, la giurisprudenza, al fine di distinguere le condotte concretanti reato da quelle configuranti solo violazioni amministrative, ha affermato che:
Inoltre, come ribadito anche dalla Sentenza in commento, la disposizione di cui comma 49-bis dell’art. 4 della Legge n. 350/2003, è dunque finalizzata ad evitare fraintendimenti in capo al consumatore in ordine all’origine non italiana del prodotto e, pertanto, in tale ottica, vengono sanzionate, in via amministrativa, tutte le condotte idonee a ingenerare situazioni di incertezza eventualmente derivanti anche soltanto dalla carenza di indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera e tanto a tutela non soltanto del Made in Italy, ma anche di un’adeguata informazione del consumatore sul prodotto da acquistare.
In sostanza, ove l’uso del marchio possa determinare fraintendimenti in ordine all’origine del prodotto e indurre il consumatore a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana vi è, invero, l’obbligo per l’azienda importatrice, esportatrice o che commercializza la merce di accompagnare la merce con indicazioni comunque sufficienti ad evitare qualsiasi errore incolpevole del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, indicazioni nel caso di specie non presenti.
Conclusioni: la fallace indicazione di origine e provenienza induce in errore sulla effettiva origine dei prodotti
Nell’esaminare la vicenda in oggetto, la Corte, premettendo che la norma di cui comma 49-bis dell’art. 4 della Legge n. 350/2003, si inquadra dunque nell’ambito della tutela del Made in Italy, al fine osteggiare le attuali tendenze di delocalizzazione di marchi nazionali di lunga tradizione imprenditoriale e che in generale, l’impiego della denominazione Made in Italy è permesso esclusivamente per prodotti finiti, rispetto ai quali almeno due delle fasi di lavorazione caratterizzanti, individuate dal legislatore, abbia avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale.
Orbene, nel caso in esame, la Corte, ha affermato che l’apposizione del marchio aziendale con nome e cognome italiani, registrato, sulle confezioni, in assenza di diversa indicazione di origine e provenienza estera (precisamente cinese), integra l’illecito amministrativo di cui comma 49-bis dell’art. 4 della Legge n. 350/2003 trattandosi di condotta idonea a trarre in inganno il consumatore circa l’esatta origine geografica del prodotto.
La Corte giunge a tale conclusione valutando debitamente che:
Conclusivamente e come già scritto in apertura, la Corte di Cassazione con la Sentenza in commento, ha enunciato in seguenti principi di diritto:
La Sentenza in commento è disponibile per la consultazione integrale al seguente link: Cassazione n. 20226/2022