la responsabilità dell’avvocato – nella specie per omessa proposizione di impugnazione – non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone.
Tribunale Milano, Sezione 1 civile Sentenza 21 febbraio 2019, n. 1766
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di MILANO
PRIMA CIVILE
Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Martina Flamini
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 11563/2017 promossa da:
(…) (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. BE.EF., elettivamente domiciliato in PIACENZA, VIA ROMA, 53 presso il difensore
ATTORE
contro
(…) (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. EG.MA. e dell’avv. RU.DA. ((…)), elettivamente domiciliato in MILANO, VIA (…) presso il difensore
CONVENUTO
OGGETTO: Responsabilità professionale dell’avvocato
FATTO E DIRITTO
1. Svolgimento del processo.
Con atto di citazione notificato in data 1.3.2017 L.I. conveniva dinanzi al Tribunale di Milano l’avv. (…) chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti per violazione degli obblighi nascenti dal rapporto professionale.
Parte attrice rappresentava di aver conferito mandato all’avv. (…) per instaurare un giudizio innanzi al Tribunale di Milano per ottenere la condanna della (…) Company LTD, in persona della rappresentanza in (…) srl, e del sig. (…) al risarcimento del danno non patrimoniale subito dall’odierno attore in conseguenza del sinistro occorso in data 25.11.2008 (danno quantificato in complessivi Euro 137.645,00).
Deduceva, inoltre, che il giudizio instaurato si concludeva con sentenza n. 3590/2014 del 13.3.2014 di condanna in solido di H. srl e del sig. (…) al pagamento in favore dell’attore dell’importo di Euro 3.791,56, oltre interessi e rivalutazione monetaria e alla refusione delle spese di lite in favore dell’attore, liquidate nella misura di Euro 2.100,00 oltre IVA e CPA.
Deduceva, infine, di aver conferito mandato all’avv. (…), da ritenersi tra l’altro ricompreso nella procura alle liti rilasciata per il primo grado, per la proposizione dell’appello, ma che quest’ultimo, pur rassicurando l’odierno attore in ordine alla proposizione del gravame, non aveva proposto l’impugnazione.
Concludeva chiedendo: l’accertamento della responsabilità professionale del convenuto per inadempimento ex artt. 1218 e 1176 c.c.; la condanna al risarcimento del danno da perdita di chance, quantificato in Euro 133.000,00, oltre interessi e rivalutazione ovvero nella diversa somma da liquidarsi anche in via equitativa, con vittoria di spese.
Con comparsa depositata in data 11.7.2017 si costituiva l’avv. E. eccependo l’insussistenza del mandato invocato da parte attrice ed evidenziando che lo stesso sig. L., invitato dall’avv. E. presso il suo studio in data 13 giugno 2014 per discutere in ordine alla opportunità di appellare la suddetta sentenza, aveva manifestato la volontà di non voler procedere con la proposizione del gravame sia per ragioni economiche – a fronte della richiesta della corresponsione all’avvocato di un fondo spese – sia per le difficoltà precedentemente rappresentate dallo stesso avv. (…) in ordine al buon esito dell’impugnazione. In quell’occasione, quindi, l’avv. (…) predisponeva una formale rinuncia al mandato e dichiarazione di consegna del fascicolo relativamente alla causa civile conclusasi con la richiamata sentenza (iscritta al n. R.G. 8114/2010) con allegata nota spese, documento che il sig. (…) si rifiutava di sottoscrivere.
Evidenziava, inoltre, l’impossibilità di trasmettere comunicazioni formali al sig. (…) in quanto privo di fissa dimora e solito cambiare spesso il numero di utenza telefonica allo stesso in uso.
Concludeva, quindi, per il rigetto delle domande attoree in quanto infondate e per la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato del sig. (…) in considerazione del carattere temerario e pretestuoso dell’azione proposta nel presente giudizio.
Depositate le memorie ex art. 183, comma 6, c.p.c. (nn. 1, 2 e 3 da parte attrice e nn. 1 e 2 da parte convenuta), il Giudice rigettava le istanze istruttorie e, all’udienza del 25 settembre 2018, precisate da entrambe le parti le conclusioni tratteneva la causa in decisione, con la concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. per comparse conclusionali e repliche, poi depositate da entrambe le parti.
2. La responsabilità professionale dell’avvocato.
Le domande svolte nel presente giudizio richiedono lo svolgimento di alcune preliminari osservazioni di carattere generale in ordine alla responsabilità professionale dell’avvocato.
Al riguardo, deve evidenziarsi che è principio di carattere generale quello per cui le obbligazioni inerenti all’esercizio dell’attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo.
Pertanto, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall’art. 1176, secondo comma, cod. civ., che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione, da commisurare alla natura dell’attività esercitata (cfr. Cass. 6967/2006).
In altri termini, ai fini dell’accertamento della responsabilità del professionista, è richiesta una diligenza qualificata dalla perizia e dall’impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di prestazione dovuta.
Con specifico riferimento alla figura dell’avvocato, la Suprema Corte ha precisato che:
“la responsabilità professionale dell’avvocato deriva dall’obbligo (art. 1176, comma secondo, c.c. e art. 2236 c.c.) di assolvere, sia all’atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, ai quali sono tenuti; a rappresentare tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di chiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall’intraprendere o proseguire un giudizio dall’esito probabilmente sfavorevole” (Cass. 24544/2009).
Trattasi, in sostanza, di una responsabilità per colpa commisurata alla natura della prestazione dovuta, che risulta circoscritta ai casi di dolo o colpa grave unicamente quando la prestazione implichi la risoluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà (ex art. 2236 c.c.).
Ne consegue, pertanto, sotto il profilo dell’onere della prova, che il professionista potrà liberarsi dalla imputazione di ogni responsabilità se ed in quanto dimostri la impossibilità della perfetta esecuzione della prestazione (ex art. 1218 c.c.), o di aver agito con diligenza.
Dall’altro lato, invece, il cliente che sostiene di aver subito un danno, per l’inesatto adempimento del mandato professionale del suo avvocato, avrà l’onere di provare: a) l’avvenuto conferimento del mandato difensivo; b) la difettosa o inadeguata prestazione professionale; c) l’esistenza del danno; d) il nesso di causalità tra la difettosa o inadeguata prestazione professionale e il danno (cfr., Cassazione civile, sez. III, 18/04/2007, n. 9238).
3. Il conferimento dell’incarico professionale e la sua esecuzione.
Nel caso in esame è controverso il conferimento dell’incarico all’avv. E. per la proposizione dell’impugnazione avverso la richiamata sentenza del Tribunale di Milano n. 3590/2014.
In particolare, parte attrice evidenzia che il mandato conferito all’avv. E. con la procura alle liti rilasciata per il giudizio di primo grado doveva ritenersi esteso anche al successivo giudizio di impugnazione, in considerazione del dato letterale inequivoco della stessa procura (cfr. doc. 1 di parte attrice) e che, in ogni caso, anche successivamente alla pronuncia di primo grado, l’attore aveva manifestato all’allora difensore la volontà di proporre il gravame.
Parte convenuta, invece, contesta la ricostruzione avversaria evidenziando che la mancata proposizione dell’appello era da attribuirsi alla condotta del (…) che, convocato dall’avv. (…) presso il suo studio e avvisato delle difficoltà di buon esito del gravame, si rifiutava dapprima di corrispondere la somma richiesta dal difensore quale contributo per la proposizione dell’appello (il cui atto era stato già predisposto dal difensore anche a seguito dell’estrazione di copia della sentenza appellanda), nonché di sottoscrivere la dichiarazione di rinuncia al mandato difensivo predisposta dallo stesso avv. (…) (prodotta da parte convenuta al doc. 5). L’avv. (…) eccepisce, inoltre, in sede di comparsa conclusionale, di non essere tenuto ad adempiere la propria obbligazione a fronte dell’inadempimento della prestazione da parte del (…), invocando il disposto di cui all’art. 1460 c.c. a precisazione della domanda.
Sulla base delle risultanze di causa, deve ritenersi provato il conferimento dell’incarico professionale all’avv. (…) per la proposizione dell’impugnazione avverso la sentenza del Tribunale di Milano, in quanto la procura speciale alle liti rilasciata a margine dell’atto di citazione (doc. 1 parte attrice) indica tra i poteri conferiti all’avvocato anche quello di “proporre appello”, consentendo di rilevare la volontà del cliente di conferire ampio mandato difensivo, superando in tal modo la presunzione di cui all’art. 83, ultimo comma, c.p.c..
Al riguardo, giova richiamare quanto affermato dalla giurisprudenza seppur con riferimento alla proposizione al ricorso per cassazione, ma con considerazioni estensibili anche all’appello, mezzo ordinario di impugnazione, secondo cui
“quando il cliente abbia provato la conclusione del contratto di patrocinio, con il conferimento dell’incarico al legale per agire nei gradi di merito, non è necessario il rilascio di un ulteriore mandato per agire in sede di legittimità, la cui prova sia a carico del primo, sicché la sola circostanza che non sia stata conferita la prevista procura speciale non esclude la responsabilità del professionista per mancata proposizione tempestiva del relativo ricorso, gravando sull’avvocato l’onere di provare di aver sollecitato il cliente a fornire indicazioni circa la propria intenzione d’impugnare la sentenza sfavorevole di secondo grado, di averlo informato di questo esito e delle conseguenze dell’omessa impugnazione, nonché di non aver agito per fatto a sé non imputabile o per la sopravvenuta cessazione del rapporto contrattuale “(Cassazione civile sez. III, 23/03/2017, n.7410).
Si tratta, più specificamente, di un onere che deve ritenersi non assolto nel caso in esame, posto che pur avendo il convenuto rappresentato e ampiamente articolato le difficoltà di instaurare comunicazioni formali con il sig. L., tra gli atti di causa non vi sono elementi che consentono di ritenere provato quanto dallo stesso dedotto.
L’attore ha poi fornito la prova della negligente condotta professionale tenuta dal convenuto: non è contestato, infatti, che il convenuto non ha proposto appello nei termini di legge.
4. Il danno risarcibile.
Così accertata la negligente condotta professionale del convenuto, occorre ora esaminare i profili del danno risarcibile.
Deve al riguardo evidenziarsi che l’attore lamenta il pregiudizio derivante dalla condotta omissiva dell’avvocato (mancata proposizione dell’appello) rappresentato dalla perdita di “chance” del sig. (…) di ottenere una riforma della sentenza emessa in primo grado e, di conseguenza, la possibilità di ottenere un risarcimento “più sostanzioso ed equo rispetto a quello riconosciuto in prima istanza”.
Ai fini dell’accertamento della responsabilità, giova richiamare quanto affermato dalla giurisprudenza con orientamento del tutto condiviso da questo giudice, secondo cui
“la responsabilità dell’avvocato – nella specie per omessa proposizione di impugnazione – non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone” (Cass. n. 2368 del 05/02/2013).
Nel caso in esame, pertanto, una volta accertata la negligente esecuzione della prestazione, occorrerà verificare non soltanto se il pregiudizio lamentato dall’attore e, in particolare, la lamentata perdita di “chance” di ottenere un risultato favorevole sia causalmente riconducibile alla condotta del professionista ma anche se un danno vi sia effettivamente stato, in considerazione del rilievo per cui “la perdita di una “chance” favorevole non costituisce un danno di per sé, ma soltanto – al pari del danno da lucro cessante – se la “chance” perduta aveva la certezza o l’elevata probabilità di avveramento, da desumersi in base ad elementi certi ed obiettivi” (cfr. Cass, Sez. 3, Sentenza n. 22376 del 10/12/2012 che ha confermato la sentenza di merito, la quale aveva escluso la responsabilità di un avvocato per aver provocato l’estinzione del giudizio di merito, in base all’assunto che non vi era alcuna certezza del fatto che, se non vi fosse stata l’estinzione, la pretesa del cliente sarebbe stata accolta).
Infatti, l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno da lucro cessante o da perdita di “chance” esige la prova, anche presuntiva, dell’esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile (Cass. sez. 3, Sentenza n. 11353 del 11/05/2010)
In applicazione dei richiamati principi, quindi, per valutare se, possa essere riconosciuta all’attore, a titolo di danno risarcibile, la somma dallo stesso richiesta – differenza tra quanto richiesto nel giudizio contro la compagnia assicurativa e il responsabile del sinistro e quanto risarcito dal Tribunale di Milano – occorre verificare se la proposizione dell’appello avrebbe avuto in termini probabilistici possibilità di accoglimento e se il risultato sarebbe stato diverso e più favorevole all’assistito ovvero se, ove l’avv. (…) avesse ritualmente proposto appello, il (…) avrebbe ottenuto il risarcimento del danno nella misura richiesta.
Ritiene questo giudice che, anche in caso di appello, il (…) non avrebbe avuto concrete ed apprezzabili possibilità di riforma della decisione del giudice di prime cure.
In primo luogo, infatti, deve evidenziarsi che le censure mosse dall’odierno attore alla sentenza del Tribunale di Milano, non prospettando una diversa ricostruzione dei fatti ovvero un errore di valutazione o motivazione si pongono, in realtà, come una mera riproposizione delle deduzioni svolte nel primo giudizio (e sollevate proprio dall’avv. (…), come del resto più volte sottolineato dall’odierno attore).
Venendo ad esaminare le singole censure che, ad avviso dell’attore, avrebbero con buona probabilità portato ad una riforma della sentenza in questione ove fosse stato proposto appello, ci si deve innanzitutto soffermare sulla sussistenza del nesso causale tra il sinistro e, in particolare, l’urto patito dal Sig. (…) e la patologia consistente nella sordità bilaterale di cui è affetta la vittima.
Sul punto, la pronuncia evidenzia che “stando alle risultanze dell’elaborato del tutto logiche e coerenti con i dati acquisiti, che si condividono, il quadro di sordità neurosensoriale bilaterale che presenta l’attore appare del tutto inverosimile che possa essere derivato dal trauma, peraltro a carattere minore, avendo il danneggiato urtato contro la testa di altro occupante la vettura, e che non ha prodotto lesioni metatraumatiche clinicamente obiettivabile, occorsogli nell’incidente, in quanto i criteri con cui ritenere soddisfatto il riferimento eziologico fra l’evento e la patologia lamentata appaiono, che siano di carattere cronologico, topografico, di adeguatezza lesiva e di esclusione di altre patologie, insostenibili, atteso che la compromissione uditiva ha carattere bilaterale e simmetrica, per cui non può essere posto in nesso con l’urto subito, ma è da ricondursi ad una meiopragia costituzionale e/o cocleoeredopatia”.
Ad avviso dell’attore, tali statuizioni appaiono meritevoli di una riforma in sede di gravame in quanto fondate su valutazioni del CTU da ritenersi non condivisibili per diverse ragioni e, in particolare, perché il CTU non avrebbe considerato le osservazioni dei consulenti di parte (relazione del 28.10.2009 Prof. Dott. Ca.Go. e relazione del 4.5.2010 del Dott. Be.) in merito: – alla circostanza per cui “il paziente non accusò inizialmente alcun deficit uditivo”, circostanza evidenziata dalla visita ORL eseguita in data 23.1.2009 con il risultato audiometrico di “grave ipoacusia percettiva bilaterale ingravescente sui toni acuti”; – alla possibilità di ricondurre la grave situazione uditiva post traumatica dell’attore sia al trauma cranico che al colpo di frusta causati dall’incidente automobilistico.
Al riguardo, ritiene questo giudice che le censure mosse dall’attore appaiono infondate e che, in ogni caso difficilmente avrebbero condotto ad una riforma della sentenza in sede di appello.
In relazione al primo profilo deve evidenziarsi, infatti, che le deduzioni attoree, basate su documentazione medica di parte, pongono in evidenza i sintomi presentati dal (…), non le cause dei medesimi, rilevando, tra l’altro, una diagnosi (grave ipoacusia percettiva bilaterale ingravescente sui toni acuti) perfettamente compatibile con le conclusioni cui è giunto il CTU.
Inoltre, le conclusioni della consulenza tecnica, fatte proprie dalla pronuncia in esame, appaiono chiare nell’affermare, proprio in risposta alle osservazioni attoree e con le argomentazioni meglio esplicitate nella relazione, che “la sordità in questione non può essere in alcun modo attribuita all’evento lesivo denunciato, non potendo essere sostenuta da qualsivoglia argomento medico giuridico contrario”.
Tali osservazioni consentono di ritenere, pertanto, che l’odierno attore non avrebbe avuto alcuna probabilità di accoglimento delle pretese relative al riconoscimento della domanda risarcitoria, in considerazione dell’accertamento dell’insussistenza del nesso causale tra evento lesivo e danno, rispetto al quale è irrilevante – nel presente giudizio – l’accertamento delle cause della patologia lamentata dal L. (che secondo la prospettazione attorea sarebbe stato condotto con un criterio probabilistico).
Analoghe considerazioni possono essere svolte con riferimento alle censure attoree relative alla possibilità di rinnovazione/integrazione della CTU ad opera della Corte d’Appello in quanto le deduzioni del (…) non prospettano alcun vizio della relazione, differente da quelli già dedotti dall’avv. (…) nel giudizio che ha condotto alla sentenza del Tribunale di Milano.
Sul punto è sufficiente richiamare quanto affermato dalla suddetta pronuncia “le critiche svolte alla consulenza tecnica da parte del perito attoreo sono state prese in considerazione dal destinatario e superate con le osservazioni depositate e le conclusioni cui è giunto il perito d’ufficio appaiono chiarissime, e tali da non necessitare di alcun chiarimento, e tanto meno da ritenere che si debba procedere a una rinnovazione dell’incombente, che non è affetta da vizio alcuno”.
Anche in relazione a tale profilo, pertanto, questo Giudice ritiene che, in caso di proposizione dell’appello, il L. non avrebbe avuto concrete possibilità di veder accolta la propria domanda risarcitoria.
Infine, con riferimento alla quantificazione del danno alla persona che la richiamata sentenza accerta essere derivato dal sinistro e, in particolare, alla decurtazione del 50% a carico del danneggiato per l’aggravamento del danno derivante dal mancato uso delle cinture di sicurezza, deve evidenziarsi che, anche in caso di proposizione dell’appello, non vi sarebbero state concrete possibilità di riforma della decisione sul punto.
Da un lato, infatti, le allegazioni dell’attore appaiono generiche nell’affermare l’irrilevanza eziologica del mancato uso delle cinture di sicurezza rispetto al danno patito – senza fornire elementi probatori a supporto – dall’altro lato, le statuizioni appaiono chiare e precise nel delineare le ragioni e i criteri seguiti per la quantificazione del suddetto danno.
Alla luce delle considerazioni che precedono, ritiene questo giudice che, anche in caso di eventuale giudizio di secondo grado, l’odierno attore non avrebbe avuto alcuna probabilità di accoglimento delle pretese relative al riconoscimento della domanda risarcitoria nella misura richiesta. Pertanto, anche ove l’avv. (…) avesse adempiuto in modo diligente all’incarico professionale allo stesso conferito dal (…), quest’ultimo non avrebbe potuto comunque conseguire alcuna somma maggiore rispetto a quella liquidata dal giudice di prime cure.
Per tali ragioni non è quindi risarcibile la perdita di chance, non essendo nella specie ravvisabile alcun pregiudizio in termini concreti.
Infatti, l’accoglimento della domanda di risarcimento da lucro cessante o da perdita di chance esige la prova, anche presuntiva, nella specie assolutamente non raggiunta, dell’esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile (cfr. Cass. n. 15385/2011).
Alla luce delle argomentazioni appena svolte si ritiene, inoltre, che non sussistano i presupposti per la revoca del beneficio dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, di cui all’art. 136, comma 2, D.P.R. n. 115 del 2002, in quanto i motivi della presente pronuncia – che ha accertato comunque l’inadempimento del professionista – consentono di escludere che l’attore abbia agito in giudizio “con malafede o colpa grave”.
Sussistono, infine, giusti motivi per compensare, di un terzo, le spese di lite che, nel resto, seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale di Milano, ogni diversa istanza eccezione e difesa disattesa, definitivamente pronunciando così provvede:
1) Rigetta le domande di parte attrice;
2) Compensa, nella misura di 1/3 le spese di lite tra le parti, e condanna a rimborsare al convenuto, le restanti spese di lite, che liquida in complessivi 4.195,00 euro, oltre i.v.a. e c.p.a come per legge.
Così deciso in Milano il 20 febbraio 2019.
Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2019.