Ciò posto, si sono diffusi vari orientamenti sulle conseguenze della difformità tra l’ISC (indicatore sintetico di costo) indicato in contratto e quello concretamente applicato:
secondo un primo indirizzo ermeneutico l’indicazione nel contratto di un ISC inferiore rispetto al TAEG costituirebbe una violazione dell’art. 117, comma VI, del TUB, secondo cui sono da ritenersi nulle quelle clausole che prevedono per i clienti condizioni economiche più sfavorevoli di quelle pubblicizzate, con conseguente nullità della clausola relativa agli interessi e, conseguentemente, la necessità di applicare – in sostituzione del tasso dichiarato nullo – il tasso nominale dei buoni ordinari del tesoro ai sensi dell’art. 117, comma 7 TUB (cfr. Trib. Chieti, n. 230 del 23 aprile 2015).
Secondo la più recente giurisprudenza, condivisa dall’adito giudicante, invece, l’ISC non rappresenta una specifica condizione economica da applicare al contratto di finanziamento, svolgendo unicamente una funzione informativa finalizzata a porre il cliente nella posizione di conoscere il costo totale effettivo del finanziamento prima di accedervi. L’erronea quantificazione dell’ISC, quindi, non potrebbe comportare una maggiore onerosità del finanziamento (non mettendo in discussione la determinazione delle singole clausole contrattuali che fissano i tassi di interesse e gli altri oneri a carico del mutuatario) e, conseguentemente, non renderebbe applicabile a tale situazione quanto disposto dall’art. 117, comma 6 TUB.

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Tribunale Roma, Sezione 17 civile Sentenza 2 gennaio 2019, n. 48

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI ROMA

SEZIONE XVII CIVILE

Il Giudice, in persona del dr. Tommaso MARTUCCI, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel procedimento civile di I grado iscritto al n. 63797/2016 del Ruolo Generale degli Affari Civili, posto in deliberazione all’udienza del 3/10/2018 e promosso da:

(…) (C.F. (…))

(…) (C.F. (…))

entrambi residenti in A. L. (R.), via (…) ed elettivamente domiciliati in Roma, via (…) presso lo studio dell’Avv. Fa.Pi., che li rappresenta e difende in virtù di mandato allegato all’atto di citazione

ATTORI

contro

(…) S.p.A. con sede legale in R., Via A. S. 16 e Direzione Generale in M., P. G. A., 3 – T. A, (c.f.. e n. Reg. Imprese di Roma (…)), elettivamente domiciliata in Roma, via di San Valentino, 21, presso lo studio degli Avv.ti Francesco Carbonetti e Fabrizio Carbonetti, che la rappresentano e difendono giusta procura generale rilasciata dal Direttore Generale e legale rappresentante dott. R.N., a rogito notaio C.V. di B. del (…) rep. (…) reg. a Bologna 1 il 29.10.2010

CONVENUTA

FATTO-DIRITTO

MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione notificato in data 19/12/2014 (…) e (…) convenivano in giudizio avanti all’intestato Tribunale la S.p.A. (…), in persona del legale rappresentante pro tempore, chiedendone la condanna al pagamento in proprio favore della somma Euro 105.249,72, indebitamente percepita a titolo di interessi, previo accertamento della nullità parziale ex art. 1815 c.c. del contratto di mutuo inter partes relativamente alla determinazione dei tassi di interesse.

La parte attrice, premesso di aver stipulato con la S.p.A. (…) in data 16/5/2005 il contratto di mutuo rep. n. (…), racc. n. (…), per la somma di Euro 260.000,00, da restituirsi mediante il pagamento di n. (…) rate posticipate, con la previsione del tasso d’interesse corrispettivo del 3,91% e del tasso moratorio pari al tasso degli interessi corrispettivi maggiorato di 2 punti, deduceva l’usurarietà del contratto, a fronte del tasso soglia antiusura pari, all’epoca della stipulazione del mutuo, al 5,81%, rappresentando la necessità di verificare la correttezza dell’ISC indicato in contratto.

La S.p.A. (…), in persona del legale rappresentante pro tempore, costituitasi con comparsa del 13/8/2015, chiedeva il rigetto delle avverse domande.

La banca, in particolare, contestava il criterio di determinazione del TEG proposto dalla controparte ai fini della verifica della usurarietà del rapporto inter partes e riteneva legittime le clausole del contratto di mutuo concernenti l’ammortamento, l’ISC e i tassi d’interesse.

Esperiti gli incombenti preliminari, concessi i termini ex art. 183, co. VI, c.p.c., il giudice fissava per la precisazione delle conclusioni l’udienza del 3/10/2018, al cui esito, sulle conclusioni rassegnate, tratteneva la causa in decisione, concedendo alle parti i termini per le memorie conclusive.

Con particolare riferimento alla causa petendi, (…) e (…) chiedono la condanna della S.p.A. (…), in persona del legale rappresentante pro tempore, alla ripetizione delle somme che, secondo la loro prospettazione, sarebbero state indebitamente percepite in forza del rapporto di mutuo inter partes a titolo di interessi usurari, previo accertamento della nullità parziale ex art. 1815 c.c. del contratto.

Le domande sono infondate.

Invero, il rapporto controverso traeva origine dal contratto di mutuo fondiario stipulato in data 16/5/2005 tra gli odierni attori e la S.p.A. (…) per la Casa, rep. n. (…), racc. n. (…), per la somma di Euro 260.000,00, da restituirsi in 30 anni mediante n. 360 rate posticipate e con la previsione del tasso d’interesse corrispettivo variabile e determinato in misura corrispondente alla quotazione dell’Euribor a 3 mesi in essere per valuta 2 giorni lavorativi anteriori alla scadenza della rata, maggiorato di 1,750 punti percentuali in ragione di anno, pari, per le prime tre rate di ammortamento, al 2,158%, maggiorato di 1,750%; il tasso d’interesse moratorio era fissato in misura corrispondente al tasso d’interesse corrispettivo, maggiorato di 2 punti.

Orbene, in relazione al rapporto di mutuo de quo, gli attori hanno eccepito la usurarietà dei tassi di interesse determinati ab origine dalla banca e da quest’ultima unilateralmente variati.

La doglianza è priva di pregio.

La questione giuridica rilevante nel caso di specie attiene all’applicabilità della disciplina in materia di usura al tasso degli interessi moratori.

Giova premettere che, in tema di contratto di mutuo, con norma di interpretazione autentica, l’art. 1, comma 1, D.L. n. 394 del 2000, conv. da L. n. 24 del 2001, ha stabilito che si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento e, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, l’art. 1 della L. n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori (cfr. Cass. civ. n. 5598 del 06/03/2017; Cass. civ. n. 5324 del 04/04/2003).

Rileva, tuttavia, il giudicante che il tasso di mora ha una funzione autonoma e distinta rispetto agli interessi corrispettivi, poiché mentre l’uno sanziona il ritardato pagamento, gli interessi corrispettivi costituiscono la effettiva remunerazione del denaro mutuato, pertanto, stante la diversa funzione ed il diverso momento di operatività, la verifica della usurarietà degli interessi moratori va effettuata in modo distinto ed autonomo da quella relativa agli interessi corrispettivi, con esclusione della loro sommatoria.

Ciò posto, si sono diffusi al riguardo due opposti orientamenti:

il primo (Trib. Cremona 9.1.2015; Trib. Milano 29.1.2015; Trib. Roma 7.5.2015; Trib. Rimini 6.2.2015; Trib. Vibo Valentia; Trib. Brescia 24.11.2014; Trib. Salerno 27.7.1998; Trib. Macerata 1.6.1999; Trib. Napoli 5.5.2000; Trib. Treviso 12.11.2015; Cass. Pen. 5689/2012) esclude l’applicabilità agli interessi di mora della normativa antiusura sulla base dei seguenti rilievi: gli artt. 1815, comma 2, c.c. e 644, comma 1, c.p. si riferiscono, rispettivamente, agli interessi “convenuti” e “in corrispettivo”, dunque valorizzano la fase fisiologica del rapporto (Trib. Verona 12.9.2015); le Istruzioni della (…) per il calcolo del tasso effettivo globale medio (TEGM) non contemplano gli interessi di mora (c.d. principio di omogeneità di confronto), posto che la L. n. 108 del 1996 esige la rilevazione comparata di “operazioni della stessa natura”;

la mancanza di un tasso soglia ad hoc degli interessi moratori (cfr. Trib. Varese 26.4.2016 e Trib. Milano 28.4.2016); la diversa funzione degli interessi moratori – peraltro eventuali – aventi natura risarcitoria/sanzionatoria, rispetto agli interessi corrispettivi, aventi natura remunerativa (cfr. Trib. Treviso 12.11.2015, secondo cui gli interessi moratori non remunerano affatto il creditore dell’erogazione del credito, ma lo ristorano per il protrarsi della perdita della disponibilità di somme di denaro che egli non ha accettato, ma che subisce per effetto dell’inadempimento del debitore e per un periodo di tempo non prevedibile); il TAEG di cui alle Direttive 2008/48/CE e 2014/17/UE non contempla gli interessi moratori.

Il secondo indirizzo ermeneutico esclude il tasso di mora dall’ambito di operatività della L. n. 108 del 1996, valorizzando il D.L. n. 132 del 2014, convertito in L. n. 162 del 2014, che all’art. 17, comma 1, ha novellato l’art. 1284, ult. co., c.c., prevedendo che il saggio degli interessi (di mora), dal momento in cui è proposta la domanda giudiziale, ove non sia pattuito dalle parti, è pari a quello previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2002 in materia di transazioni commerciali e questo tasso, con riferimento a talune categorie di operazioni, quali i mutui, è spesso risultato superiore al tasso – soglia: ne consegue, secondo questo indirizzo giurisprudenziale, la liceità della pattuizione di un interesse di mora pari o anche superiore a quello di cui al D.Lgs. n. 231 del 2002, quindi superiore al tasso – soglia (Trib. Cremona 9.1.2015; Trib. Vibo Valentia 22.7.2015; Trib. Treviso 12.11.2015; Trib. Monza 3.3.2016; Trib. Varese 26.4.2016; Trib. Milano 28.4.2016).

Prevale, tuttavia, in dottrina e in giurisprudenza l’orientamento secondo cui gli interessi moratori sono soggetti alle soglie d’usura (cfr. Cass. civ. nn. 4251/1992, 5286/2000, 14899/2000, 5324/2003, 350/2013, 602/2013, 603/2013 nonché Corte Cost. n. 29 del 2002, secondo cui è “plausibile l’assunto” che gli interessi di mora siano assoggettati al tasso – soglia): il principale argomento posto a sostegno di questo indirizzo è l’affermazione del “principio di omogeneità di trattamento degli interessi, pur nella diversità di funzione” e la circostanza che “il ritardo colpevole … non giustifica il permanere della validità di una obbligazione così onerosa e contraria alla legge” (così la Corte di cassazione nelle decisioni da ultimo citate).

Quest’ultimo orientamento, consolidatosi nella recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di contratto di mutuo, l’art. 1 della L. n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori (cfr. Cass. civ. n. 5598 del 06/03/2017; Cass. civ. 23192/2017), si fonda anche sui seguenti ulteriori argomenti:

a) la L. 28 febbraio 2001, n. 24, di interpretazione autentica della L. n. 108 del 1996, testualmente disciplina gli “interessi … promessi o convenuti, a qualunque titolo”, quindi anche gli interessi moratori (depone in tale direzione anche la Relazione governativa al D.L. n. 394 del 2000);

b) l’art. 644 c.p. statuisce il “limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari” senza distinzioni tra tipologie di interessi;

c) i rischi dell’utilizzazione strumentale degli interessi moratori, se sottratti alla disciplina antiusura;

d) l’irrazionalità di sanzionare i vantaggi usurari nella fase fisiologica del rapporto e non in quella patologica (mora)

Orbene, l’adito giudicante condivide l’ultimo degli orientamenti sopra citati ed i principi su cui si fonda: nondimeno, la rilevazione dell’usurarietà degli interessi moratori postula l’analisi dei relativi tassi autonomamente rispetto agli interessi corrispettivi, con esclusione di ogni ipotesi di sommatoria tra gli stessi.

Invero, nei contratti di mutuo, ai fini della verifica del rispetto della L. n. 108 del 1996, l’interesse di mora non va sommato a quello convenzionale, poiché, qualora il debitore divenga moroso, il tasso di interesse moratorio non si aggiunge agli interessi convenzionali, ma si sostituisce agli stessi: gli interessi convenzionali si applicano sul capitale a scadere, costituendo il corrispettivo del diritto del mutuatario di godere la somma capitale in conformità al piano di rimborso graduale (artt. 821 e 1815 cod. civ.), mentre gli interessi di mora si applicano solamente sul debito scaduto (art.1224 cod. civ.).

L’eventuale caduta in mora del rapporto non comporterebbe comunque la somma dei due tipi di interesse, venendo gli interessi di mora ad applicarsi unicamente al capitale non ancora restituito e alla parte degli interessi convenzionali già scaduti e non pagati qualora gli stessi fossero imputati a capitale.

Non vale in contrario richiamare la nota sentenza della Corte di cassazione n. 350 del 9/1/2013, in cui non si afferma di doversi procedere al cumulo tra i tassi d’interesse corrispettivo e moratorio ai fini della verifica del rispetto della soglia antiusura, ma solamente che anche per gli interessi di mora occorre verificarne l’usurarietà, principio già in precedenza affermato dalla Suprema Corte (cfr. Cass. civ. n. 5286 del 22/4/2000; Cass. n. 5324 del 4/4/2003).

Non rilevano, ai fini della verifica del superamento della soglia antiusura del tasso degli interessi moratori, le spese relative al contratto bancario, posto che l’interesse di mora non attiene alla remunerazione del capitale, bensì alla penalità per il ritardato adempimento del mutuatario, fatto imputabile a quest’ultimo e meramente eventuale, in una fase patologica del rapporto.

Osserva al riguardo la prevalente giurisprudenza di merito che è infondata la modalità di conteggio del “tasso effettivo di mora (T.E.MO.)”, posto che la previsione contrattuale di interessi moratori concerne la mera ipotesi, patologica ed eventuale, di un ritardo nel pagamento delle rate ed è, dunque, riferita a fattispecie che si discosta dal corso fisiologico del contratto, avendo tali oneri natura risarcitoria, diversamente dagli interessi corrispettivi, connessi all’erogazione del credito.

Tanto premesso, se da un lato si reputa corretto computare, unitamente agli interessi corrispettivi, i restanti costi ed oneri connessi all’erogazione del credito ai fini della determinazione del tasso corrispettivo applicato al rapporto (conteggio del TEG), dall’altro pare incoerente replicare tale modalità di calcolo con riferimento agli interessi di mora, attesa la ribadita diversa natura di questi ultimi” (cfr. Trib. Milano, n. 11854 del 22 ottobre 2015; App. Milano, 20 gennaio 2015).

Ed ancora, pur rilevando, ai fini del tasso soglia, anche il tasso d’interesse moratorio, per verificare il superamento i due tassi d’interesse non si sommano, in quanto succedono l’uno all’altro; in particolare, il moratorio succede al corrispettivo in caso di inadempimento o ritardo (cfr. Trib. Roma, ord. 3 giugno 2015).

Corrobora l’orientamento sopra espresso il punto 4) dei “Chiarimenti in materia di applicazione della legge antiusura” del 2/7/2013, che costituisce un valido parametro interpretativo della disciplina antiusura, secondo cui i TEG medi rilevati dalla (…) includono, oltre al tasso nominale, tutti gli oneri connessi all’erogazione del credito.

Gli interessi di mora sono esclusi dal calcolo del TEG, perché non sono dovuti dal momento dell’erogazione del credito ma solo a seguito di un eventuale inadempimento da parte del cliente.

L’esclusione evita di considerare nella media operazioni con andamento anomalo. Infatti, essendo gli interessi moratori più alti, per compensare la banca del mancato adempimento, se inclusi nel TEG medio potrebbero determinare un eccessivo innalzamento delle soglie, in danno della clientela.

Tale impostazione è coerente con la disciplina comunitaria sul credito al consumo che esclude dal calcolo del TAEG (Tasso Annuo Effettivo Globale) le somme pagate per l’inadempimento di un qualsiasi obbligo contrattuale, inclusi gli interessi di mora.

L’esclusione degli interessi di mora dalle soglie è sottolineata nei decreti trimestrali del Ministero dell’Economia e delle Finanze i quali specificano che “i tassi effettivi globali medi (…) non sono comprensivi degli interessi di mora contrattualmente previsti per i casi di ritardato pagamento.

In ogni caso, anche gli interessi di mora sono soggetti alla normativa anti – usura.

Per evitare il confronto tra tassi disomogenei (TEG applicato al singolo cliente, comprensivo della mora effettivamente pagata, e tasso soglia che esclude la mora), i decreti trimestrali riportano i risultati di un’indagine per cui “la maggiorazione stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento è mediamente pari a 2,1 punti percentuali”.

In assenza di una previsione legislativa che determini una specifica soglia in presenza di interessi moratori, la (…) adotta, nei suoi controlli sulle procedure degli intermediari, il criterio in base al quale i TEG medi pubblicati sono aumentati di 2,1 punti per poi determinare la soglia su tale importo”.

Ciò posto e venendo al caso di specie, i tassi d’interesse previsti dal contratto di mutuo, se correttamente analizzati al momento della stipulazione degli accordi, sono stati legittimamente pattuiti nel rispetto del tasso soglia antiusura.

Il tasso d’interesse corrispettivo, pari al 3,91% al momento della stipulazione del mutuo, era notevolmente inferiore al c.d. tasso soglia antiusura, che alla data del 16/5/2005 era pari al 5,805%; risulta parimenti inferiore al tasso soglia antiusura previsto per tale tipologia di interessi, all’epoca del contratto pari al 8,955%, il tasso d’interesse moratorio.

Con particolare riferimento al tasso moratorio, viene in rilievo la differente funzione assolta rispetto agli interessi corrispettivi da quelli moratori, gli uni costituendo il corrispettivo del diritto del beneficiario del credito di godere della somma capitale concessa in prestito, gli altri rappresentando la liquidazione anticipata e forfetaria del danno causato al concedente dall’inadempimento o dal ritardato adempimento del beneficiario.

Le due categorie di interessi si differenziano poi anche in punto di disciplina applicabile, in quanto gli interessi moratori, dissimilmente da quelli corrispettivi, sono dovuti dal giorno della mora e a prescindere dalla prova del danno subito, così come previsto dall’art. 1224, c.1 c.c., pertanto, pur non potendosi sottrarre gli interessi di mora alla disciplina sull’usura, si ritiene che il tasso moratorio non debba essere confrontato con il tasso soglia previsto per gli interessi corrispettivi.

Ed invero, le rilevazioni operate dalla (…), sulla scorta delle quali il Ministero dell’Economia determina trimestralmente, mediante appositi decreti, i tassi effettivi globali medi posti alla base di calcolo del “tasso soglia”, non includono gli interessi di mora, che riguardano operazioni con andamento anomalo, in quanto non sono dovuti dal momento dell’erogazione del credito, ma solo a seguito dell’inadempimento da parte del cliente. Sarebbe pertanto iniquo, oltre che scientificamente inattendibile, un confronto di due dati disomogenei, ove il primo sia calcolato computando le voci di costo secondo una metodologia che esclude gli interessi di mora e il secondo sia calcolato computando voci di costo diverse, che includono degli interessi moratori.

La rilevazione dei tassi usurari richiede necessariamente l’utilizzazione di dati tra loro oggettivamente comparabili, sicché se detto raffronto non viene effettuato adoperando la medesima metodologia di calcolo, il dato che se ne ricava non che essere viziato (cfr. Cass. civ. n. 22270 del 3/11/2016).

Anche volendo ricostruire in via interpretativa un tasso soglia per gli interessi moratori, tale tasso dovrà necessariamente essere superiore al tasso soglia previsto per gli interessi corrispettivi in ragione della cennata differenza funzionale intercorrente tra le due tipologie di interessi.

Il parametro oggettivo disponibile per la ricostruzione in via interpretativa di un tasso soglia degli interessi moratori è dato dai risultati di un’indagine statistica effettuata dalla (…), che rilevò come mediamente il tasso degli interessi moratori convenzionalmente pattuito fosse maggiorato di 2,1 punti percentuali rispetto al tasso medio degli interessi corrispettivi.

Tale maggiorazione è menzionata anche nei decreti ministeriali (almeno a decorrere dal secondo trimestre dell’anno 2003), laddove è testualmente previsto che “i tassi effettivi globali … non sono comprensivi degli interessi di mora contrattualmente previsti per i casi di ritardato pagamento” e che “la maggiorazione stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento è mediamente pari a 2,1 punti percentuali”.

Dunque, ai fini del verificarsi dell’usura il tasso di mora dovrà essere raffrontato con un tasso soglia determinato attraverso la maggiorazione del TEGM del 2,1%, aumentato poi della metà (a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 8, co. V, lett. d) D.L. n. 70 del 2011, convertito, con modificazioni, con la L. n. 106 del 2011, il tasso soglia antiusura per gli interessi di mora è determinato maggiorando il TEGM del 2,1%, aumentato poi del 25% e di ulteriori quattro punti percentuali).

Il Tribunale non ignora la recente ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. civ. n. 27442 del 30/10/2018), che, dopo aver affermato il principio di diritto secondo cui anche agli interessi moratori si applica la disciplina sull’usura di cui all’art. 2 della L. n. 108 del 1996, ha ritenuto – sia pure incidentalmente – illegittima, in assenza di una qualsiasi norma di legge, la determinazione di un tasso di “mora-soglia” ottenuto incrementando il tasso soglia antiusura.

L’adito giudice non condivide tale conclusione, che appare in contrasto con le direttive delineate dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la quale, intervenendo ex professo sulla questione della verifica dell’usura in presenza della pattuizione di commissioni di massimo scoperto, ha affermato la necessità di utilizzare nel raffronto dati omogenei e, a tal fine, ha fatto ricorso ai criteri di calcolo indicati dalla (…) e richiamati negli stessi decreti ministeriali, ratificandone la legittimità (Cass. civ. sez. un. n. 16303 del 20/6/2018).

La Suprema Corte a sezioni unite, con la citata sentenza, di fronte all’alternativa se ritenere illegittimi e, quindi, disapplicare i decreti ministeriali di rilevazione del TEGM anteriori all’entrata in vigore dell’art. 2-bis del D.L. n. 185 del 2008, oppure interpretarli conformemente alla legge, alla luce dei consolidati principi di conservazione degli atti giuridici, ha ritenuto corretto il criterio – indicato dalla (…) e richiamato negli stessi decreti ministeriali – che rileva separatamente l’entità della commissione di massimo scoperto sulla base di un specifico tasso-soglia.

Seguendo il medesimo iter logico motivazionale sviluppato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, mutatis mutandis, in relazione alla verifica dell’usurarietà degli interessi moratori il criterio correttivo indicato dalla (…) e fatto proprio dai decreti ministeriali (almeno a far tempo dal secondo trimestre del 2003) risulta conforme alla norma di legge primaria, la quale impone di soddisfare le esigenze di omogeneità e simmetria.

A ritenere diversamente (ovvero negando rilevanza giuridica al citato criterio correttivo) i decreti ministeriali sarebbero illegittimi (perché imporrebbero il confronto tra dati eterogenei) e, quindi, dovrebbero essere disapplicati con conseguente venir meno di qualunque parametro idoneo a misurare la c.d. usura oggettiva.

La maggiorazione proposta dalla (…) è, dunque, pienamente legittima, poiché, oltre ad essere prevista dai decreti ministeriali, consente di rendere omogeneo il parametro di riferimento (il tasso soglia) al dato in verifica (gli interessi moratori), conformemente alla voluntas legis (cfr. Trib. Roma n. 22880 del 28/11/2018).

I tassi degli interessi corrispettivi e moratori previsti dal contratto di mutuo inter partes si sottraggono pertanto alle censure attoree, risultando inferiori al c.d. tasso soglia antiusura.

Sono parimenti infondate le censure relative al piano di ammortamento.

La contestazione concerne in sostanza il sistema di ammortamento alla francese.

Come noto, si tratta di un sistema graduale di rimborso del capitale finanziato in cui le rate da pagare alla fine di ciascun anno sono calcolate in modo che esse rimangano costanti nel tempo (per tutta la durata del prestito).

Le rate comprendono, quindi, una quota di capitale ed una quota di interessi, le quali, combinandosi insieme, mantengono costante la rata periodica per l’intera durata del rapporto.

Ciò è possibile in quanto la quota capitale è bassa all’inizio dell’ammortamento per poi aumentare progressivamente man mano che il prestito viene rimborsato.

Viceversa (e da qui la costanza della rata) la quota interessi parte da un livello molto alto per poi scendere gradualmente nel corso del piano di ammortamento, perché gli interessi sono calcolati su un debito residuo inizialmente alto e poi sempre più basso in virtù del rimborso progressivo del capitale che avviene ad ogni rata pagata.

La caratteristica del cd. piano di ammortamento alla francese non è, quindi, quella di operare un’illecita capitalizzazione composta degli interessi, ma soltanto quella della diversa costruzione delle rate costanti, in cui la quota di interessi e quella di capitale variano al solo fine di privilegiare nel tempo la restituzione degli interessi rispetto al capitale.

Gli interessi convenzionali sono, quindi, calcolati sulla quota capitale ancora dovuta e per il periodo di riferimento della rata, senza capitalizzare in tutto o in parte gli interessi corrisposti nelle rate precedenti.

Né si può sostenere che si sia in presenza di un interesse composto per il solo fatto che il metodo di ammortamento alla francese determina inizialmente un maggior onere di interessi rispetto al piano di ammortamento all’italiana, che, invece, si fonda su rate a capitale costante.

Il piano di ammortamento alla francese, conformemente all’art. 1194 c.c., prevede un criterio di restituzione del debito che privilegia, sotto il profilo cronologico, l’imputazione ad interessi rispetto quella al capitale.

In conclusione, ogni rata determina il pagamento unicamente degli interessi dovuti per il periodo cui la rata si riferisce (importo che viene integralmente corrisposto con la rata), mentre la parte rimanente della quota serve ad abbattere il capitale.

Orbene, conformemente alla giurisprudenza prevalente, condivisa dall’adito Tribunale, “si deve escludere che l’opzione per l’ammortamento alla francese comporti per sé stessa l’applicazione di interessi anatocistici, perché gli interessi che vanno a comporre la rata da pagare sono calcolati sulla sola quota di capitale, e che il tasso effettivo sia indeterminato o rimesso all’arbitrio del mutuante. Infatti, anche nel metodo di capitalizzazione alla francese gli interessi vengono calcolati sulla quota capitale via via decrescente e per il periodo corrispondente a ciascuna rata, sicché non vi è alcuna discordanza tra il tasso pattuito e quello applicato e non vi è alcuna applicazione di interessi su interessi, atteso che gli interessi conglobati nella rata successiva sono a loro volta calcolati unicamente sulla residua quota di capitale, ovverosia sul capitale originario detratto l’importo già pagato con la rata o le rate precedenti” (cfr. Tribunale di Roma, sez. IX, ord. 20/4.2015).

Ed ancora, rileva la giurisprudenza prevalente, con riferimento al piano di ammortamento c.d. alla francese, che tale sistema matematico di formazione delle rate risulta in verità predisposto in modo che in relazione a ciascuna rata la quota di interessi ivi inserita sia calcolata non sull’intero importo mutuato, bensì di volta in volta con riferimento alla quota capitale via via decrescente per effetto del pagamento delle rate precedenti, escludendosi in tal modo che, nelle pieghe della scomposizione in rate dell’importo da restituire, gli interessi di fatto vadano determinati almeno in parte su se stessi, producendo l’effetto anatocistico contestato” (cfr. Trib. Milano, 29/1/2015).

E’ irrilevante, inoltre, ai fini della validità ed efficacia del contratto di mutuo inter partes la corrispondenza tra il TAEG/ISC indicato in contratto e quello effettivamente risultante dal contratto ed applicato, a prescindere dalla fondatezza della relativa contestazione attorea.

Giova premettere che la disciplina di riferimento è prevista dagli artt. 116 e 117 D.P.R. n. 385 del 1993, che impongono alle Banche di pubblicizzare in modo chiaro le condizioni economiche applicate nei rapporti con i clienti e l’art. 116, comma 3 T.(…) demanda il compito di individuare più specificamente gli obblighi informativi in capo agli istituti di credito al CICR, che, con Delib. del 4 marzo 2003, ha demandato alla (…) l’individuazione dei contratti per i quali gli istituti di credito devono riportare espressamente l’indicatore sintetico di costo ed indicarne il contenuto ed i parametri di calcolo.

La (…), dando esecuzione alla citata normativa, ha disciplinato l’ISC nel Titolo X delle proprie Istruzioni di vigilanza ed ha emanato le disposizioni sulla “Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari” il 29 luglio 2009, successivamente integrate il 9 febbraio 2011), secondo cui i finanziamenti (intesi come operazioni di mutuo, anticipazioni bancarie, aperture di credito in conto corrente, nonché i prestiti personali e i prestiti c.d. “finalizzati”) devono riportare nel foglio illustrativo e nel documento di sintesi l’ISC, calcolato secondo la formula prevista dalla (…) per il TAEG.

Ciò posto, si sono diffusi vari orientamenti sulle conseguenze della difformità tra l’ISC indicato in contratto e quello concretamente applicato:

secondo un primo indirizzo ermeneutico l’indicazione nel contratto di un ISC inferiore rispetto al TAEG costituirebbe una violazione dell’art. 117, comma VI, del TUB, secondo cui sono da ritenersi nulle quelle clausole che prevedono per i clienti condizioni economiche più sfavorevoli di quelle pubblicizzate, con conseguente nullità della clausola relativa agli interessi e, conseguentemente, la necessità di applicare – in sostituzione del tasso dichiarato nullo – il tasso nominale dei buoni ordinari del tesoro ai sensi dell’art. 117, comma 7 TUB (cfr. Trib. Chieti, n. 230 del 23 aprile 2015).

Secondo la più recente giurisprudenza, condivisa dall’adito giudicante, invece, l’ISC non rappresenta una specifica condizione economica da applicare al contratto di finanziamento, svolgendo unicamente una funzione informativa finalizzata a porre il cliente nella posizione di conoscere il costo totale effettivo del finanziamento prima di accedervi. L’erronea quantificazione dell’ISC, quindi, non potrebbe comportare una maggiore onerosità del finanziamento (non mettendo in discussione la determinazione delle singole clausole contrattuali che fissano i tassi di interesse e gli altri oneri a carico del mutuatario) e, conseguentemente, non renderebbe applicabile a tale situazione quanto disposto dall’art. 117, comma 6 TUB (cfr. Trib. Roma 19 aprile 2017).

Quest’ultimo orientamento è stato ribadito anche dal Tribunale di Milano, secondo cui non si rinviene nel diritto positivo la sanzione della nullità per la fattispecie in questione, essendo stata prevista una simile sanzione solo nel settore del credito al consumo, nella cui disciplina l’art. 125-bis, comma VI, del TUB dispone che, nel caso in cui il TAEG indicato nel contratto non sia stato determinato correttamente, le clausole che impongono al consumatore costi aggiuntivi (rispetto a quelli effettivamente computati nell’ISC) sono da considerarsi nulle.

Ne consegue che, qualora il legislatore avesse voluto sanzionare con la nullità la difformità tra ISC e TAEG nell’ambito di operazioni diverse dal credito al consumo, lo avrebbe espressamente previsto, analogamente a quanto avvenuto con l’art. 125-bis, comma VI, TUB, pertanto l’erronea indicazione dell’ISC non determina nessuna incertezza sul contenuto effettivo del contratto stipulato e del tasso di interesse effettivamente pattuito, pertanto la violazione dell’obbligo pubblicitario perpetrata dalla Banca mediante l’erronea quantificazione dell’ISC non è suscettibile di determinare alcuna invalidità del contratto di mutuo (né tantomeno della sola clausola relativa agli interessi), ma può configurarsi unicamente come illecito e, in quanto tale, essere fonte di responsabilità della Banca (cfr. Trib. Milano n. 10832 del 26/10/2017).

Ne consegue l’infondatezza delle domande attoree di accertamento della nullità parziale del contratto di mutuo, nonché delle pretese restitutorie della parte attrice, strettamente connesse alle domande di accertamento.

Le spese processuali, liquidate come in dispositivo di seguono la soccombenza.

P.Q.M.

visto l’art. 281-quinquies c.p.c.;

il Tribunale di Roma, definitivamente pronunziando sulle domande proposte con atto di citazione notificato in data 19/12/2014 da (…) e (…) avverso la S.p.A. (…), in persona del legale rappresentante pro tempore, contrariis reiectis:

RIGETTA le domande proposte da (…) e (…) avverso la S.p.A. (…);

CONDANNA (…) e (…) al pagamento in favore della controparte delle spese processuali, che liquida in Euro 7.500,00 per compenso professionale, oltre al 15% per spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma il 2 gennaio 2019.

Depositata in Cancelleria il 2 gennaio 2019.

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Avv. Umberto Davide

Fare un ottimo lavoro: questo è il mio lavoro! Su tutte, è indubbiamente, la frase, che meglio mi rappresenta. Esercitare la professione di Avvocato, costituisce per me, al tempo stesso, motivo di orgoglio, nonchè costante occasione di crescita personale, in quanto stimola costantemente le mie capacità intellettuali. Essere efficiente, concreto e soprattutto pratico, nell’affrontare le sfide professionali, offrendo e garantendo, al tempo stesso, a tutti coloro che assisto, una soluzione adatta e soprattutto sostenibile, alle questioni che mi presentano e mi affidano, questo è il mio impegno.