Il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equita’, e’ nullo per violazione della norma imperativa di cui all’articolo 2110 cod. civ., comma 2
Corte di Cassazione, Sezioni Unite civile Sentenza 22 maggio 2018, n. 12568
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente f.f.
Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente di Sez.
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente di Sez.
Dott. MANNA Antonio – rel. Presidente di Sez.
Dott. GRECO Antonio – Consigliere
Dott. TRIA Lucia – Consigliere
Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere
Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 26171-2015 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
(OMISSIS) S.P.A., in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 385/2014 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 04/11/2014.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/03/2018 dal Presidente Dott. ANTONIO MANNA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale, inammissibilita’ o in subordine rigetto del ricorso incidentale;
uditi gli avvocati (OMISSIS) per delega orale dell’avvocato (OMISSIS) e (OMISSIS) per delega dell’avvocato (OMISSIS).
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza pubblicata il 27.10.15 la Corte d’appello di Cagliari rigettava il gravame di (OMISSIS) contro la sentenza del 5.10.12 con cui il Tribunale della stessa sede aveva respinto la sua impugnativa del licenziamento intimatogli con lettera dell’8.7.04 dal (OMISSIS) S.p.A. per superamento del periodo di comporto e dichiarava assorbito l’appello incidentale della societa’.
2. Statuivano i giudici di merito che, sebbene il periodo di comporto in realta’ non risultasse esaurito alla data di intimazione del licenziamento, nondimeno il recesso fosse da considerarsi non gia’ invalido, bensi’ meramente inefficace fino all’ultimo giorno di malattia, vale a dire fino al 27.7.04, data in cui il periodo massimo di comporto risultava ormai scaduto.
3. Aggiungevano a tal fine che era irrilevante che il lavoratore si fosse presentato in azienda per riprendere servizio nei giorni 14, 15 e 16 luglio 2004, non essendo in possesso d’un certificato medico che ne attestasse la guarigione.
4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso (OMISSIS) affidandosi a tre motivi, mentre (OMISSIS) S.p.A. ha resistito con controricorso ed ha spiegato ricorso incidentale basato su un unico motivo.
5. Entrambe le parti hanno poi depositato memorie ex articolo 378 cod. proc. civ..
6. Con ordinanza interlocutoria n. 24766/17 la sezione lavoro di questa S.C. ha rilevato l’esistenza di due non coerenti indirizzi giurisprudenziali: l’uno afferma la mera inefficacia del licenziamento irrogato in costanza di malattia, efficacia posticipata alla cessazione dello stato patologico, l’altro asserisce la nullita’ del licenziamento irrogato prima che risulti esaurito il periodo di comporto.
7. Pertanto, con la predetta ordinanza interlocutoria i ricorsi sono stati rimessi al Primo Presidente, il quale li ha poi assegnati alle sezioni unite.
6. Le parti hanno depositato nuove memorie ex articolo 378 cod. proc. civ..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione dell’articolo 2110 cod. civ., censurandosi la decisione di appello per avere ritenuto che il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto e prima della scadenza dello stesso fosse inefficace anziche’ nullo; si afferma la necessita’ della sussistenza della situazione giustificativa del recesso datoriale gia’ al momento dell’intimazione del licenziamento, come statuito da varie pronunce di legittimita’.
1.2. Con il secondo motivo si lamenta violazione dell’articolo 132 cod. proc. civ., comma 2, n. 4, e nullita’ della sentenza perche’ sorretta da, una motivazione solo apparente, non avendo la Corte di merito chiarito le ragioni della ritenuta preferibilita’, rispetto alla tesi della nullita’, di quella della mera inefficacia del licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto.
1.3. Il terzo motivo deduce violazione dell’articolo 2110 cod. civ. e articolo 49 c.c.n.l. settore credito del 1999 e omesso esame circa un fatto decisivo, rappresentato dal criterio di calcolo utilizzato ai fini del computo del periodo di comporto; in proposito si censura la sentenza impugnata nella parte in cui, pur convenendo con il fatto che i giorni di malattia da considerare nell’arco dei quarantotto mesi, corrispondenti al periodo di comporto, erano settecentotrenta, aveva ritenuto legittimo il licenziamento senza considerare che, ai sensi dell’articolo 2110 cod. civ., solo il superamento di detto periodo rendeva legittimo il recesso datoriale; quanto all’omesso esame, esso riguardava l’atto di recesso, la sua interpretazione e la mancata esplicitazione delle ragioni per le quali il riferimento ai settecentotrenta giorni di assenza sarebbe risultato decisivo per ritenere legittimo il licenziamento.
2.1. Con unico motivo il ricorso incidentale deduce violazione dell’articolo 2110 cod. civ. e dell’articolo 49 c.c.n.l. 9.7.99, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto applicabile il calcolo del comporto secondo il calendario comune anziche’ in base ad una durata mensile convenzionale di trenta giorni, nonostante che la prassi seguita e il costante orientamento giurisprudenziale in materia militassero nel senso indicato dalla societa’.
3.1. Il primo motivo del ricorso principale e’ fondato.
Si, premetta che, secondo ormai consolidato indirizzo interpretativo di questa S.C. (cfr., ex aliis, v. Cass. n. 24525/14; Cass. n. 12031/99; Cass. n. 9869/91), ai sensi dell’articolo 2110 cod. civ. il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di licenziamento, vale a dire una situazione di per se’ idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all’articolo 2119 cod. civ. e alla L. n. 604 del 1966, articoli 1 e 3.
D’altronde, il mero protrarsi di assenze oltre un determinato limite stabilito dalla contrattazione collettiva – o, in difetto, dagli usi o secondo equita’ – di per se’ non costituisce inadempimento alcuno (trattandosi di assenze pur sempre giustificate); ne’ per dare luogo a licenziamento si richiede un’accertata incompatibilita’ fra tali prolungate assenze e l’assetto organizzativo o tecnico-produttivo dell’impresa, ben potendosi intimare il licenziamento per superamento del periodo di comporto pur ove, in concreto, il rientro del lavoratore possa avvenire senza ripercussioni negative sugli equilibri aziendali.
In altre parole, nell’articolo 2110 cod. civ., comma 2, si rinviene un’astratta predeterminazione (legislativo-contrattuale) del punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre d’un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia od infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale.
Si noti che l’assunto secondo cui quella in esame e’ un’autonoma fattispecie di licenziamento non e’ smentito dalla giurisprudenza (v. Cass. n. 284/17; Cass. n. 8707/16; Cass. n. 23920/2010; Cass. n. 23312/2010; Cass. n. 11092/2005) che ritiene tale recesso assimilabile ad uno per giustificato motivo oggettivo anziche’ per motivi disciplinari: si tratta d’una mera “assimilazione” (e non “identificazione”) affermata al solo fine di escludere la necessita’ d’una previa completa contestazione (indispensabile, invece, in tema di responsabilita’ disciplinare), da parte datoriale, delle circostanze di fatto (le assenze per malattia) relative alla causale e di cui il lavoratore ha conoscenza personale e diretta (fermo restando ovviamente – l’onere del datore di lavoro di allegare e provare l’avvenuto superamento del periodo di non recedibilita’).
3.2. La questione per cui sono state investite queste Sezioni Unite – che risiede nell’alternativa tra il considerare il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia del lavoratore, ma prima del superamento del periodo di comporto, soltanto inefficace fino a tale momento o, invece, il ritenerlo ab origine nullo per violazione dell’articolo 2110 cod. civ., comma 2, – va sgomberata da possibili equivoci.
Invero, i precedenti di Cass. n. 1657/93 e Cass. n. 9037/01, nell’affermare che il licenziamento intimato in ragione del protrarsi delle assenze per malattia del lavoratore, ma prima che si sia esaurito il periodo di conservazione del posto di lavoro (previsto dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, dagli usi o stabilito secondo equita’), e’ meramente inefficace fino a quando tale periodo non si consumi, rinviano puramente e semplicemente a Cass. n. 1151/88 e a Cass. n. 9032/2000, che tuttavia, a ben vedere, muovono da presupposti diversi.
Infatti, Cass. n. 1151/88 statuisce che prima che scada il comporto non e’ consentito licenziare il lavoratore per perdurante morbilita’, a meno che non ricorra l’ipotesi – eccezionale e diversa dal quella oggi in esame – di malattia irreversibile e inemendabile tale da rendere certo che il dipendente non sara’ piu’ in grado di riprendere la propria normale attivita’ lavorativa. E’ chiaro che in siffatta evenienza il licenziamento non deriva piu’ dal protrarsi delle assenze per malattia, ma da una differente situazione che a sua volta prescinde anche da eventuali assenze del lavoratore e dalla loro durata, ossia scaturisce dall’impossibilita’ di proseguire il rapporto per sopravvenuta inidoneita’ fisica del dipendente (accertabile ai sensi della L. n. 300 del 1970, articolo 5, comma 2): quest’ultima e’ una fattispecie ben distinta (come questa S.C. ha evidenziato fin da Cass. n. 140/83 e, in tempi meno remoti, con Cass. n. 1404/12) da quella per cui oggi e’ processo.
Neppure il richiamo alla citata Cass. n. 9032/2000 e’ conferente, poiche’ tale sentenza si occupa della mera questione interpretativa – e del relativo onere probatorio – della condotta datoriale che si sia risolta nell’intimare il licenziamento pur sempre dopo la scadenza del periodo di comporto.
In realta’, le sentenze di questa S.C. che hanno statuito il differimento dell’efficacia del licenziamento sino allo scadere del periodo di comporto l’hanno fatto in relazione a licenziamenti alla cui base vi era gia’ un motivo di recesso diverso e autonomo dal mero protrarsi della malattia, vale a dire a licenziamenti intimati o per giustificato motivo oggettivo (Cass. n. 23063/13 e Cass. n. 4394/88), o per giustificato motivo oggettivo derivante da sopravvenuta inidoneita’ a determinate mansioni (Cass. n. 239/05), o per riduzione di personale (Cass. n. 7098/90), o per giusta causa (Cass. n. 11087/05), o per giustificato motivo oggettivo rispetto al quale era, poi, sopraggiunta una giusta causa di recesso considerata come idonea di per se’ p risolvere immediatamente il rapporto, ancor prima che cessasse lo stato di malattia (Cass. n. 64/17), o per licenziamento ad nutum (Cass. n. 133/89).
In tutte tali evenienze, dunque, il perdurante stato di malattia funge non gia’ da motivo di recesso, ma da elemento ad esso estrinseco e idoneo soltanto a differire l’efficacia del licenziamento, mentre nella vicenda di cui oggi si controverte tale situazione integra di per se’ l’unica ragione del licenziamento medesimo.
Pertanto, in tale giurisprudenza il richiamo al differimento dell’efficacia del recesso datoriale sino alla cessazione della malattia o fino all’esaurirsi del periodo di comporto vale solo a ribadire la nota regola in virtu’ della quale la quiescenza del rapporto (conseguente all’assenza per malattia od infortunio) impedisce l’immediato prodursi dell’effetto risolutivo: si tratta di asserto ininfluente ai fini della questione in oggetto.
In breve, le uniche sentenze (Cass. n. 9037/01 e Cass. n. 1657/93) che hanno espressamente affermato che il licenziamento intimato solo per perdurante morbilita’ e prima dello scadere del periodo di comporto sia valido, ancorche’ meramente inefficace fino alla scadenza medesima, si sono basate su precedenti giurisprudenziali che – in realta’ – statuivano altro.
3.3. L’opzione interpretativa secondo cui sarebbe gia’ validamente disposto il licenziamento per il protrarsi delle assenze per malattia del lavoratore, con l’unico limite del mero differimento dell’efficacia del recesso fino a quando non si sia consumato il periodo massimo di comporto, contrasta con la sentenza n. 2072/80 di queste Sezioni Unite e con la successiva conforme giurisprudenza – cui deve darsi continuita’ anche nella presente sede – ed e’ altresi’ impraticabile in termini di coerenza, dogmatica all’interno della teoria generale del negozio giuridico.
La citata sentenza n. 2072/80 delle Sezioni Unite gia’ da lungo tempo ha statuito che ai sensi dell’articolo 2110 cod. civ., comma 2, (riferito tanto al comporto c.d. secco quanto a quello c.d. per sommatoria) il datore di lavoro puo’ recedere dal rapporto solo dopo la scadenza del periodo all’uopo fissato dalla contrattazione collettiva (ovvero, in difetto, determinato secondo usi o equita’) ed ha espressamente escluso che reiterate assenze per malattia del dipendente integrino un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ai sensi della L. n. 604 del 1966, articolo 3.
Ammettere come valido (sebbene momentaneamente inefficace) il licenziamento intimato ancor prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto significherebbe consentire un licenziamento che, all’atto della sua intimazione, e’ ancora sprovvisto di giusta causa o giustificato motivo e non e’ sussumibile in altra autonoma fattispecie legittimante.
Si tratterebbe, quindi, d’un licenziamento sostanzialmente acausale (nell’accezione giuslavoristica del termine) disposto al di fuori delle ipotesi residue previste dall’ordinamento (lavoratori in prova, dipendenti domestici, dirigenti, lavoratori ultrasessantenni in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia).
Sarebbe – questo – un modo per aggirare l’interpretazione (accolta dalla costante giurisprudenza di questa S.C.) dell’articolo 2110 cod. civ., comma 2, e di ignorarne la ratio, che e’ quella di garantire al lavoratore un ragionevole arco temporale di assenza per malattia od infortunio senza per cio’ solo perdere l’occupazione.
Ne’ si dica che il fatto giustificativo debba essere valutato non in concreto, bensi’ in astratto ed ex ante, secondo la prospettiva del datore di lavoro al momento di intimazione del licenziamento, fermo restando che il fatto medesimo dovra’ poi essere accertato in sede giudiziaria: ove pure il datore di lavoro fosse convinto, nel momento in cui ha comunicato il licenziamento, dell’avvenuta consumazione del periodo di comporto, non per questo il licenziamento potrebbe considerarsi meramente inefficace sol in base all’erroneo calcolo effettuato dal dichiarante.
Infatti, mentre l’oggetto dell’accertamento giurisdizionale va calibrato in ragione del motivo di licenziamento enunciato, l’individuazione dell’eventuale sanzione applicabile (nullita’, inefficacia, annullamento etc.) va pur sempre parametrata al fatto come in concreto emerso all’esito del giudizio, a prescindere dall’originaria prospettiva di parte datoriale.
Ad esempio, un licenziamento nullo (v. L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 1, nel testo novellato ex L. n. 92 del 2012) perche’ discriminatorio o viziato da motivo illecito e determinante non si sottrarra’ alla sanzione della nullita’ sol perche’ nella lettera di licenziamento sia stata enunciata un’inesistente infrazione disciplinare astrattamente integrante giusta causa di recesso.
Neppure puo’ distinguersi fra il caso in cui il datore di lavoro abbia erroneamente calcolato le assenze e/o i termini interno ed esterno del comporto e quello in cui egli, pur consapevole del mancato esaurirsi del comporto medesimo, nondimeno abbia ritenuto di poter licenziare il dipendente per il solo fatto d’una eccessiva morbilita’: in entrambe le evenienze il licenziamento risultera’ difforme dal modello legale delineato dall’articolo 2110 cod. civ., comma 2 (come interpretato da costante giurisprudenza di questa S.C.).
L’opzione ermeneutica della mera inefficacia non puo’ suffragarsi neppure adducendo che, ad ogni modo, la fattispecie legittimante il recesso (vale a dire il, superamento del periodo di comporto) si potrebbe realizzare successivamente: a cio’ e’ agevole obiettare che i requisiti di validita’ del negozio vanno valutati al momento in cui viene posto in essere (sulla necessita’ che i requisiti di validita’ del licenziamento sussistano al momento in cui esso si perfeziona v. Cass. n. 7596/03) e non gia’ al momento della produzione degli effetti (salvo il caso, che qui non ricorre, disciplinato dall’articolo 1347 cod. civ.).
Intuitive esigenze di coerenza dogmatica all’interno della teoria generale del negozio giuridico sconsigliano forzature.
3.4. Per completezza espositiva deve infine segnalarsi che, nel caso di specie, neppure la tesi della mera inefficacia del licenziamento intimato prima dello spirare del termine di comporto consentirebbe il rigetto della domanda di reintegra, atteso che dalla sentenza impugnata emerge che il termine massimo di comporto sarebbe spirato (secondo i calcoli effettuati dai giudici di merito) il 27 luglio 2004, mentre gia’ nei giorni 14, 15 e 16 luglio 2004 il ricorrente si era presentato in azienda per riprendere servizio, non riuscendovi sol perche’ la societa’ aveva rifiutato la sua prestazione pretendendo che presentasse un certificato di avvenuta guarigione.
A tale ultimo proposito va puntualizzato che – contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata – per poter riprendere il lavoro il prestatore non ha l’onere di munirsi di un tale certificato, non esistendo nel settore creditizio alcuna norma di legge in tal senso.
Ne’ un onere del genere potrebbe ricavarsi dal Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 41, comma 2, lettera e-ter), come modificato dalla L. n. 106 del 2009, che si limita a prevedere che la sorveglianza sanitaria sia effettuata dal medico competente (di cui al precedente articolo 38), anche mediante visita sanitaria precedente alla ripresa del lavoro a seguito di assenza per motivi di salute protrattasi per piu’ di sessanta giorni continuativi, visita finalizzata a verificare l’idoneita’ alle mansioni: si tratta di controllo che la legge non configura come condicio iuris della ripresa dell’attivita’ lavorativa e che, per di piu’, va attivato ad iniziativa datoriale e non del lavoratore.
Infatti, non solo il “medico competente”, come definito dal Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 2, comma 1, lettera h), cit., e’ nominato dallo stesso datore di lavoro, con il quale collabora, ma il comma 4 del cit. articolo 41 stabilisce che le visite mediche di cui al comma 2 sono “a cura e spese del datore di lavoro”, al punto che la loro omissione puo’ anche costituire grave inadempimento del datore di lavoro che, se del caso, legittima l’eccezione di inadempimento del lavoratore ex articolo 1460 cod. civ. (come questa S.C. ha gia’ avuto modo di pronunciarsi con sentenza n. 24459/16).
3.5. Deve altresi’ escludersi che il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, ma anteriormente alla sua scadenza, sia meramente ingiustificato, tale dovendosi – invece considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione d’un giustificato motivo o d’una giusta causa che risulti, poi, smentita (in punto di fatto e/o di diritto) all’esito della verifica giudiziale.
Al contrario, come premesso nel paragrafo che precede sub 3.1., il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di recesso diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all’articolo 2119 cod. civ. e alla L. n. 604 del 1966, articoli 1 e 3.
Prova ne sia che la giurisprudenza di questa S.C., disattendendo un contrario e minoritario indirizzo dottrinale, ha sempre statuito – e da lungo tempo – che l’avvenuto decorso del termine di comporto abilita senz’altro il datore di lavoro a recedere per tale solo fatto, vale a dire senza che siano necessarie la sussistenza e l’allegazione di ulteriori elementi integranti un giustificato motivo a norma della L. n. 604 del 1966, articolo 3 (cfr. Cass. n. 9869/91; Cass. n. 382/88; Cass. n. 2090/81; Cass. n. 1277/80; Cass. n. 2971/79; Cass. n. 2491/79).
Ne’ per definire come meramente ingiustificato il licenziamento intimato prima dello spirare del termine massimo di comporto si dica che, esclusa tale ipotesi, quel che residua e’ un licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo e, come tale, ingiustificato: si tratta d’un mero artificio dialettico che trascura il dato di fatto che il licenziamento e’ stato pur sempre intimato per il protrarsi delle assenze del lavoratore sul presupposto giuridicamente erroneo (perche’ contrastante con l’articolo 2110 cod. civ., comma 2) che cio’ sia consentito ancora prima dello spirare del termine massimo di comporto.
Diversamente opinando, qualunque licenziamento nullo (perche’ discriminatorio, viziato da motivo illecito determinante o lesivo di norma imperativa di legge) verrebbe pur sempre a collocarsi nell’area della mera mancanza di giustificazione.
3.6. Deve, invece, darsi continuita’ alla giurisprudenza di questa S.C. che considera nullo il licenziamento intimato solo per il protrarsi delle assenze dal lavoro, ma prima ancora che il periodo di comporto risulti scaduto (cfr. Cass. n. 24525/14; Cass. n. 1404/12; Cass. n. 12031/99; Cass. n. 9869/91).
Muovendo dall’interpretazione, dell’articolo 2110 cod. civ., comma 2, accolta fin dalla summenzionata Cass. S.U. n. 2072/80, va evidenziato che il carattere imperativo della norma, in combinata lettura con l’articolo 1418 cod. civ., non consente soluzioni diverse.
E’ noto che dottrina e giurisprudenza definiscono l’imperativita’ delle norme in rapporto all’esigenza di salvaguardare valori morali o sociali o valori propri d’un dato ordinamento giuridico.
E il valore della tutela della salute e’ sicuramente prioritario all’interno dell’ordinamento – atteso che l’articolo 32 Cost. lo definisce come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettivita’” – cosi’ come lo e’ quello del lavoro (basti pensare, in estrema sintesi, all’articolo 1 Cost., comma 1, articoli 4 e 35 Cost. e ss.).
In questa cornice di riferimento e’ agevole evidenziare come la salute non possa essere adeguatamente protetta se non all’interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro.
All’affermazione della nullita’ del licenziamento in discorso non osta l’avere il vigente testo della L. n. 300 del 1970, articolo 18 (come novellato ex L. n. 92 del 2012) collocato la violazione dell’articolo 2112 cod. civ., comma 2, nel comma 7 anziche’ nel comma 1 (riservato ad altre ipotesi di nullita’ previste dalla legge), con conseguente applicazione del regime reintegratorio attenuato anziche’ pieno.
Infatti, in considerazione d’un minor giudizio di riprovazione dell’atto assunto in violazione di norma imperativa, ben puo’ il legislatore graduare diversamente il rimedio ripristinatorio pur in presenza della medesima sanzione di nullita’, di guisa che la citata previsione del comma 7 dell’articolo 18 si pone come norma speciale rispetto a quella generale contenuta,nel comma 1 la’ dove si parla di altri casi di nullita’ previsti dalla legge.
3.6. La tesi – qui confermata – della nullita’ del licenziamento intimato prima ancora che il periodo di comporto risulti scaduto non presenta le controindicazioni ipotizzate da talune voci di dottrina.
Non si ravvisa quella secondo cui addosserebbe al datore di lavoro un onere eccessivo, vale a dire quello dell’esatto calcolo del comporto massimo applicabile al singolo caso: a parte il rilievo che in ogni ipotesi di recesso diverso da quello ad nutum il datore di lavoro sopporta il rischio d’un licenziamento viziato da un’erronea valutazione dello stato di fatto e/o di diritto che lo consenta (sicche’ non si comprende perche’ la soluzione dovrebbe qui essere difforme), basti osservare che eventuali incertezze a riguardo possono essere superate prudenzialmente attendendo una sicura verifica e, se del caso, posticipando la decisione al rientro del lavoratore.
Infatti, come questa S.C. ha gia’ avuto modo di statuire (cfr. Cass. n. 18411/16; Cass. n. 24899/11), fermo restando il potere datoriale di recedere non appena esaurito il periodo comporto e, quindi, anche prima del rientro al lavoro del dipendente, nondimeno il datore di lavoro ha altresi’ la facolta’ di attendere tale rientro per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del lavoratore all’interno dell’assetto organizzativo, se del caso mutato, dell’azienda.
Ne deriva che solo a decorrere dal rientro in servizio del lavoratore l’eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto puo’ essere oggettivamente sintomatica della volonta’ di rinunciare all’esercizio del potere di licenziamento e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente.
Ne’ un’eventuale errore di calcolo del termine massimo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva – errore che abbia indotto il datore di lavoro ad anticipare il licenziamento rispetto al reale momento di esaurimento di tale periodo – impedisce che il licenziamento, nullo, possa poi essere tempestivamente rinnovato una volta che le assenze del lavoratore effettivamente superino il termine massimo di conservazione del posto di lavoro.
Infatti, all’interno della stessa giurisprudenza che afferma la nullita’ – e non la mera inefficacia – del licenziamento intimato prima che il periodo di comporto si sia esaurito, emerge altresi’ la statuizione che consente il rinnovo dell’atto di recesso una volta che sopraggiunga la scadenza del temine massimo di comporto, atteso che il nuovo licenziamento, risolvendosi in un negozio diverso dal precedente, esula dal divieto di cui all’articolo 1423 cod. civ. (cfr. Cass. n. 24525/14).
4.1. L’accoglimento del primo motivo del ricorso principale assorbe la disamina del secondo e del terzo.
5.1. Il ricorso incidentale e’ inammissibile per mancanza di interesse.
Infatti, essendo indirizzato non gia’ contro una statuizione della sentenza di merito (che ha visto totalmente vittoriosa la S.p.A. (OMISSIS)), ma solo contro il passaggio motivazionale in cui la Corte territoriale calcola il periodo di comporto, risulta proposto in difetto di quella soccombenza che costituisce il presupposto indispensabile dell’impugnazione (cfr., da ultimo e per tutte, Cass. n. 22095/17), non potendo impugnarsi una pronuncia giurisdizionale al solo fine di correggerne la motivazione (cfr., ex aliis, Cass. n. 18674/11; Cass. n. 14970/07; Cass. n. 6601/05; Cass. n. 9637/01; Cass. n. 8924/98).
Ne’ la carenza di interesse viene meno sol per l’accoglimento del primo motivo del ricorso principale, atteso che in tal caso il ricorrente incidentale ha la facolta’ di riproporre al giudice del rinvio le questioni non accolte o ritenute assorbite dalla sentenza cassata (cfr., ancora da ultimo e per tutte, Cass. n. 22095/17, cit.).
6.1. In conclusione, accolto il primo motivo del ricorso principale, vanno dichiarati assorbiti il secondo e il terzo, mentre deve dichiararsi inammissibile il ricorso incidentale.
Per l’effetto, si cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e si rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimita’, alla Corte d’appello di Cagliari in diversa composizione, che si atterra’ al seguente principio di diritto:
“Il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equita’, e’ nullo per violazione della norma imperativa di cui all’articolo 2110 cod. civ., comma 2”.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo del ricorso principale, dichiara assorbiti il secondo e il terzo, dichiara inammissibile il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Cagliari in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimita’.