Nella prassi bancaria la commissione di massimo scoperto è quantificata attraverso il limite massimo della somma utilizzata nel periodo: ciò è perfettamente in linea con lo schema causale sopra indicato giacché l’impiego di tale importo trova ragione proprio nel fatto che questo sia stato messo a disposizione del cliente. Quanto all’oggetto della prestazione, la giurisprudenza ha ritenuto che tali clausole possano essere validamente pattuite dalle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale, a condizione che:
a) l’onere aggiuntivo che viene posto a carico del cliente risulti determinato o determinabile (art. 1346 cod. civ.), ciò che accade quando siano noti la misura del tasso applicato, i criteri di calcolo della commissione e la sua periodicità;
b) la pattuizione risponda ai requisiti di forma previsti dall’art. 117, comma 4, TUB, che impone la forma scritta ad substantiam per ogni prezzo, condizione od onere praticati nei contratti bancari.
In assenza di tali requisiti non si potrebbe ravvisare l’esistenza di un accordo tra le parti su tale pattuizione accessoria (non potendosi ritenere che il cliente abbia prestato un consenso consapevole, rendendosi conto dell’effettivo contenuto giuridico della clausola e delle sue conseguenze economiche) e l’addebito delle commissioni di massimo scoperto si tradurrebbe in una imposizione unilaterale della banca priva di base giuridica.
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Tribunale Frosinone, civile Sentenza 1 agosto 2018, n. 734
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI FROSINONE
– SEZIONE CIVILE –
in persona del giudice dott.ssa Maria Ciccolo ha emesso la seguente
SENTENZA
nella causa civile di primo grado, iscritta al n. 247 del Ruolo Generale per gli Affari Contenziosi dell’anno 2015, vertente
tra
(…) S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in San Giorgio a Liri, via (…), presso lo studio dell’avv. Ra.Pa., che la rappresenta e difende per procura a margine dell’atto di citazione
attrice
e
(…) s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Frosinone, via (…), presso lo studio dell’avv. Eu.Fe., che la rappresenta e difende per procura generale notaio (…) di B. del (…), rep. n. (…)
convenuta
OGGETTO: accertamento negativo del credito e ripetizione di indebito – contratti di conto corrente.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I fatti controversi.
(…) S.r.l. ha evocato in giudizio (…) S.p.A., e dedotto:
– di intrattenere presso l’agenzia di Frosinone di (…) s.p.a. il rapporto di conto corrente n. (…) ed il rapporto di conto anticipi n. (…);
– che la banca, nel corso dei rapporti, aveva addebitato competenze non dovute, ed in particolare:
1) aveva applicato interessi anatocistici, frutto di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori semplici (a fronte di una capitalizzazione annuale degli interessi creditori);
2) aveva addebitato la c.m.s., nonostante la nullità della relativa clausola per illiceità della causa ed indeterminatezza dell’oggetto;
3) aveva addebitato illegittimamente la commissione di istruttoria veloce, perché disancorata dal dettato normativo, e spese non pattuite;
4) nel corso dei rapporti, in determinati trimestri, aveva addebitato interessi in misura superiore alla soglia di usura;
5) aveva effettuato il c.d. “gioco delle valute”, cioè l’illegittima antergazione e postergazione delle stesse rispetto alla data in cui aveva effettivamente acquistato o perso la disponibilità del denaro.
Ciò premesso, la parte attrice ha chiesto al tribunale di accertare e dichiarare la nullità e l’inefficacia di ogni negozio di riconoscimento di debito e/o transazione intercorso tra le parti e delle clausole negoziali del contratto di conto corrente n. (…), come articolatosi nel tempo in punto di numerazione, e del secondario conto anticipi, per illegittimo anatocismo trimestrale, illegittimo computo delle valute, addebiti per c.m.s., addebiti per spese non assistite da specifica pattuizione, addebiti per interessi passivi in misura superiore al tasso soglia; di determinare giudizialmente alla data dell’ultimo estratto conto in atti, a mezzo di c.t.u. contabile, il giusto ed esatto saldo del conto n. (…) e del secondario conto anticipi, e, per l’effetto, ordinare alla convenuta l’esatta annotazione del saldo conto riliquidato alla data dell’ultimo estratto conto in atti; condannare (…) s.p.a. alla restituzione di quanto indebitamente percepito a titolo di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, a titolo di c.m.s. e comunque per la capitalizzazione trimestrale della stessa, a titolo di interessi sopra soglia, spese non pattuite, illegittimo computo delle valute, e di tutto quanto percepito in esecuzione delle predette attività illegittime, importo che si determina in Euro 287.276,93, ovvero nella somma maggiore o minore ritenuta di giustizia, oltre interessi legali dalla data di notifica della citazione al saldo; con vittoria di spese, da distrarsi in favore del difensore antistatario.
(…) s.p.a. si è costituita in giudizio e ha eccepito preliminarmente la prescrizione della domanda di ripetizione dell’indebito; ha chiesto il rigetto di tutte le domande attoree, con vittoria di spese.
E’ stata disposta consulenza tecnica d’ufficio. Infine, all’udienza del 26.1.2018, le parti hanno precisato le conclusioni riportandosi rispettivamente ai propri scritti e alla comparsa di risposta, e la causa è stata trattenuta in decisione con la concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.
2. Nel merito della controversia.
In estrema sintesi, la parte attrice ha chiesto di accertare l’inesistenza totale o parziale del credito dell’istituto bancario convenuto costituito dai saldi negativi di due conti correnti, il conto n. (…) ed il conto anticipi n. (…), asserendo che detti saldi sono stati determinati da clausole contrattuali affette da nullità, o che in ogni modo siano privi di titolo, nonché la condanna della convenuta alla restituzione di tutte le somme illegittimamente riscosse.
Va premesso che, agendo in giudizio, la parte attrice non ha dedotto se i conti alla data della domanda fossero o meno stati chiusi, e si è limitata a dedurre che la (…) S.r.l. “intrattiene” i rapporti di conto corrente; il c.t.u., però, ha potuto verificare, esaminando la documentazione in atti (contratti ed estratti conto), che il conto n. (…), già n. (…), è stato aperto con contratto sottoscritto in data 12.6.1995 e alla data della citazione era ancora aperto, e che il conto n. (…) è stato aperto con contratto sottoscritto in data 4.2.2009 e di non aver potuto, però, accertare la data di chiusura.
Dunque, è assodato che il conto n. (…) alla data della domanda era ancora aperto, né è stata dedotta e provata una chiusura successiva; quanto al conto n. (…), poiché la chiusura del conto è elemento costitutivo della domanda di ripetizione dell’indebito si ritiene che avrebbe dovuto essere dimostrata dalla parte attrice, la quale non ha fornito alcuna prova in tal senso. Ne consegue, in accordo con la giurisprudenza di merito costante, che la domanda di ripetizione dell’indebito è inammissibile, perché sino alla chiusura del conto non vi è nessun pagamento, e, quindi, nessuno spostamento patrimoniale, e può essere esaminata solo la domanda di accertamento negativo (cfr. Trib. Verona, n. 3229 del 26.11.2015: “In caso di attualità del conto corrente, è inammissibile l’azione di ripetizione di indebito proposta dal correntista nei confronti della banca. L’azione attorea può essere infatti esaminata esclusivamente sotto il profilo dell’accertamento dell’illiceità degli addebiti eseguiti dall’istituto di credito, esclusa ogni ipotesi condannatoria alla restituzione dell’asserito indebito oggettivo”; Trib. Roma, n. 20484 del 31.10.2017, in motivazione: “Sul punto va ricordato, dando continuità alla propria giurisprudenza e ribadendo condivisa adesione a consolidata giurisprudenza di merito e di legittimità; che, qualora il conto corrente sia ancora in essere al momento della notificazione della citazione, è inammissibile qualsiasi domanda di ripetizione di indebito, sul presupposto della nullità di alcune delle clausole del contratto; infatti l’annotazione in conto corrente di una posta, relativa ad interessi o commissioni in ipotesi illegittimamente addebitati, comporta unicamente un incremento del debito del correntista o, nel caso di affidamento, una riduzione del credito in ipotesi disponibile, ma in alcun caso si risolve in un trasferimento patrimoniale e quindi in un pagamento, oggetto di possibile ripetizione. Solo in caso di chiusura del conto, da cui decorre la prescrizione decennale, si può avere un pagamento, nel caso in cui la banca abbia chiesto la restituzione del saldo finale, in ipotesi ridotto per effetto appunto dell’applicazione di interessi o commissioni illegittimamente applicati per effetto di clausole accertate come nulle”).
Ciò premesso, l’attrice ha allegato, a sostegno della domanda di accertamento negativo: (1) l’illegittima capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi; (2) l’illegittimo addebito di c.m.s., priva di causa lecita e pattuita in modo non sufficientemente determinato; (3) l’illegittimo addebito di spese non pattuite; (4) il superamento della soglia di usura nel corso dei rapporti; (5) l’illegittima antergazione e postergazione delle valute.
Occorre, dunque, ricostruire il saldo dei conti correnti in esame, alla luce delle contestazioni formulate dalla parte attrice.
Va preliminarmente precisato che, come verificato dal consulente tecnico d’ufficio, la (…) S.r.l. ha sottoscritto con la banca convenuta due contratti di conto corrente, il n. (…), poi rinumerato in n. (…), sottoscritto in data 12.6.1995 (all. 5 alla comparsa di risposta) e ancora aperto al momento della domanda, e il n. (…), sottoscritto in data 4.2.2009 e di cui non è dimostrata la chiusura, come detto.
Inoltre, il consulente ha accertato che in atti sono presenti, quanto al conto n. (…), il contratto di apertura (all. 3 alla comparsa di risposta) e gli estratti conto dal primo trimestre del 1998 (all. 2 all’atto di citazione); mancando gli estratti dall’inizio del rapporto al IV trimestre 1997, e trattandosi di azione di ripetizione dell’indebito, con onere della prova a carico del correntista (cfr. Cass. n. 24948/2017: “Nei rapporti bancari in conto corrente, il correntista che agisca in giudico per la ripetizione dell’indebito è tenuto a fornire la prova sia degli avvenuti pagamenti che della mancanza, rispetto ad essi, di una valida causa debendi, sicché il medesimo ha l’onere di documentare l’andamento del rapporto con la produzione di tutti quegli estratti conto, i quali evidenziano le singole rimesse che, per riferirsi ad importi non dovuti, sono suscettibili di ripetizione in quanto riferite a somme non dovute”; così anche Trib, Roma n. 3715 del 20.2.2018; De Jure), si è chiesto al consulente di eseguire il ricalcolo partendo dal saldo portato dal primo estratto disponibile, anche se negativo. Dunque, la documentazione in atti, con l’accorgimento di cui sopra, ha consentito di svolgere il calcolo richiesto.
Quanto al conto n. (…), sono presenti in atti il contratto di apertura (all. 4 alla comparsa di risposta) e solo alcuni estratti (all. 2 all’atto di citazione): in particolare, il c.t.u. ha verificato la mancanza di numerosi estratti (pag. 2 dell’estratto conto dicembre 2011, l’estratto marzo 2012, pag. 2 dell’estratto aprile 2012 e dell’estratto ottobre 2012, gli estratti di gennaio, febbraio, aprile, maggio e da luglio a novembre 2013), e anche di numerosi scalari (pag. 2 dello scalare II trimestre 2009, pagg. 2 e 3 dello scalare III trimestre 2010, pag. 2 dello scalare IV trimestre 2010 e di tutti i trimestri 2011, lo scalare del I trimestre 2012, pagg. 2 e 3 dei trimestri II e III 2012, lo scalare del IV trimestre 2012, pagg. 2 e 3 del I e II trimestre 2013, lo scalare del III trimestre 2013 e pag. 2 dello scalare del IV trimestre 2013).
Ora, considerando che il conto è stato aperto in data 4.2.2009, si ritiene la documentazione insufficiente a dimostrare gli addebiti illegittimi, e, quindi, a fondare la domanda di accertamento negativo; dunque, alla luce del principio giurisprudenziale richiamato circa il riparto dell’onere probatorio, quanto al conto n. (…) la domanda di accertamento negativo va respinta.
In ogni caso, il c.t.u. ha anche elaborato un conteggio applicando il criterio correttivo indicato dal giudice, e cioè considerando avvenuto un unico movimento contabile, pari alla differenza tra i due saldi (ultimo ed iniziale) conosciuti, con valuta il giorno successivo al saldo meno recente; il risultato del conteggio è un saldo negativo (Euro 102.062,93) superiore a quello portato dall’ultimo estratto conto in atti, per cui comunque la domanda attorea andrebbe respinta.
2.1 Preliminarmente va esaminata l’eccezione di prescrizione sollevata dalla parte convenuta, con esclusivo riferimento al conto n. (…), perché, come detto, l’altro è stato aperto dopo i dieci anni prima della notifica della citazione, e comunque in relazione ad esso la domanda è infondata per le ragioni dette, per cui in relazione ad esso nulla quaestio.
Sul punto vanno richiamati ed applicati i principi enunciati dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nella nota pronuncia n. 24418/2010:
– L’azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale;
– la prescrizione decorre: a) nell’ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. Infatti, nell’anzidetta ipotesi ciascun versamento non configura un pagamento dal quale far decorrere, ove ritenuto indebito, il termine prescrizionale del diritto alla ripetizione, giacché il pagamento che può dar vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte del “solvens” con conseguente spostamento patrimoniale in favore dell'”accipiens”; b) qualora, invece, durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato versamenti tali da poter essere considerati alla stregua di pagamenti passibili di ripetizione (ove risultino indebiti) – con ciò intendendosi i pagamenti che abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca, e cioè i versamenti eseguiti su un conto in passivo (o, come in simili situazioni si preferisce dire “scoperto”) cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o i versamenti destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento – la prescrizione decorre dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati;
– quanto al riparto dell’onere della prova, questo giudice ritiene di aderire all’orientamento della giurisprudenza di legittimità espresso di recente nella pronuncia n. 4372/2018, in cui la Suprema Corte, premesso che l’eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, e cioè l’inerzia del titolare, e manifestato la volontà di avvalersene, e che ai fini della valida proposizione della domanda di ripetizione non si richiede che il correntista specifichi una ad una le rimesse da lui eseguite, che, in quanto solutorie, si siano tradotte in pagamenti indebiti a norma dell’art. 2033 c.c., ha affermato che “Non si vede, dunque, per quale ragione la banca che eccepisca la prescrizione debba essere gravata dell’onere di indicare i detti versamenti solutori (su cui la detta prescrizione possa, poi, in concreto operare) quando nemmeno l’attore in ripetizione è tenuto a precisare i pagamenti indebiti oggetto della pretesa azionata. Il carattere solutorio o ripristinatorio delle singole rimesse non incide, dunque, sul contenuto dell’eccezione, che rimane lo stesso, indipendentemente dalla natura, solutoria o ripristinatoria, dei singoli versamenti: semplicemente, la distinzione concettuale esistente tra le diverse tipologie di versamento imporrà al giudice, se del caso con l’ausilio del consulente tecnico, di selezionare giuridicamente le rimesse che assumano concreta rilevanza ai fini della ripetizione dell’indebito e della prescrizione. In conseguenza, come osservato, si deve escludere che la banca, convenuta in ripetizione, fosse onerata dell’allegazione specifica delle rimesse solutorie, e dunque dell’indicazione degli importi con cui la società correntista avesse provveduto a ripianare esposizioni debitorie che si collocavano oltre il limite dell’affidamento”.
Nel caso di specie, la banca, nel sollevare l’eccezione di prescrizione, ha dedotto che il conto non era affidato. In applicazione della giurisprudenza richiamata, ma anche in considerazione dell’impossibilità di onerare la parte della prova di un fatto negativo, non si ritiene che la stessa dovesse anche dimostrare che il conto non era affidato.
A fronte di tale deduzione, la correntista non ha fornito alcuna prova contraria, e, anzi, ha formulato allegazioni ambigue e per certi versi contraddittorie: dapprima, nella prima memoria ex art. 183 co. 6 c.p.c., si è limitata ad eccepire che la banca convenuta non aveva dimostrato che il conto non era affidato, senza dire nulla sull’esistenza di un affidamento; solo nella comparsa conclusionale, e, quindi, tardivamente, ha valorizzato alcuni indici a suo dire attestanti l’esistenza di un affidamento sin dall’apertura del conto.
In ogni caso, volendo fare applicazione del principio espresso dalla Cassazione, e, quindi, ritenere che, una volta prodotti gli estratti conto, la verifica dell’esistenza o meno di un fido di fatto possa essere demandata dal giudice al consulente tecnico, nel caso di specie il c.t.u. ha affermato di non poter dire con sufficiente certezza che il conto fosse affidato, e, soprattutto, quale fosse il limite dell’affidamento.
In particolare, il c.t.u. ha sì rilevato che nel periodo dal 31.12.1997 al 2.2.2005 il saldo del conto è stato quasi costantemente negativo, ed ha raggiunto un picco massimo di scoperto pari ad Euro 280.382,27 il 17.5.2001, e di non aver rinvenuto in atti comunicazioni della banca di invito al rientro, ma ha anche affermato di non aver rinvenuto alcun contratto di pattuizione di fido, né altri elementi presuntivi maggiormente indicativi nel senso della presenza di un affidamento di fatto, e, soprattutto, tali da poter individuare il valore del fido, quale, come indicato nel quesito, l’indicazione, anche solo negli estratti conto, di differenti tassi di interesse “entro – fuori fido” o di “interessi per sconfinamento”, o altre espressioni denotanti in maniera inequivocabile la presenza di un affidamento e non di meri scaglioni differenziati di tasso di interesse (ha valorizzato questo indice ad es. Trib. Torino, n. 11.3.2015, (…)).
Né appaiono dirimenti gli elementi indicati dalla parte attrice nella comparsa conclusionale: l’indicazione in alto a destra del contratto di conto corrente del 12.6.1995, peraltro poco leggibile nella copia in atti (l’attrice dice essere “fido in c/c, ma si legge chiaramente solo fido, e le altre lettere con sembrano due “c”), sotto la dicitura “libero, vincolato, forma affidamento”, non è sufficiente a far ritenere che il conto fosse già affidato, ben potendo indicare la possibilità di futuri affidamenti a valere sul conto, e, comunque, non consente di individuare il limite del fido; il fatto che (…) abbia prodotto due contratti di affidamento del 2012 e del 2014, così come anche il fatto che sul conto siano stati negoziati assegni di rilevante importo, sono elementi che non dimostrano in modo sufficientemente univoco l’esistenza del fido anche per il periodo precedente, e, ancora una volta, quale fosse il limite del fido.
Pertanto, si ritiene di utilizzare l’ipotesi di conteggio elaborata dal c.t.u. reputando il conto non affidato, e quindi, considerando solutorie tutte le rimesse effettuate nel periodo in considerazione per riportare il conto a zero, escludendo dalle rettifiche contabili tutte le scritturazioni a debito del correntista per capitalizzazione trimestrale di interessi, commissioni e spese non validamente pattuite, eseguite su conto in passivo o extrafido e seguite da versamenti del correntista in data anteriore al decennio precedente la notifica dell’atto di citazione, effettuata in data 2.2.2015.
2.2 Il punto della domanda con cui si denuncia l’illegittima capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi è fondato, con esclusivo riferimento al rapporto di conto corrente n. (…) (già n. (…)) e nei limiti e per le ragioni appresso indicate, e con i risultati di cui si dirà.
Il c.d. anatocismo bancario è attualmente disciplinato dall’art. 120, comma 2, del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (T.U.B.) – introdotto dall’art. 25, comma 2, del D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 342 e modificato dall’articolo 1, comma 629, della L. 27 dicembre 2013, n. 147 e poi dall’articolo 17 bis del D.L. 14 febbraio 2016, n. 18, convertito con modificazioni dalla L. 8 aprile 2016, n. 49 – che ha attribuito al Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (C.I.C.R.) il potere di stabilire le modalità e i criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria.
Con deliberazione del 9 febbraio 2000 (adottata in attuazione di quanto previsto dall’art. 25, comma 2, del D.Lgs. 4 agosto 1999, n. 342 e pubblicata nella G.U. del 22 febbraio 2000, n. 43) il C.I.C.R. ha stabilito le modalità di calcolo degli interessi nei rapporti bancari regolati in conto corrente, prevedendo che:
1) l’accredito e l’addebito degli interessi deve avvenire sulla base dei tassi e con le periodicità contrattualmente stabiliti e il saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità;
2) nell’ambito di ogni singolo conto corrente deve essere stabilita la stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori;
3) il saldo risultante a seguito della chiusura definitiva del conto corrente può produrre interessi se ciò è stato contrattualmente stabilito, ma su tali interessi non è consentita la capitalizzazione periodica.
Alla luce di quanto stabilito dall’art. 2 della deliberazione del C.I.C.R. del 9 febbraio 2000 si deve quindi ritenere pienamente legittima la capitalizzazione degli interessi pattuita mediante apposite clausole contenute nei contratti stipulati dopo l’entrata in vigore di tale delibera (cioè a decorrere dal 22 aprile 2000, sessantesimo giorno successivo alla pubblicazione della delibera nella Gazzetta Ufficiale).
Quanto ai contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della deliberazione del C.I.C.R., l’art. 7 della delibera consente la capitalizzazione degli interessi sul saldo periodico del conto, previo adeguamento delle condizioni contrattuali entro il 30 giugno 2000 mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e con effetto a decorrere dal 1 luglio 2000.
Ciò premesso quanto alla validità delle clausole di capitalizzazione degli interessi contenute nei contratti stipulati (o adeguati) dopo l’entrata in vigore della deliberazione C.I.C.R. del 9 febbraio 2000, secondo un consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale devono invece essere dichiarate nulle per violazione dell’art. 1283 c.c. le clausole che prevedevano la capitalizzazione degli interessi nei rapporti bancari regolati in conto corrente anteriormente all’adeguamento imposto dalla deliberazione del C.I.C.R. (Cass. n. 2374/1999, Cass. n. 3096/1999, Cass. n. 12507/1999, Cass. n. 6263/2001, Cass. n. 4498/2002, Cass. n. 8442/2002, Cass. n. 14091/2002, Cass. n. 2593/2003, Cass. n. 12222/2003; Cass., Sez. Un., n. 21095/2004; Cass., Sez. Un., n. 24418/2010).
Al riguardo si è osservato che:
a) l’art. 1283 c.c. – che contiene una disposizione a carattere imperativo e come tale inderogabile dalle parti – ammette la possibilità che gli interessi scaduti possano produrre ulteriori interessi nella sola ipotesi di interessi dovuti per almeno un semestre (qualora venga proposta una domanda giudiziale, ovvero per effetto di una convenzione successiva alla scadenza degli interessi);
b) l’art. 1283 c.c. potrebbe essere derogato da usi contrari a carattere normativo (artt. 1 e 8 prel.), consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento, accompagnato dalla convinzione che si tratti di comportamento (non dipendente da mero arbitrio soggettivo, ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (opinio juris ac necessitatis);
c) deve escludersi che sia mai esistita una consuetudine normativa in virtù della quale nei rapporti tra banca e cliente gli interessi a carico di quest’ultimo potessero essere capitalizzati ogni trimestre;
d) nessun rilievo possono assumere al riguardo le c.d. norme bancarie uniformi predisposte dall’associazione di categoria (A.B.), trattandosi di proposte di condizioni generali di contratto indirizzate dall’associazione alle banche associate, aventi natura pattizia e quindi idonee a determinare un uso meramente negoziale;
e) l’orientamento giurisprudenziale di legittimità formatosi prima di Cass. 2374/1999 non ha mai affermato l’esistenza di una norma consuetudinaria avente i caratteri dell’uso normativo, essendosi la Cassazione limitata ad affermare – sulla base di un dato di comune esperienza – che l’anatocismo trova generale applicazione nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, senza che tale prassi derogatoria possa assurgere al rango di regola generale ed astratta e, quindi, a fonte del diritto;
f) non vi è alcun elemento idoneo a giustificare la conclusione che esistesse, prima del 1942, un uso normativo inerente la capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente di un istituto di credito;
g) la comune esperienza insegna che i clienti delle banche si adeguavano all’inserimento di tali clausole non perché ritenute conformi a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito in conformità con le direttive dell’associazione di categoria, clausole che non erano suscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva un presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari.
Tali principi sono stati definitivamente ribaditi da Cass., Sez. Un., n. 21095/2004, che ha espressamente escluso che un uso normativo relativo alla capitalizzazione degli interessi dovuti alla banca possa fondarsi sulla giurisprudenza formatasi a partire da Cass. n. 6631/1981 (che riconobbe la legittimità della relativa clausola contrattuale) e costantemente seguita dai giudici di legittimità fino al revirement del 1999.
In applicazione di tali principi va dunque dichiarata la nullità della clausola contrattuale (art. 7) che, nel contratto di conto corrente n. (…), prevede la chiusura contabile trimestrale del conto corrente che risulti a debito e la capitalizzazione degli interessi passivi maturati sulle somme dovute dal cliente alla banca, con conseguente diritto per il cliente di ripetere gli eventuali pagamenti già effettuati a tale titolo (ovvero di rifiutare legittimamente il pagamento degli interessi ancora dovuti in virtù di tale clausola e che risultino computati dalla banca nel saldo passivo del conto corrente di cui venga chiesto il pagamento).
Dichiarata la nullità della clausola contrattuale che consente la capitalizzazione trimestrale, e posto che il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 cod. civ. osterebbe anche ad un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale, gli interessi a debito del correntista devono infatti essere calcolati senza operare alcuna capitalizzazione (Cass., Sez. Un., 24418/2010). Va precisato che, nel caso di specie, il contratto, come detto, è stato stipulato prima dell’entrata in vigore della delibera C.I.C.R., e la banca convenuta ha depositato, in allegato n. 5 alla comparsa di risposta, prova dell’avvenuta pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’avviso di adeguamento alla delibera. Pertanto, correttamente il consulente ha operato il ricalcolo applicando la capitalizzazione trimestrale delle competenze attive e passive a far data dall’1.7.2000.
2.3 Quanto alla commissione di massimo scoperto, la parte attrice deduce che la stessa sarebbe stata addebitata illegittimamente, perché priva di causa lecita e pattuita in modo non sufficientemente determinato.
Prima degli interventi normativi succedutisi tra il 2009 e il 2012, l’espressione “commissione di massimo scoperto” è stata utilizzata nella prassi bancaria per individuare una pluralità di fattispecie che spaziavano dal pagamento di una somma percentuale calcolata sull’affidamento accordato dalla banca e non utilizzato dal cliente (commissione di mancato utilizzo), al pagamento di un corrispettivo alla banca per aver tenuto a disposizione del cliente una certa somma per un certo lasso di tempo (commissione di affidamento), al pagamento di una somma percentuale sull’ammontare massimo del fido utilizzato (commissione di massimo scoperto), fino alla molteplice combinazione di tali modelli, in cui la commissione era calcolata o meno in funzione di una durata minima di utilizzo del fido – anche con riferimento ai c.d. fidi di fatto derivanti da sconfinamenti di conto corrente (c.d. scoperture) – e applicata, in aggiunta agli interessi, sul picco massimo di prelievi effettuati a valere su una determinata apertura di credito ovvero su una somma pari alla media del suo effettivo utilizzo.
Ciò premesso quanto alla mancanza di una nozione unitaria di commissione di massimo scoperto, si osserva che mentre una parte della giurisprudenza di merito ha ritenuto che le clausole che prevedono il pagamento della commissione di massimo scoperto sono nulle per difetto di causa, altra più condivisibile giurisprudenza di merito ha ritenuto che la commissione di massimo scoperto abbia per certo una sua causa legittima, in quanto, come pure riconosciuto dalla corte di legittimità, costituisce la remunerazione accordata alla banca per la messa a disposizione dei fondi a favore del correntista indipendentemente dall’effettivo prelevamento della somma (cfr. Cass. n. 870/2006): la commissione in parola si risolve, quindi, nel corrispettivo che il finanziatore pretende e percepisce per la concessione della mera possibilità di utilizzo del denaro. Nella prassi bancaria la commissione di massimo scoperto è quantificata attraverso il limite massimo della somma utilizzata nel periodo: ciò è perfettamente in linea con lo schema causale sopra indicato giacché l’impiego di tale importo trova ragione proprio nel fatto che questo sia stato messo a disposizione del cliente. Quanto all’oggetto della prestazione, la giurisprudenza ha ritenuto che tali clausole possano essere validamente pattuite dalle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale, a condizione che:
a) l’onere aggiuntivo che viene posto a carico del cliente risulti determinato o determinabile (art. 1346 cod. civ.), ciò che accade quando siano noti la misura del tasso applicato, i criteri di calcolo della commissione e la sua periodicità;
b) la pattuizione risponda ai requisiti di forma previsti dall’art. 117, comma 4, TUB, che impone la forma scritta ad substantiam per ogni prezzo, condizione od onere praticati nei contratti bancari.
In assenza di tali requisiti non si potrebbe ravvisare l’esistenza di un accordo tra le parti su tale pattuizione accessoria (non potendosi ritenere che il cliente abbia prestato un consenso consapevole, rendendosi conto dell’effettivo contenuto giuridico della clausola e delle sue conseguenze economiche) e l’addebito delle commissioni di massimo scoperto si tradurrebbe in una imposizione unilaterale della banca priva di base giuridica.
Nel caso di specie, come confermato dal c.t.u., la commissione di massimo scoperto è stata oggetto di apposita pattuizione nel contratto di corrente n. (…), nel quale è stato specificato sia l’importo (0,75%) sia il criterio di calcolo della commissione, espressamente definita nel primo contratto di massimo scoperto, e quindi, com’è prassi, applicata sulla punta massima di scoperto del periodo di riferimento, che è quello trimestrale, come indicato nell’art. 7 del contratto.
Dunque, il c.t.u. ha operato il ricalcolo addebitando la c.ms. nella misura pattuita.
2.4 L’attrice ha anche lamentato l’addebito della commissione di istruttoria veloce e di spese non pattuite.
Il c.t.u. correttamente ha applicato solo le spese oggetto di espressa pattuizione, e dal momento della pattuizione. Privo di pregio è il rilievo della banca convenuta, secondo cui le spese andrebbero comunque addebitate in assenza di contestazione degli estratti conto regolarmente inviati nel termine previsto dalla legge, perché la tacita accettazione degli estratti conto ex art. 1832 c.c. non è condotta idonea a superare nullità contrattuali, quale quella relativa all’applicazione di spese in assenza di apposita pattuizione per iscritto, ex art. 117 T.U.B. (cfr., se pure riferita alla nullità della clausola relativa agli interessi ultralegali, Cass. n. 17679/2009; cfr. anche Trib. Milano n. 909 del 26.1.2018, De.: “In tema di contratto di conto corrente, l’approvazione del conto, a norma dell’art. 1832 c.c., non preclude le azioni relativa alla validità ed efficacia dei rapporti obbligatori che hanno generato le annotazioni in conto: l’impugnazione degli estratti conto ha, infatti, ad oggetto esclusivamente errori di calcolo o di scritturazione, la cui rettifica resta preclusa qualora l’estratto conto non venga tempestivamente impugnato, e, di conseguenza, l’omessa tempestiva impugnazione degli estratti conto non comporta, in ogni caso, la rinuncia a far valere diritti derivanti dalla invalidità delle clausole relative al contratto di conto né l’inammissibilità della domanda di ripetizione degli importi illecitamente addebitati in esecuzione di clausole nulle”).
2.5 Ancora, l’attrice ha dedotto che la banca, in determinati trimestri specificamente indicati (IV 1999, III 2000, II 2001, III 2001, II 2002, III 2002, IV 2002, tutti i trimestri del 2003,I 2004, IV 2004, II 2005, III 2006, IV 2006, I 2009, II 2012 per quanto riguarda il conto n. (…)), avrebbe addebitato interessi in misura superiore alla soglia di usura.
Il c.t.u. ha accertato, correttamente calcolando il tasso rilevante ai fini della verifica del superamento in ossequio alle Istruzioni della (…) tempo per tempo vigenti, che i tassi applicati non hanno mai superato la soglia di usura.
2.5 Quanto all’illegittima antergazione e postergazione delle valute, senza indicazione delle operazioni che ne sarebbero state oggetto la domanda è generica, e, pertanto, infondata (e, per questo, sul punto non è stato formulato alcun quesito al c.t.u.).
Riassumendo, i rispettivi rapporti di dare e avere tra le parti vanno ricostruiti optando per le ipotesi di calcolo che il consulente d’ufficio ha eseguito alla luce dei criteri sopra illustrati, e cioè:
– tenendo conto del fatto che nei rapporti bancari oggetto di causa non è mai stato superato il tasso soglia di cui all’art. 2, comma 4, della L. 7 marzo 1996, n. 108;
– conteggiando gli interessi semplici (senza capitalizzazione) sino al 30.6.2000, e applicando la capitalizzazione trimestrale delle competenze attive e passive a far data dall’1.7.2000;
– eliminando gli addebiti per spese non concordate dalle parti, per il solo periodo in cui le stesse sono state applicate in assenza di apposita pattuizione;
– mantenendo gli addebiti per c.m.s..
Alla luce dei conteggi eseguiti – nell’operare i quali il consulente si è attenuto ai criteri dettati dal giudice istruttore ed è giunto a conclusioni pienamente condivisibili, in quanto immuni da errori e vizi logici e basate su un attento ed obiettivo esame della documentazione in atti – risulta che alla data del 31.12.2014 il conto corrente n. (…) presentava un saldo positivo a favore della (…) S.r.l. pari ad Euro 17.617,04.
In conclusione, la domanda di ripetizione dell’indebito va dichiara inammissibile, con riferimento ad entrambi i conti; la domanda di accertamento negativo del credito va accolta con riferimento al conto n. (…), e va dichiarato che il saldo del conto alla data del 31.12.2014 era positivo per l’attrice di Euro 17.617,04, e va, invece, respinta per il conto n. (…).
L’accoglimento solo parziale delle domande attoree integra soccombenza reciproca e giustifica la compensazione integrale delle spese di lite.
Le spese della consulenza tecnica d’ufficio sono poste definitivamente a carico di entrambe le parti in solido.
PER QUESTI MOTIVI
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza, deduzione ed eccezione disattesa, così provvede:
1) dichiara inammissibile la domanda di ripetizione dell’indebito formulata dalla parte attrice;
2) rigetta la domanda di accertamento negativo del credito formulata dalla parte attrice con riferimento al conto corrente n. (…);
3) accerta e dichiara che il conto corrente n. (…) alla data del 31.12.2014 presentava un saldo positivo per la (…) pari ad Euro 17.617,04;
4) dispone la compensazione integrale delle spese di lite;
5) pone le spese della consulenza tecnica d’ufficio, liquidate con separato decreto, definitivamente a carico di entrambe le parti in solido.
Così deciso in Frosinone il 21 luglio 2018.
Depositata in Cancelleria l’1 agosto 2018.